rivista anarchica
anno 32 n. 283
estate 2002


anarchici

Ritratti in piedi
Dialoghi fra storia e letteratura

a cura di Massimo Ortalli

Ritratto in piedi

Mi piace concludere questo primo ciclo della rubrica Ritratti in piedi, parlando, finalmente, del libro e del personaggio che ne hanno ispirato il titolo (Gianna Manzini, Ritratto in piedi, Milano, Mondadori, 1971). E poter rendere, così, non solo il dovuto omaggio all’autrice, alla “figlia del Manzini”, e alla sua capacità di tracciare, sulla base dei ricordi emersi da una sofferta rimozione, una sorta di biografia collettiva di tutto un movimento, ma anche, e soprattutto, a Giuseppe Manzini ed alla sua vita esemplare, esemplare non solo per la limpidezza del percorso e delle vicende, ma anche perché in essa si ritrovano i caratteri essenziali degli altri “ritratti” che ho sottoposto all’attenzione dei lettori di A-rivista anarchica. Sono convinto, infatti, che nella figura di Manzini siano concentrati i tratti caratteristici delle biografie di tantissimi anarchici, vissuti non importa dove e non importa quando: e mi riferisco alla loro modestia, al lasciare di sè il ricordo delle idee oltre a quello delle azioni, all’eroismo quotidiano, incompreso o sottovalutato, eppure così importante per il civile progredire della società, al rifiuto di imporre, e subire, il principio d’autorità.
Ma non è solo la figura pubblica del militante anarchico quella che descrive Gianna Manzini, è anche, e con uguale intensità, la figura privata, del padre così vicino e così lontano, dell’uomo ammirato per la coerenza ma anche incompreso per le impossibili scelte di vita, di colui che dapprima fu fonte di orgoglio per la bambina rispettata come un’adulta e poi una imbarazzante presenza per la giovinetta che si affaccia alla vita. Purtuttavia questo passato, tanto difficile da accettare, è alfine riemerso, evocato dall’amore di una figlia che ne ha riscoperto, felicemente, la nascosta grandezza, la originale unicità, la delicatezza affettuosa fatta di piccole complicità e di grande rispetto.
Nato e vissuto a Pistoia, fra il 1865 e il 1925, giovanissimo aderente, pur se di estrazione borghese, all’Internazionale dei Lavoratori, amico di Malatesta, dei coniugi Pezzi, di Gori e dei più cari compagni toscani, Manzini partecipò con ardore e impegno costante alla vita del movimento anarchico. Disposto anch’egli, come i tanti “cavalieri dell’ideale” che affollavano allora le sezioni dell’Internazionale, a sacrificare ogni interesse personale sul terreno dei principi, ebbe ripetute occasioni per pagare di persona, negli affetti e nelle sostanze, la coerenza coi suoi ideali di emancipazione e di libertà. Osteggiato dalla famiglia della moglie e dal cognato industriale, calunniato, costretto a vedere, solo in modo saltuario e rubato alla sorveglianza della bambinaia, l’amatissima figlia, il suo fermo carattere non solo gli impedì di piegarsi ai soprusi del potere e alle ristrettezze della sua modesta attività di orologiaio, ma gli fece trovare, nella fratellanza coi compagni e con le idee che li animavano, intensi momenti di gioiosa passione. Le amarezze della vita dovevano ben cedere il passo all’entusiasmo dell’ideale. E anche i suoi ultimi anni, trascorsi al confino nel piccolo paese di Cutigliano, lo vedono sempre, nonostante le avversità e le persecuzioni fasciste che lo porteranno alla morte, diritto nel portamento e nella condotta di vita.
Quando Gianna Manzini ricorda i momenti che animavano il padre allorché ritrovava nella presenza dei compagni il senso profondo del proprio impegno, nascono, a mio parere, le pagine più belle del racconto. Famosa rimane la descrizione (qui proposta) della visita clandestina che il latitante Errico Malatesta compie al negozio di Giuseppe, la gioia emozionata, la felicità di ritrovare accanto a sé l’amico più caro e il compagno più vicino ai suoi forti ideali dell’anarchismo sociale. Parlare di Malatesta e della sua indefessa opera di propaganda richiederebbe ben più delle pagine della rivista, per cui mi limito a citare un brano di Adriana Dadà (Adriana Dadà, L’anarchismo in Italia: fra movimento e partito, Milano, Teti, 1984) nel quale viene efficacemente sintetizzata la figura del grande anarchico campano. Meno famosa, ma non meno bella, è la descrizione, sospesa tra il ricordo e l’immaginazione, del passaggio “degli anarchici”, fieri e invincibili, per le vie di Pistoia : “Passavano. Quanti? Pochi. Trenta, quaranta. Ma l’ardimento li moltiplicava; e moltiplicava lo sventolio delle bandiere”. E nel loro canto una malinconia gagliarda. La gagliardia che nasceva dalla consapevolezza delle proprie ragioni, la malinconia che dava lo struggimento per le quotidiane ingiustizie di cui erano testimoni.
Tutta l’opera della Manzini risuona del canto degli anarchici, del canto vissuto come l’afflato condiviso in cui si esprime la prefigurazione di una società di liberi ed uguali. L’autrice ricorda un 1° maggio passato col padre, una meravigliosa giornata di festa non solo a coronamento di una stagione di lotte, ma anche momento fondamentale per ritrovarsi, e riconoscersi, come fratelli e compagni. E le strofe di Addio Lugano bella si prestano a commentare l’energia che unisce le avanguardie dell’emancipazione sociale, in un giorno, finalmente, di festa. Partendo, naturalmente, da un’altra angolazione, ma facendo considerazioni pienamente coincidenti, Maurizio Antonioli (Maurizio Antonioli, Vieni o Maggio, Milano, Angeli, 1988) illustra l’importanza che la giornata del 1° maggio aveva come occasione di socializzazione e di incontro collettivo.
È raro che un racconto costruito solo sulla memoria riesca a penetrare così efficacemente lo spirito di una generazione, tanto più quando a ricordare è chi, da quella generazione di “cavalieri dell’ideale” se ne distaccò volontariamente. Eppure da queste pagine emerge non solo la straordinaria figura dell’anarchico e internazionalista Giuseppe Manzini ma il comune sentire di tutta una schiera di militanti, ripetutamente colpita dalla più dura repressione, ripetutamente sconfitta dalla crudeltà dell’esistenza, eppure, nonostante tutto, né china né curva sotto il fardello del potere e dell’autorità.

Massimo Ortalli

Nella sommaria bibliografia sul ruolo dell’anarchismo nella rivoluzione messicana, apparsa nella rubrica Ritratti in piedi del numero precedente della rivista, ho purtroppo dimenticato di citare il recente e interessantissimo saggio di Salvador Hernandez Padilla apparso sul n. 2 del 1998 della Rivista Storica dell’Anarchismo (Salvador Hernandez Padilla, Ricardo Flores Magon: una vita in rivolta).
Provvedo ora, scusandomene con i lettori.

Una linea
decisa

di Gianna Manzini

E in questo tran-tran, in questa noia organizzata, lo scossone degli anarchici. Passavano, cantando.
Passavano. Quanti? Pochi. Trenta, quaranta. Ma l’ardimento li moltiplicava; e moltiplicava lo sventolino delle bandiere. La decisione del passo poi sbalordiva. E nel loro canto una melanconia gagliarda. Sissignori. Malinconia gagliarda; impeto e struggimento insieme. Scaturiva da una bruma antica; e avvampava.
(Il notaio Bellizoni stava facendosi la barba. Si riscosse, e, buttato il rasoio nel lavabo, con mezza faccia insaponata e l’asciugamano intorno al collo si precipitò in salotto, a strappare le donne dalle finestre. “A starli a guardare gli diamo importanza, non lo capite? Che c’è da vedere in quattro scalmanati? Via!” e chiudeva i vetri. “Per scancellarli, basta non guardarli.”
Ma quel canto triste e veemente saliva fino a lui. Fermo, a occhi sbarrati e con i ginocchi rigidi, aspettava, senz’ammetterlo, una nota falsa, uno strappo: no; sentiva soltanto come un respiro, pieno, concorde. Sapeva bene che si trattava di gente per lo più povera, di petti per lo più gracili; eppure, insieme, che compattezza, che sicurezza, che onda come di mare.
“Non avete proprio nulla da fare, voi donne?”
In verità chi non si muoveva era lui, il notaio. A un metro dalla finestra, rimaneva in ascolto di quel canto che allontanandosi si affievoliva, senza pur disperdersi, anzi diventando più penetrante; e gli filtrava dentro una tristezza mortale; un risucchio che lo portava fuori dalla sua povera vita, puntellata da problemi di guadagno, spalleggiata da conti in banca. Un lampo di veridica follia lo aveva attraversato. Abominevole tristezza.
Colpa di quegli ossessi se l’acqua nel lavandino si fosse raffreddata! L’offendeva sentirli planare al di sopra di tutto con la bellezza trascinante del loro “sragionare”.
“Che non si debba essere lasciati in pace!”
E del pari al notaio Bellinzoni, innumerevoli altri.
Mentre venivano giù da piazza Mazzini, occupando tutta la strada, a passo scandito, chi poteva non accorgersi che una ribadita intransigenza li spingeva ad amare vertiginosamente, magari distruggendo?
Pochi? Che conta? Appartengono alla storia; hanno questa fatale importanza. A dispetto di quelli che osano trovare il nostro mondo senza ragione, trottola che gira su se stessa, loro, gli anarchici, tracciano una linea decisa. Anni, secoli avanzano; e, nel presente, è già l’incandescente domani che palpita.
Passavano, irradiando paura ed ebbrezza. Poi, l’ordine che succedeva sembrava rimarginare frettolosamente una ferita che non aveva sanguinato.

 

Un curioso tipo,
agilissimo
di Gianna Manzini

Quand’ecco, entra un uomo piuttosto piccolo, togliendosi il cappello. Ha i capelli, la barba e i baffi rossi.
Quasi grida:
«Beppino!»
E mio padre, raggiante:
«Errico! Subito, di qua, vieni».
Lo portò dietro una tenda che divideva la bottega: un vano dove teneva l’attaccapanni, un tavolino, con pochi libri, insieme ad un candeliere e due sedie. Tenendomi per mano, mi trascinò con loro due. Accese la candela.
Di colpo, con gesto fulmineo, quell’uomo si tolse parrucca, barba e baffi. Ero trasecolata.
Invece della figura piccola, ma imponente, d’un momento fa, avevo davanti un curioso tipo, agilissimo, dal viso smunto, con gli occhi brillanti e fanciulleschi.
Finalmente le favole avevano libero corso nella vita, anzi l’autenticavano. Un riccio spinoso si apre; e la castagna dentro è dolce, bianca. Emanava da lui una sorta di eccezionale prestigio: una dignità, un’investitura che gli veniva da lontano; e che egli sembrava volere ignorare. Un raggio, simile a un secondo sguardo, raggiungendoci, invitandoci, riportava subito lo scambio umano alla più semplice e infallibile comunicazione. Era una presa di possesso superbamente autonoma che tuttavia autorizzava un’affettuosa parità e un’infinita confidenza.
E così l’importanza di questo avvenimento che era la sua presenza in quella bottega, questa eccezionalità, che poteva essere un’apoteosi o una catastrofe, prendeva l’aria appena di un’impertinenza, di una scappata, d’una affabile, sorridente circostanza. Infatti, subito si buttò su una sedia; parrucca, barba e baffi a’ suoi piedi; e mi fece balzare sulle sue ginocchia.
«Giannina, è Malatesta, è Malatesta»
E l’amico, tenendomi le mani e facendomi saltare:
«Cavallino giò, giò, giò / prendi la biada che ti do».
E poi:
«Di che colore hai gli occhi, Giannina?»
«Neri.»
«Invece, no; sono marrone. Vedi che non hanno saputo neppure vedere di che colore hai gli occhi? Neri, è più sbrigativo, ma non è vero. Sono marrone un pochino punteggiati diciamo d’oro.»
Ridevo, beata. Tutto sembrava scompigliato, sovvertito; ma si trattava di un sovvertimento ritmato, modellato., orientato, trasferito in musica. Una musica fatta con l’autentico brusìo della vita.
Il ginocchio sbucciato «Lo sapevi di non dover saltare il muretto. Guai a te; guai a te...») diventava un merito; e di non aver voluto dire la poesia, sebbene la sapessi, perché non mi piaceva, potevo vantarmi; e quando mi misero in castigo con la faccia al muro, il torto era di chi mi ci aveva, messo, perché non si fa così con una bambina, anche se sbaglia.
Proprio tutto si scopriva vero ed acceso, di una difficoltà-facile, d’una novità brillante, d’un azzardo impunibile che inebriava. Era bastato un momento per trovarci tanto avanti a noi stessi. Si capisce che dovesse essere bello stargli accanto, anche per poco. Altro che un blasone, la sua amicizia; altro che una ricompensa.
«Ma hai tempo, Errico, hai tempo?»
«Il tempo per far festa alla tua figliola devo averlo.
E poi, lo sai, io corro al momento giusto, e mi soffermo al momento giusto. Quasi sempre ho saputo l’anno il mese e l’ora di ciò che sarebbe accaduto.»
Quando voglio ricordarmi mio padre felice, ripenso a quel momento. Ogni tratto del viso sottoscriveva le parole dell’amico, raggiando. E forse Malatesta era un uomo che lo si ascoltava anche se non parlava.

 

 

Addio
Lugano bella
di Gianna Manzini

Dalla tavolata si levò un canto «Addio Lugano bella/o dolce terra mia...». Oh, se lo conoscevo. Anche la mamma, facendo scorrere sotto la macchina da cucire la striscia bianca di cambrì, accennava spesso «Addio Lugano bella»; ma non pareva lo stesso motivo. «Addio...»: si struggeva. Che avrà mai visto, su quella striscia bianca, tempestata furiosamente dall’ago a macchina, che correva a dirotto per conto suo, mentre lei, frattanto, più sommessa, strascicava quell’addio, piegando la testa con mollezza? Nemmeno l’ombra, in lei, di quest’impeto:
«Cacciàti senza colpa / gli anarchici van via».
Gli anarchici. Cercai la ragazzina impaurita. Ma ora aveva gli occhi sfavillanti e pareva più alta, tenendo le mani intrecciate dietro la schiena. Gli anarchici. Anche a dirlo fa effetto.
Ascoltava. Capiva più di me.
(«E partono cantando / con la speranza in cuore.» Teresa, perché non sorridi? Con la speranza in cuore hanno detto. Sembra un racconto, un racconto lungo. «“Eppur la nostra idea / è solo idea d’ amor”.» Bello, vero? Ti rendi conto, Teresa? Amore.»)
Il cane s’era tirato su, come se tenesse il respiro. Non vecchio: saggio. Nella sua calma traspariva la vittoria del vinto. Per quanto potesse parergli insolito lo spettacolo di uomini che, a tavola, invece di mangiare, stavano in piedi e cantavano, non si agitava, non smaniava. Era soltanto attento, d’un’attenzione senza impazienza; calmamente esente da ogni speranza.
Alla ripresa: «Anonimi compagni / amici che restate» (ma non fa un po’ piangere?) lui, lassù, il testimone che sovrastava, si trovò con la testa un poco di lato. Si vide così, nello spazio libero, qualcosa di giallo, pannocchie di granoturco, forse, e di bianco, trecce d’aglio, senza dubbio. Il cane “incatenato” “al par dei malfattori” faceva quadro.

Tratto da: Gianna Manzini, Ritratto in piedi, Milano, Mondadori, 1971.

 

Vieni
o Maggio
di Maurizio Antonioli

Le cronache del Primo Maggio di quegli anni (fine Ottocento-inizi Novecento) dimostrano che, se da un lato l’immagine della giornata di lotta, di sciopero, di protesta, di intesa rivoluzionaria era per gli anarchici – ma anche per i sindacalisti e i socialisti rivoluzionari – quanto mai nitida e continuamente rafforzata, sul piano politico, da una viva carica polemica nei confronti della «festa» rituale, dall’altro gli stessi erano spesso legati, nel linguaggio e nei comportamenti, a codici tipicamente festivi. Nei brevi resoconti che i corrispondenti, per lo più anonimi, inviavano, soprattutto dalle città di provincia e dai paesi, ai periodici libertari di diffusione nazionale ricorrevano espressioni «tipo» che denotavano indubbiamente povertà e conformismo lessicale, ma erano il sintomo di una adesione spontanea a determinati modelli. Il Primo Maggio, laddove c’era mobilitazione, fervore, animazione, veniva «solennemente» o «degnamente» o «splendidamente festeggiato» (talvolta «solennizzato») a Cagliari come a Siena, a Senigallia come a Scapezzano, a Viareggio come a Monterotondo, a Loreto, a Camerino, a Foggia, a S. Giovanni Valdarno, a Macerata, ad Imola, a Venezia, all’Aquila, ecc. Certo, il dato più spesso posto in rilievo era la maggiore o minore astensione dal lavoro «L’affermazione del 1° maggio è riuscita qui [a Terni] solenne per l’astensione dal lavoro anche di operai che negli anni scorsi hanno lavorato»), ma a parte alcune voci di dissenso «le feste le fanno i preti», «il 1° Maggio organizzato dai socialisti è stato festeggiato in quasi tutta la Versilia come venti o trenta anni fa si festeggiava la madonna del sale. Nella mattina una lunga processione ordinata religiosamente con stendardi, musiche e nuovi sacerdoti»), nella maggior parte dei casi la «bicchierata», «la passeggiata campestre», «la refezione popolare» veniva riferita senza animosità polemica, anzi con partecipazione. Nel 1901, a Messina, nel giardino di un operaio, Michele Mancuso, un comizio terminato con un ordine del giorno sul lavoro delle donne e dei fanciulli era accompagnato da canti, mandolini e fanfara. A Roma, nella medesima circostanza, in un «locale preso in affitto per l’occasione» «presso la storica piramide di Caio Castio», i circa 500 anarchici intervenuti (famiglie «anarchiche» con bambini) avevano «bevuto, mangiato, cantato e ballato [...] fino a notte», sparato «bengala rossi» ed erano stati distribuiti, insieme con i giornali e gli opuscoli di propaganda anarchica, libri e giocattoli ai bambini. Sempre a Roma, nel 1903, in un «locale campestre» fuori Porta Pia, Pietro Calcagno, ex coatto, teneva una conferenza sullo sciopero generale, insistendo sull’idea di «una maggiore coscienza necessaria fra gli operai organizzati, di un maggior spirito di sacrificio e di solidarietà», con contorno di inni anarchici e di lotteria. Alcuni anni dopo, questa volta in un locale all’arco di Costantino, i «soliti» 500 anarchici romani, oltre alla consueta «refezione», festeggiavano la nascita di tre bambini, Caserio Luzzi, Ribelle Picchi e Furio Mengasini. «Durante la festa il Concerto di Porta Pia suonò inni rivoluzionari. Fu anche estratta una lotteria con vari premi tra cui una rivoltella. Il simpatico ritrovo famigliare...».

Tratto da: Maurizio Antonioli, Vieni o Maggio, Milano, Angeli, 1988.

Andiamo
fra il popolo
di Adriana Dadà

Nonostante che con la divisione definitiva dai socialisti nel 1892 il superamento dell’organizzazione pluralista fosse ormai di fatto avvenuto, e malgrado l’affermarsi dell’esigenza di una organizzazione anarchica più decisivamente orientata grazie all’azione di Malatesta e Merlino negli anni seguenti, il movimento anarchico negli anni novanta non è ancora in grado di offrire al proletariato un’organizzazione incisiva, capace di indirizzarne e stimolarne le lotte.
Malatesta aveva precisato nel 1894 le forme che avrebbe dovuto assumere tale organizzazione con lo scritto Andiamo fra il popolo; «Andiamo tra il popolo, questa è l’unica via della salvezza [...]. Entriamo in tutte le associazioni dei lavoratori, fondiamone più che possiamo, provochiamo federazioni sempre più vaste, sosteniamo e organizziamo scioperi, propagandiamo dappertutto e con tutti i mezzi lo spirito di resistenza e di lotta. [...]. Come anarchici noi dobbiamo organizzarci tra noi, tra gente perfettamente convinta e concorde: ed intorno a noi dobbiamo organizzare, in associazioni larghe, aperte quanti più lavoratori è possibile, accettandoli quali essi sono e sforzandoci di farli progredire il più possibile. Come lavoratori noi dobbiamo essere sempre e dappertutto coi nostri compagni di fatica e di miseria».
Malatesta approfondisce in seguIto nell’ esperienza sindacale fatta in Argentina le basi della propria teoria anarchica, che lo portano alla riaffermazione della necessità di lavorare nelle organizzazioni operaie e contadine, e a propagandare l’idea di un’organizzazione anarchica orientata, il bakuniniano «motore “rivoluzionario” a cui egli “ora” attribuisce il compito di provocare la rivoluzione e “poi” di impedire il sorgere di altri governi, e, se ne sorgessero suo malgrado di tenerli in scacco e di mantenerli nella situazione di maggiore debolezza».

Tratto da: Adriana Dadà, L’anarchismo in Italia: fra movimento e partito, Milano, Teti, 1984.