rivista anarchica
anno 32 n. 284
ottobre 2002


dibattito nuovi movimenti/1

Una voce, una visione
di Vittorio Giacopini

 

È ciò che manca ai movimenti di lotta anti-globalizzazione. Lo sostiene l’autore di No global: tra rivolta e retorica (Elèuthera 2001). Prosegue così il dibattito iniziato dopo Genova 2001.

A un anno dal G8, il ricordo delle “giornate di Genova” è diventato un genere letterario come un altro (basta sfogliare “Alias” oppure “Diario”) e mentre la sinistra ufficiale va a Canossa il Movimento dei Movimenti coltiva la tentazione di entrare “in politica” e si perde in diatribe senza costrutto su tattiche e strategie, questioni di rappresentanza e di linea politica, altre quisquilie.
Il ricatto dell’attualità costringe a seguire una falsa pista. Ci si prepara all’Euro Social Forum di Firenze con la stessa cautela isterica ma dialettica con cui il vecchio Pci organizzava i suoi mastodontici congressi. Cattolici e disobbedienti, “glosocial” e “newglobal”, “nonviolenti” e “non-nonviolenti”, amici di Casarini o di Agnoletto. Li conosciamo già a memoria questi schemini tanto carini e precisi, ripuliti. Le “anime” del Movimento – oggi si chiamano anime, anni fa le avremmo chiamate “correnti” e buonanotte – si confrontano in una grande schermaglia rituale e dopo la “primavera dei movimenti” e di Cofferati forse la preoccupazione maggiore per i no-global made in Italy è davvero quella indicata sul “Manifesto” dal sempre più onnipresente Vittorio Agnoletto: abbiamo perso l’esclusiva dell’opposizione, non siamo più soli… che facciamo da grandi?
Credo che siano questioni oziose e sintomi di un fallimento imbarazzante. Il motivo di fondo è anche abbastanza semplice. L’alternativa tra un’ostinata e improbabile ricerca di compagni di strada e di alleanze e la tentazione dell’autosufficienza lascia il tempo che trova, come sempre. Non è dal gioco della politica che si può costruire “un altro mondo”. Impantanato nella palude della tattica il movimento sta paradossalmente riabilitando quelle pratiche della vecchia politica e di un agire pubblico stereotipato che proprio la sua presenza “sporca” e irriverente, aveva contribuito definitivamente a screditare. L’“istinto” di Seattle è stato messo sotto conserva, sterilizzato. È un peccato e un errore su cui non vale neanche la pena di perdere troppo tempo a ragionare. Personalmente sono stanco di ripetere le solite critiche e non ho tempo né voglia di lamentarmi. Il ricatto dell’attualità, come tutti i ricatti, uno può sempre semplicemente rifiutarsi di accettarlo.
Fuori da quel ricatto ci sono due cose che colpiscono e a proposito del Movimento e dell’atmosfera cupa ma insolitamente vitale del presente. La prima riguarda alcuni eventi clamorosi che sono successi nel campo del “nemico” e che clamorosamente il Movimento non sembra aver visto né capito. La seconda ha invece a che fare con lo scarto tra le idee e le teorie (grandi e ambiziose, magniloquenti) con cui il movimento spiega le sue scelte e la mediocre piattezza di una pratica che gira a vuoto o si avvia mestamente lungo la china del politicismo più asfittico e tedioso. Penso a quelli che con un eufemismo interessato tutti chiamano gli “scandali” nel mondo delle corporations e del capitalismo e a quelle parole d’ordine molto astratte e solenni, pretenziose, che rappresentano il “lessico” scontato “dei movimenti globali”: Impero, Moltitudine, Esodo, Guerra costituente, Biopolitica ecc. ecc.

Camicia di forza dorata

Da un po’ di tempo a questa parte sono cambiate un mucchio di cose e non c’è neanche bisogno di citare l’inevitabile 11 settembre. Un anno fa chi osava criticare i capisaldi della globalizzazione liberista si vedeva costretto a indossare i panni dell’idealista utopico o del fesso. Quel fenomeno, quel modello di vita e di sviluppo, erano semplicemente “inevitabili”. Fuori dalla “camicia di forza dorata” (l’espressione è di T.L. Friedmann) della globalizzazione trovavi solo miseria e ipocrisia, arretratezza ideologica, superstizione. Metterla in discussione, opporsi e protestare, provare soltanto a criticare quella versione fast-food della modernità e il suo marchio di fabbrica – il capitalismo – più che violento o sbagliato era semplicemente irrilevante. Meno di un anno dopo anche il più sfacciato e indecente degli editorialisti certe cose non potrebbe ripeterle neanche sotto minaccia di tortura. Dopo la Enron e WorldCom, dopo la Fiat e dopo l’Argentina viene da chiedersi una cosa banale: chi sono i realisti? Da che parte si schierano quelli che preferiscono restare coi piedi per terra? Forse non è un motivo di consolazione per nessuno ma sembra opportuno prendere atto di una cesura storica e politica radicale. L’inevitabile, fulgido presente della globalizzazione ha finito per rivelarsi un mito consolatorio non meno fumoso dell’internazionalismo facile e idealista di troppe parole d’ordine retoricamente ribelli e molto scontate. Per il capitalismo delle corporation è cominciata la “tempesta perfetta”. Accorgersene significa anche registrare un paradosso. La protesta di ieri si è trasformata nella mediocre diagnosi di oggi e se gli utopisti hanno sbagliato forse è stato soltanto per difetto. La camicia della globalizzazione resta una camicia“di forza”, almeno per ora, ma quasi nessuno continua a illudersi che sia pure “dorata”, vantaggiosa.
La sorpresa è che il “movimento” si comporta come se tutta questa faccenda non lo riguardasse. Quella che anni fa sarebbe stata definita – con molto ottimismo e troppa ideologia – una “situazione rivoluzionaria” adesso sembra andare in scena in un universo parallelo e strascinarsi un mondo a parte. L’istinto della rivolta, il desiderio e la voglia di essere “contro” sembrano aver favorito una strana tendenza alla cecità selettiva e dato campo libero a impulsi elementari e un po’ irritanti: un senso arrogante di autosufficienza, una grande pigrizia mentale, il narcisismo. Non che di certe cose non si parli. Il “movimento” ha anche troppi esperti di economia e terzo settore, sociologia, filosofia politica o agriturismo. Si discute, si parla, si tengono seminari e convegni, si fanno riunioni. Ma è teoria, sono esercitazioni dotte, divagazioni (o è il compiaciutissimo carnival di Porto Alegre). Politicamente quelle vicende – e la stessa battuta d’arresto della globalizzazione – restano storie che vengono da un altro universo (parallelo), vaghi motivi di soddisfazione che non modificano priorità e obbiettivi di un movimento ormai invischiato nei riti della politica-politica, perso nei giochi di piazza o di corridoio.

Maestri, teorici, ricette, formule, ecc.

Il movimento non si muove. Stasi, abulia, pigrizia dominano la scena mentre politica e tattiche ritornano in auge. Ma mentre combatte piccole scaramucce di scarso rilievo e di nessun peso mai come oggi il “movimento” sembra riconoscersi in parole d’ordine pretenziose, schemi teorici arditissimi e complicati. Colpisce lo scarto tra le parole e le cose, la distanza abissale tra una pratica ferma o rituale e la liturgia supponente di una teoria già introiettata come senso comune, onnipresente. Colpisce ma in fondo si capisce. La partita sospesa o persa sulla terra prosegue nel cielo delle idee. Ci si consola come si può e ci si illude sempre come capita.
A volte non saper “dire” e non saper “vedere” le cose è molto più grave di non saperle (o poterle) “fare”. A volte, la voce con cui ci esprimiamo non è un dettaglio ma è l’unica risorsa – e la più seria – per affermare quello che siamo senza indossare maschere ridicole e senza concedere spazio a forme più o meno pesanti di autoinganno. Oggi troppi discorsi girano su se stessi con presuntuosa inconcludenza. In politica questi momenti di loquace afasia sono gli indizi decisivi di un’incapacità mentale che può pregiudicare anche i nostri gesti migliori e più sinceri. Non è un fatto di “stile”. Se un altro mondo è possibile non può esserlo senza la nostra voce e il nostro giudizio, la nostra sensibilità, l’intelligenza. La voce con cui il Movimento esprime i suoi desideri – e le sue rabbie – oggi è una voce impostata e teorizzante. Cieca agli eventi – perché si ostina a gonfiarli e a trasfigurarli –, monotona, pretenziosamente teorica, priva di fantasia e coraggio, questa voce suona anche dannatamente falsa e petulante. Non sa raccontare il mondo perché non è autentica e riesce ad essere reticente e disonesta persino quando prova a dire che genere di persone siamo e in che tipo di società vorremmo o non vorremo vivere.
Credo che oggi il “movimento” sia sorprendentemente privo di istinti e passioni, “sentimenti morali” e spontaneità ma al tempo stesso gravato da un vocabolario teorico consolatorio e paralizzante. Non ha una “voce”. In compenso ha maestri e teorici, ricette, formule allusive e presuntuose, modi di dire. La nuova-nuova sinistra no-global aveva fretta di ridarsi un’ideologia e veramente non ci ha messo poi tanto a trovare i suoi guru fast-food e i suoi vangeli tascabili a presa rapida. Lo strombazzato ritorno sulla scena di Toni Negri mi sembra a suo modo esemplare anche se resta indecente e un po’ ridicolo. Ma il punto chiave era e resta un altro. La massiccia dose di cliché pretenziosi con cui Negri (e i suoi allievi più zelanti) trasfigurano lo “stato delle cose” è anche uno degli elementi chiave che spiega la compiaciuta paralisi del movimento e ne giustifica la pratica mediocre, il tatticismo, l’opportunismo corrivo, i compromessi.
La forza, il coraggio, l’amore, l’erotismo e la gloria, l’avventura. Nei trailer di “guerre stellari” (uno, due, tre… ad libitum), una voce impostata stile Metro Goldwyn Mayer o circo Togni annunciava magnetica i temi ricorrenti ed eterni della saga. “Impero” e i suoi sottoprodotti (imperdibile l’agile “Controimpero. Per un lessico dei movimenti globali”, Manifestolibri) hanno la stessa funzione e seguono, tutto sommato, la stessa logica: barare – giocando al rialzo – e vendere bene. Trasfigurare l’esperienza e abbindolare i gonzi. L’effetto finale è da manuale (ma di psichiatria): le parole che dovrebbero spiegare il reale sono i “mantra” che lo fanno sparire sino a renderlo invisibile. “Impero” (in versione “bizantina” o “romana”, si può scegliere), “nomadismo”, “guerra ordinativa”, “moltitudine” (“sempre più forte, forse anche più bella” intona – lirico – Toni Negri pensando di essere Giorgia o una Spice Girl), “esodo costituente”, “biopolitica”. In questa proliferazione di diagrammi e schemini teorici c’è tutto il dramma di una sinistra (nuova o nuovissima) fatta di parole ma senza parole capaci di graffiare o commuovere, persuadere.

La grande carenza

Quando prende a prestito le formulette di Toni Negri o scimmiotta gli scimmiottatori di Foucault il movimento sceglie di parlare con la voce di uno che non sa chi è e che non ha ancora scelto il suo nemico. Non c’è niente di peggio. Non c’è niente di più deprimente e paralizzante. Non sapere chi siamo, non riuscire a trovarsi o a definirsi magari anche soltanto in forma polemica, per mezzo di una negazione, di un rifiuto. Non riuscire ad avere una voce autentica e un nemico. Nello “spirito di Seattle” c’era questa promessa che sembrava riprendere i sogni e gli istinti migliori degli anni sessanta: trovare prima della politica e tramite la politica il senso della propria identità come avventura e sfida mobile e inquieta, irriverente. Cercare (anche nella politica, ma in un’altra politica) un modo per costruire se stessi e costruire se stessi nel mondo: tra le cose, tra gli altri, nella solitudine curiosa e attenta del giudizio e della coscienza. Questa aspirazione a dare vita a una politica dell’autenticità, questo bisogno di diventare se stessi cercandosi nel mondo e ribellandosi alla società mi sembra che ce li siamo persi per strada e proprio questa è la grande carenza che rende goffo e un po’ ipocrita e falso il movimento.
Da troppo tempo la sinistra (una nuova sinistra) non riesce a parlare con una voce sincera e non sa inventarsi un linguaggio della protesta forte e spontaneo, libertario e veramente autentico. E visto che parliamo tanto di date e ricorrenze (un anno da Genova, un anno dall’11 settembre, ecc. ecc.), è abbastanza curioso e significativo constatare che proprio in questi giorni ricorrono i quarant’anni di uno degli ultimi testi in cui la sinistra – la nuova sinistra – era riuscita a trovarsi e a definire il programma libero e fantasioso, coraggioso (che poi sarebbe stato dimenticato e tradito, sacrificato) di una generazione di ribelli. Nel 1962 la “dichiarazione di Port Huron” si apriva con queste parole semplici e dirette: “siamo persone di questa generazione cresciute tutte – per quanto modestamente – nel benessere... e guardiamo con preoccupazione al mondo di cui siamo gli eredi”. Non era il tono del manifesto supponente o uno squillo di tromba. Ma quei ragazzi usavano il tono giusto e sapevano dire una cosa grande e molto importante: “chi siamo”, “contro cosa lottiamo”, “cosa ci preoccupa”. Parlare nel modo giusto. Avere una voce, una visione. Ho il sospetto che oggi, quaranta anni dopo, di una voce e di uno sguardo del genere avremmo un dannato bisogno pure noi.

Vittorio Giacopini