rivista anarchica
anno 32 n. 284
ottobre 2002


canzone d’autore

... e compagnia cantante
a cura di Alessio Lega

Cari compagni e lettori di A,
due parole di introduzione al progetto di collaborazione con la rivista che debutta con l’articolo su Brassens che segue.
L’intenzione è quella di dare una visione panoramica – necessariamente non esaustiva – della canzone d’autore caratterizzata da un interesse per le tematiche sociali, anche se non ci atterremo sempre strettissimamente a quest’indicazione includendo anche esempi di autori non precisamente politici, ma che hanno rappresentato una rivoluzione linguistica contrapponendosi a uno show business asservito (oggi più che mai) ai criteri della dittatura del mercato.
Questo anche per contrastare la specificità della critica italiana che vuole una separazione totale in caste contrapposte, in cui canto popolare e canto di protesta sono nettamente divisi dalla canzone d’autore di diffusione commerciale, come dire: i «militanti» e i «portatori» contrapposti ai «professionisti»; altrove tutta questa separazione non è mai avvenuta con grande profitto artistico e politico: negli Stati Uniti la canzone rurale, il folk blues, il blues sono la base medesima delle successive evoluzioni della popular music (Woody Guthrie è il maestro riconosciuto di Bob Dylan come di Bruce Springsteen). In America Latina poi il rapporto tra tradizione, rivendicazione e innovazione è totalmente inestricabile.
A fronte dell’immensa mole di materiale, facilmente reperibile in Italia della produzione anglofona, il mio interesse si centrerà sulle altre produzioni, e quindi in primo luogo quella francese e ispanica (senza voler trascurare le notevoli, anche se non altrettanto numerose, «scuole cantautorali» lusitane, russe, germaniche, ecc.), con la grande speranza di servire da «stimolo» alla curiosità della scoperta di autori spesso «mai sentiti».
Per evitarvi/mi il rischio di una noiosa esposizione accademica salterò un po’ qua e là proponendo – per esempio – un mese il pezzo su Utge-Royo, che è il cantautore organico al movimento libertario francese (e belga), e il mese dopo quello su Vissotskji, che è un grandissimo e notissimo cantautore russo attivo negli anni ’70, non precisamente libertario in maniera esplicita, ma la cui intera poetica è un grido di rivolta contro la glaciale stagnazione brezneviana...

Alessio Lega

La mauvaise herbe
ovvero di Georges Brassens,
menestrello ostile ai principi e alla folla

«Non trova che il mondo sia più triste da quando è morto Georges?»
Con questa frase pronunciata da un suo vecchio amico si concludeva un recente programma messo in onda dalla televisione francese per celebrare il ventesimo anniversario della scomparsa di Georges Brassens (e all’in circa l’ottantesimo dalla sua nascita). Si sono in quell’occasione susseguite le più disparate celebrazioni: dalla riproposizione in una nuova edizione della sua opera omnia incisa, alla pubblicazione di ben tre ghiotti CD di registrazioni inedite, provini e frammenti vari; non è mancato spazio teatrale che non abbia destinato almeno una serata alla sua memoria, si è montato uno spettacolo che ha avuto decine di migliaia di spettatori, una versione in dvd, e non ha ancora cessato di girare... insomma un tripudio...
Ma come mai un cantautore di carattere schivo, tanto da essere chiamato dagli amici l’«orso», indifferente a ogni moda musicale, tanto da registrare invariabilmente voce, chitarra e contrabbasso tutti i suoi dischi (dal ’51 al ’76), con una poetica apparentemente stilizzata in un’arcadia ferma stilisticamente e come preoccupazioni formali alla fine dell’800, e perdipiù dichiaratamente anarchico, suscita e ha suscitato un così unanime empito di simpatia?
A dire il vero proprio l’unanimità del consenso non ha mancato di creare una certa diffidenza da parte di molta critica militante, che da un lato affezionata all’idea della necessaria clandestinità dei suoi autori preferiti, dall’altro messa in sospetto dall’assenza di musoneria e da una «disdicevole» tendenza all’autoironia, ha caricato la sua opera di goffi tentativi di ridimensionamento: populismo, goliardia, spirito reazionario di origine contadino, qualunquismo, individualismo piccolo borghese... insomma il meglio dell’etichettatura del sacro rigore dei matematici della rivoluzione gli è stato assurdamente attribuito.
Ma l’anarchico «bravo ragazzo» che aveva collaborato per alcuni anni al periodico Le Libertaire, l’operaio della Renault che trascorreva le sue notti a bagordare con i suoi amici «per male» e tutti i ritagli di tempo a «svaligiare» le biblioteche rionali parigine, il figlio del muratore che si era fatto prendere a rubacchiare a quindici anni ed era sfuggito alla cattura nascosto in un’«impasse» malfamato dopo la diserzione dai campi di lavoro dell’occupazione nazista, l’inarrivabile musicista che elaborava architetture di parole mozzafiato, con raffinatezze di linguaggio e di costruzione arditissime e talmente complicate da... essere cantate e godute anche dai bambini della scuola elementare, l’artista che saliva sul palco come un amico chiamato a tradimento e che sudando e concentrandosi su ogni accordo teneva appeso a un cordone d’emotività un pubblico incantato dalla coerenza granitica del personaggio... ebbene tutto ciò che Brassens rappresentava e rappresenta rideva e ride ancora di questi inutili tentativi di intorbidire la purezza insubordinata della sua poesia.
Georges Brassens era nato a Sète nel 1921 e vi è morto esattamente sessant’anni dopo. Arrivato a Parigi a vent’anni, vi ci ha trascorso tutta l’esistenza, tranne gli ultimi mesi. La sua vita è straordinariamente povera di vicende esteriori... troppo, secondo alcuni, che non hanno mancato di rimproverargli l’atteggiamento assolutamente distaccato e la totale mancanza di prese di posizioni a proposito delle vicende gravi e appassionanti che si svolgevano in Francia in tutt’il corso della sua carriera: dall’Indocina all’Algeria, dall’OAS al Maggio ’68. Ma l’ostilità alla società intesa comunque come insaziabile divoratrice di individualità ha fatto svolgere a Brassens la sua intera opera, in un’intima coerenza, come un atto di diffidenza a ogni forma di potere, di organizzazione e di mitologia, che, se da una parte non ha mai derogato da un impegno inflessibile sui temi che gli stavano a cuore: l’antimilitarismo più totale, la difesa degli umili, il rifiuto della morale borghese (matrimonio, religione, patriottismo), dall’altra ha evitato, con anche troppa inflessibilità, come la peste ogni rischio di identificazione con una figura di predicatore laico, porta parola di qualsiasi gruppo, di caposcuola a cui far riferimento.
L’impegno, mai venuto meno, di Brassens è stato nel raccogliere la grande, ma insterilitasi nella didascalia, tradizione cosiddetta «realiste» della canzone francese, quella che si occupava delle puttane, dei piccoli magnaccia, dei delinquenti di strada, dei poveri cristi e sposarla alla solarità swing, alle immagini pure, alla geometria letteraria di gusto surrealista che gli veniva dall’adorato Charles Trenet – per questo, a torto o a ragione, il padre della moderna canzone poetica francese –; quest’operazione arditissima e linguisticamente rivoluzionaria ha consentito a un’arte che ha sempre corso il rischio d’essere apprezzata da pochi, di finire sulla bocca di tutti... tutti hanno pianto per il «pauvre Martin», il contadino abbrutito dal lavoro e arreso alla morte liberatrice, come tutti hanno riso del giudice – che avendo condannato a morte qualcuno – viene goliardicamente sodomizzato da un gorilla inconsapevole e vendicatore, e, anche se questo non ha significato fare la rivoluzione sociale, certo ha guadagnato un’incalcolabile simpatia alla «causa», completamente ribaltando il centro d’interesse della canzone poetica. Brassens ha definitivamente sposato una canzone in cui le tematiche sociali hanno una centralità assoluta, col rigore e i sentimenti della vera opera d’arte. L’ha fatto con una forza e una riconoscibilità tale da diventare – lui ostile come nessun’altro alle «scuole» – il più imitato dei riferimenti... forse solo Bob Dylan ha influenzato altrettanto il genere. Brassens ha sottratto agli effettacci da basso feuilletton il mondo della rue (la strada) che popolava le canzoni dei suoi predecessori, e l’ha eternizzato in una bellezza povera di sentimentalismo e ricchissima di sentimento e di humor.
La rivolta in Brassens non proviene mai da un atto di rancore, per quanto giustificato, ma sempre da un atto d’amore, per questo si mantiene di una freschezza priva di brutalità e si compiace degli stilemi popolari più ridanciani e solari, dopo averli liberati dalla pesantezza grossolana dell’autocompiacimento delle più turpi manie della miseria.

George Brassens legge Le monde libertaire, il foglio anarchico di cui fu collaboratore

L’erbaccia
1954

Quando arrivò il giorno di gloria
appena morti tutti gli altri
solo io conobbi il disonore
di non essere morto sul campo di battaglia.

Sono come l’erbaccia
brava gente
non mi si può masticare
non mi si può coltivare.
La morte falciò gli altri
brava gente
e fece grazia a me
sarà immorale ma è così.

Tra la la
e mi domando
perché, Dio santo,
vi dispiaccia
ch’io viva un po’.

La ragazza che ama un po’ tutti
poi mi dà quotidianamente
i pezzetti di lei talmente nascosti
che gli altri non le hanno mai toccato.

Sono come l’erbaccia
brava gente
non mi si può masticare
non mi si può coltivare.
Lei si vende agli altri
brava gente
e si regala a me
sarà immorale ma è così.

Tra la la
e mi domando
perché, Dio santo,
vi dispiaccia
che mi si ami un po’.

Ci dicono che gli uomini son fatti
per stare in banda come le pecore.
Io vivo per conto mio, e non credo
che seguirò mai la loro retta via.

Sono come l’erbaccia
brava gente
non mi si può masticare
non mi si può coltivare.
Sono come l’erbaccia
brava gente
e cresco in libertà
nei parchi malfamati.

Tra la la
e mi domando
perché, Dio santo,
vi dispiaccia
ch’io viva un po’.

 

La lingua
e la musica di G.B.

La novità rappresentata dal perfetto equilibrio delle canzoni di Georges Brassens ha fatto si che fossero fra le più adattate dai cantanti non francofoni: versioni tedesche di Daghenardt, versioni catalane, versioni russe, versioni valloni, uno stupendo disco cantato da Paco Ibañez... e ovviamente versioni italiane (o in dialetti italiani). Quattro o cinque dischi interi di Svampa, due di Beppe Chierici, quel pugno di celeberrime versioni di De André, e una ridda di traduttori e interpreti più sporadici, o che non hanno trovato riscontro discografico (ci piace ricordare almeno Enrico Medail e Fausto Amodei). Eppure Brassens è forse, paradossalmente, l’autore meno traducibile della canzone francese.
Brassens prima ancora che un sublime artista dei sentimenti, è un infaticabile artigiano della parola: la sua scrittura è formalmente matematica, i suoi versi non sgarrano di un millimetro, adottando una struttura metrica che è spesso un vero rompicapo... se non si comprende questo sottile rigore formale si rischia di far cadere l’intera impalcatura dell’opera sua... Attenzione però, egli non fa il gioco dell’enigmista (come fra i suoi «allievi» fece incredibilmente Boby Lapoint), la sua forma è incandescente di tensione morale, è fremente d’ironia, è percorsa di pietà; piuttosto la natura al contempo schiva e sensibilissima dell’uomo gioca un costante rimpiattino con una forma interessante di per sè, così come l’abilità di melodista, che gli fa comporre musiche orecchiabili ed emozionanti, viene mascherata da una certa arguzia armonica che si insinua perfettamente nella pregnanza ritmica dei testi; Brassens ama il jazz, e la sobrietà della sua orchestrazione (voce, una o due chitarre e contrabbasso) non impedisce passaggi di richiamo alla tradizione dello swing-musette dell’immenso Django Reinardth.
Insomma un grande calore umano, servito da un formidabile dominio formale!
Si aggiungano, scorrendo per le stratificazioni linguistiche, l’uso costante di frammenti di proverbi, di citazioni letterarie deformate, di frase idiomatiche usate fuori contesto, e si avrà l’impressione precisa della dialettica fra richiamo al «già sentito» e contestazione ironica dei luoghi comuni, fra solidità pennaiola e linguaggio vivente, che dà quel sapore così unico ai versi del cantante di Sète.
Il mondo sarà anche più triste dal momento ch’è morto, ma la canzone è molto più allegra da quand’è nato!

Alessio Lega

George Brassens

LA BALLATA DI QUELLI NATI DA UNA QUALCHE PARTE
1972

È pur vero che son piacevoli questi villaggetti
questi borghi, le frazioni, questi siti, le città,
con le fortificazioni, le chiese, le spiagge
non hanno che un difetto: essere abitati,
ed essere abitati da gente che sogguarda
gli altri con disprezzo, dall’alto dei bastioni,
la razza degli sciovinisti, i portatori di coccarde,
gli imbecilli felici d’esser nati da una qualche parte.

Maledetti tutti i figli di una madre-patria
che si impalassero una volta per tutte sul loro campanile
quando vi mostrano le loro torri e i musei e i municipii,
e vi riempiono del loro paese natale fino a farvi vomitare.
Che vengano da Roma, Parigi o Sète,
o da casa del diavolo, o da Zanzibar,
anche fosse Montcuc, son capaci di vantarsi, perdinci,
gli imbecilli felici d’esser nati da una qualche parte.

La sabbia nella quale, finissima, i loro struzzi
sprofondano la testa, non ce n’è di più raffinata...
Quanto all’aria con cui gonfiano le loro palle
le bolle di sapone, è un soffio divino.
E così, poco a poco, giungono a montarsi
la testa fino a ritenere che lo sterco dei loro cavalli
(anche di legno) renda invidioso il mondo,
gli imbecilli felici d’esser nati da una qualche parte.

Non è un “luogo comune” quello della loro nascita,
compatiscono davvero quei poveri disgraziati,
gli incapaci che non ebbero la presenza di spirito
di vedere il giorno nel loro stesso luogo.
E quando la squilla li chiama, rompendo la tranquillità precaria,
contro qualche straniero, certamente barbaro
escono dal loro fosso per morire alla guerra
gli imbecilli felici d’esser nati da una qualche parte.

Dio mio, che bella sarebbe la terra umana
se non si incontrasse questa razza demente
questa razza importuna, e che abbonda ovunque
la razza territoriale, la gente d’origine controllata.
Sarebbe bella la vita, in ogni caso
se non avessi cavato fuori dal nulla questi cazzoni,
prova definitiva della tua inesistenza:
gli imbecilli felici d’esser nati da una qualche parte.