rivista anarchica
anno 32 n. 284
ottobre 2002


politica internazionale

Dopo Johannesburg
di Antonio Cardella

Il dubbio esistenziale della vigilia era se Berlusconi sarebbe andato o no al vertice di Johannesburg. La confidenza fatta dal premier alla folla plaudente dei ciellini sul fatto che Bush lo avrebbe consultato sui progetti USA contro l’Iraq e con lui si sarebbe deciso il da farsi, aveva esaltato la platea di Rimini, notoriamente di bocca buona, ingenerando in essa la convinzione (che era pure una non infondata speranza) che le sorti del grande raduno sudafricano fossero, in realtà, nelle mani del Cavaliere.
Nel teatro latino, la farsa seguiva lo svolgimento e l’epilogo del dramma; nel caso nostro lo precedeva, quasi fosse radicata la convinzione che, dopo il dramma, ci sarebbe stato poco spazio per le comiche finali. E che, nella sostanza, Johannesburg fosse il contesto appropriato ad un’immensa tragedia, lo sanzionava la condizione del popolo di Mandela, afflitto come gli altri popoli del suo continente da un irredimibile sottosviluppo, che non poteva certo essere occultato dalle velleità letterarie del suo vecchio e stanco leader, assente ingiustificato all’assemblea dei no-global, il quale continuava a scrivere le sue memorie mentre la sua polizia blindava la città, relegava in ghetti lontani le manifestazioni di opposizione, picchiava ed arrestava i partecipanti ai raduni e alle assemblee alternative agli incontri ufficiali.
A nostro giudizio, la grande assemblea dell’ONU è stata chiamata a ratificare il fallimento di qualunque tentativo di convivenza non conflittuale tra paesi poveri (molti) e paesi ricchi (pochi), tra i 5 miliardi circa di uomini ai quali è destinato il 20% delle risorse planetarie e gli 850 milioni che ne consumano e dissipano il rimanente 80%.
L’egoismo è certamente componente importante nell’irrigidimento dell’Occidente verso qualsiasi tentativo di rivedere i criteri di produzione e distribuzione delle risorse, ma non è il solo. C’è la forza inerziale di modelli di sviluppo che hanno dinamiche interne rigide e non violabili pena il crollo dell’intera struttura economica e giuridica che regolano. La così detta legge del mercato impone la logica dell’economicità dei beni prodotti e, quindi, la loro veicolazione solo in quelle aree che possono acquistarli ai prezzi e alle condizioni prestabiliti.
Certo, possono consentirsi delle elargizioni “una tantum” e così ecco che a Johannesburg l’inviato di Bush promette 15 miliardi di dollari, a regime nel 2006, per più o meno credibili piani di intervento nelle enormi plaghe di indigenza del nostro pianeta. Che è un giuoco creativo alla Tremonti, si parva licet, perché i 10 miliardi di dollari stabiliti a favore dello sviluppo nella conferenza di Monterrey del marzo scorso corrispondevano allo 0,1% del Pil statunitense; mentre i 15 miliardi complessivi al 2006, stabiliti adesso a Johannesburg, rappresentano certo lo 0,15% del Pil USA, ma diluiti in quattro anni, registrano una caduta di oltre un terzo (sempre rispetto al Pil), Rileva Antonio Tricarico della campagna per la riforma della Banca Mondiale: “Dieci anni fa il contributo di Washington equivaleva allo 0,2% del Pil degli Stati Uniti, oggi si è dimezzato allo 0,1%, anche se la cifra assoluta resta costante per effetto della crescita del Pil nazionale”. Ma, come abbiamo visto, quello di Tricarico è un calcolo ottimistico.
Se, però, in tema di elargizioni si può sempre discutere, guai a rivedere i criteri che di fatto escludono dai mercati del pingue occidente i prodotti agricoli dei paesi del sottosviluppo; guai a disancorare dal balzello dei brevetti i medicinali che potrebbero alleviare gli esiti di veri e propri flagelli che affliggono le popolazioni del terzo mondo; guai soprattutto a metter le mani sull’industria dell’inquinamento: il petrolio è la risorsa energetica che ha più di ogni altra veicolato la logica del dominio e, intaccarla, significherebbe la caduta verticale delle leadership che governano il mondo. E poco importa che il degrado conseguente all’uso dissennato delle risorse energetiche sia ormai non solo percepito dagli ambienti scientifici, ma si manifesti palesemente con mutamenti climatici innaturali (alluvioni ricorrenti, scioglimento dei ghiacciai, collasso progressivo di quelle correnti atmosferiche e marine che hanno sin qui garantito gli equilibri climatici del pianeta); con l’alterazione dell’assetto idrogeologico della terra (desertificazione, erosione delle coste, innalzamento delle temperature delle acque degli oceani, ecc...); con la crescita esponenziale di quei prodotti che consumano petrolio e derivati, prodotti che, come i veicoli su gomma, hanno reso invivibili le città e irrespirabile la loro aria.

Un fallimento su tutta la linea

Ogni anno, noi immettiamo nell’atmosfera 24-25 miliardi di metri cubi di anidride carbonica e gas inquinanti: dicono gli scienziati che, per smaltirli, occorrono 250 anni. Pensate alla cappa che grava su tutta l’umanità per l’inquinamento pregresso e il tempo che occorrerebbe – se per un qualche miracoloso evento, smettessimo del tutto di emettere gas tossici – per ristabilire gli equilibri ecologici. A fronte di questi dati drammatici, America, Canada e Australia, e, è notizia di oggi, sembra,anche la Russia, si rifiutano di sottoscrivere il pur blando protocollo di Kyoto, che prevede la progressiva diminuzione del 5% delle emissioni tossiche in cinque anni.
Questi sono i temi principali sui quali l’assise di Johannesburg avrebbe dovuto misurarsi e misurare le reali intenzioni di tutti i partecipanti, in prima fila America ed Europa, di affrontarli e avviarli a soluzione. Il resto è chiacchiericcio estemporaneo, puro vaniloquio, come l’accordo per “una pesca compatibile”, che, senza norme precise (che non sono state neppure proposte), è vuota affermazione di principio; o come l’uso dei pesticidi, che avrebbe dovuto essere totalmente bandito entro un certo numero di anni e che, per l’opposizione di un fronte nutrito di “liberisti”, ha partorito il topolino di una formula evanescente, che invita i produttori a ridurre le componenti chimiche di questi prodotti che provocano danni all’uomo.
Insomma, un fallimento su tutta la linea, largamente previsto, del resto, ma che ha il merito di sgombrare il campo dalle residue illusioni di poter redimere, con i mezzi della persuasione e con la pressione finora pacifica dei molti derelitti della terra, il sistema politico-economico oggi prevalente, anche per potenza militare, del pianeta terra.
Né ha fondamento la speranza che l’apparente articolazione delle posizioni all’interno stesso dello schieramento occidentale porti ad un’evoluzione degli squilibri esistenti tra i ricchi ed i poveri della terra. Se i giri di valzer di questo o quel paese del blocco capitalistico sono compatibili con il sistema per ristabilire equilibri o per riaffermare egemonie, non aprono varchi nella monoliticità dell’area: a richiamare all’ordine e alla compattezza ci sono le borse con i loro listini che ristabiliscono priorità e impongono indirizzi.
Così anche le differenti posizioni che si sono evidenziate a Johannesburg, per esempio, tra America ed Europa (ma, poi, quale Europa!) hanno il sapore di conflitti più di metodo che di sostanza: quando si tratta di uscire dal vago e indicare regole e scadenze i se e i ma prevalgono nettamente: valga per tutti la sorte del protocollo di Kyoto e la stessa evanescenza dei pochi punti – tutti scarsamente significativi rispetto ai problemi veri – sottoscritti, anche questi con molte riserve, dai delegati dell’assise sudafricana.
C’è da chiedersi se la prevalenza degli interessi dei più forti, riaffermatasi anche in questa circostanza, sia un segno di forza o di debolezza del mondo capitalistico A breve scadenza, certo, gli scenari rimarranno pressoché inalterati e, quindi, all’apparenza, la forza e la prepotenza dell’occidente continueranno a dominare lo scenario internazionale. Ma, alla lunga, il margine delle certezze in questa direzione si restringerà sempre più significativamente. Molti studiosi, anche americani, prefigurano un’implosione del sistema, determinata dalle dinamiche interne del sistema stesso.
Torneremo su questo argomento che merita certamente uno spazio molto più ampio che la conclusione di questo articolo.

Turbolenze ricorrenti

Vogliamo, però, accennare ad un argomento che a noi sembra assai importante e che non trova molto spazio nelle indagini a respiro strategico di studiosi e commentatori politici. C’è, da parte dell’Occidente, il tentativo di universalizzare i propri principi giuridici ed affermare la propria visione dei rapporti tra istituzioni e cittadini, che trova la sua catalogazione nei codificati diritti civili.
Basta dare uno sguardo anche superficiale agli istituti giuridici internazionali per accorgersi che essi riproducono modelli prevalenti in occidente, sia in sede penale, che civile. A parte la parzialità del tutto evidente di questo modello, esso stimola ed esalta conflitti etnici, religiosi e culturali ascrivibili alla necessità, per le controparti, di resistere, di opporsi a tale tentativo di omologazione e ciò anche all’interno degli schieramenti che oggi sembrano fronteggiarsi monoliticamente. La guerra portata da Stati Uniti, Gran Bretagna e presenze militari simboliche europee in Afganistan ha prodotto la caduta del regime talebano, certamente, ma non ha risolto, anzi, ha esaltato i conflitti etnici preesistenti, scatenando per simpatia altri conflitti latenti nell’area (per esempio quello indo-pakistano per il Kashmir), conflitti dai quali le potenze dell’occidente non potranno mai chiamarsi fuori, perché direttamente o indirettamente riconducibili a loro interessi concreti (il controllo delle risorse energetiche, la preservazione di equilibri politici la cui alterazione provocherebbe effetti a catena nocivi alla logica di dominio, e via dicendo). Solo che per questi conflitti regionali la potenza militare occidentale è sovradimensionata – oltre ad essere inadeguata la cultura politico-diplomatica necessaria per dirimerli – e, quindi, ogni intervento risulterà enormemente costoso e non risolutivo. Così è avvenuto nel Kossovo, così in Iraq.
Queste turbolenze ricorrenti – ecco il punto al quale volevamo arrivare – minano le fondamenta dell’Impero, in primo luogo perché bruciano risorse immense sempre più difficilmente rigenerabili, poi perché vanno molto al di là delle cause prossime che le provocano, investendo l’ambito dello scontro tra civiltà. E, a lungo andare, anche sul fronte interno sarà sempre più arduo far digerire ai popoli le ragioni di questi sprechi e la chiusura manichea verso altri popoli, per quanto diversi dai nostri siano i loro costumi e le loro fedi.

Antonio Cardella