rivista anarchica
anno 32 n. 285
novembre 2002


USA

La pietra del paragone
di Carlo Oliva

 

Una ex ministra tedesca ha paragonato Bush a Hitler. Apriti cielo! Invece, a ben guardare…

Strane cose succedono di questi tempi. In Germania, durante una campagna elettorale tirata all’ultimo voto, un ministro, anzi, una ministra, la signora Herta Daeubler-Gmelin, titolare socialdemocratica del dicastero della Giustizia, si lascia sfuggire un paragone tra Hitler e il presidente Bush. Comune a entrambi, sostiene, è una certa tendenza ad agitare le questioni internazionali per distogliere l’opinione pubblica dai problemi interni. L’argomento suscita un certo scalpore, manda in bestia, oltre a Bush, i suoi numerosi estimatori europei, viene debitamente smentita, ridimensionata, inquadrata nel contesto e sottoposta, in genere, a tutte le operazioni di devalorizzazione note alla moderna retorica delle comunicazioni di massa, ma – nel complesso – non deve essere spiaciuta ai cittadini tedeschi, tanto è vero che, contro ogni ragionevole proiezione e ogni oculato sondaggio, la coalizione al governo viene riconfermata dagli elettori. Il margine non è esaltante, ma visto che poche settimane prima erano clamorosamente in testa i democristiani, c’è da baciarsi i gomiti. E la prima cosa che fa il neoconfermato cancelliere Schröder, oltre a esibire in ogni modo possibile la sua stima, il suo rispetto e la sua deferenza per il presidente Usa, è quella di assicurare che di tornare al governo la signora Herta Daeubler-Gmelin non se lo deve sognare nemmeno.
Non sono particolarmente versato nelle minutiae della politica tedesca, e non saprei proprio dirvi se l’allontanamento dell’incauta paragonatrice sia stato motivato soltanto da questa vicenda o non affondi le radici in qualche precedente tensione, in qualche contrasto sul come gestire un ministero importante. Ma diamo pure per scontato, come hanno fatto tutti, che la ministra abbia perso il posto per aver pronunciato quelle parole. È abbastanza evidente, allora, che l’episodio si presta a un certo numero di considerazioni. Non si tratta di un semplice esempio di ingratitudine, quali se ne vedono spesso nel campo avvelenato della politica. È un fatto esemplare, da cui è lecito e doveroso cercare di trarre una morale di qualche tipo.

Spezzare le reni a Saddam

Mi spiego subito. Quello tra George W. Bush e Adolf Hitler è un paragone certamente offensivo, dal quale sarebbe opportuno astenersi, se non altro per motivi di buona educazione. Ma ciò non esclude che il confronto, sotto molteplici punti di vista, sia assolutamente lecito. In fondo Bush, come a suo tempo Hitler, è al vertice, con ampi poteri, di una potenza che pretende una certa posizione di predominio a livello mondiale. È vero, che il livello di democrazia e le forme di organizzazione del consenso nei due stati sono, grazie al cielo, diverse, e che i due personaggi non sembrano avere molto in comune sotto il profilo ideologico (e, presumibilmente, morale), ma appunto per questo è lecito rimproverare all’uno l’adozione di tattiche e comportamenti che meglio si addirebbero all’altro. Per quanto riguarda il punto sottolineato dalla Daeubler-Gmelin, in ogni caso, l’accostamento è assolutamente ovvio, tanto è vero che può essere esteso senza difficoltà a gran parte degli statisti noti alla storia. Quella di distogliere l’attenzione dei cittadini dai problemi quotidiani prospettandogli qualche difficoltà internazionale è una pratica talmente comune che, a tutti gli effetti, la si dà per scontata. Lo ha fatto Hitler, lo fa Bush e lo hanno fatto e lo fanno quasi tutti gli altri, compresi gli attuali governanti tedeschi, che non per niente hanno impostato la loro campagna elettorale su un problema di politica internazionale (la guerra), glissando alla grande su quelle difficoltà economiche e sociali che, in passato, non sono sempre sembrati capaci di dominare. In realtà, la vera accusa in base alla quale la Daeubler-Gmelin avrebbe dovuto essere rimossa dal suo ministero, era quella di aver fatto ricorso a un’argomentazione francamente troppo banale.
A Bush, però, certe banalità si addicono particolarmente. Giunto alla Casa Bianca senza un vero sostegno popolare, grazie a un pugno di contestatissimi voti della Florida (niente di paragonabile con Hitler, che alle elezioni che lo avrebbero portato alla cancelleria aveva raccolto una ben più solida maggioranza), ha costruito la propria immagine pubblica e la propria incerta popolarità, più che su quelle doti politiche personali di cui è troppo evidentemente privo, sulla necessità di “combattere il terrorismo internazionale”, concretatasi, dopo il mezzo disastro afgano, nell’ostinato proposito di spezzare le reni a Saddam Hussein.
Ora, è vero che l’individuazione di un nemico la cui sconfitta possa essere indicata come preliminare alla realizzazione di qualsiasi altra istanza politica è una delle pratiche di costruzione del consenso più antiche del mondo (già Catone il Censore, ogni volta che gli si parlava della necessità di una riforma agraria, rispondeva che secondo lui bisognava distruggere Cartagine), ma il fatto che il leader della più grande potenza industriale e militare del pianeta si ostini a far dipendere la pace nel mondo da un cambio di regime in Mesopotamia non può che lasciare perplessi gli osservatori raziocinanti. Tanto è vero che chi intende appoggiare a tutti i costi la politica americana deve attribuire al presidente irakeno tali e tante connotazioni negative da sfiorare il grottesco, come ha fatto, tra gli altri, l’ottimo Berlusconi quando – in sede ufficiale – ha ritorto il paragone con il Führer del terzo Reich su Saddam, che in fondo è solo un molesto despota mediorientale, le cui capacità di far danno, per rilevanti che siano, non sono poi superiori a quelle di una quantità di suoi pari, che pure il governo americano in ogni modo vezzeggia e porta in palmo di mano.

Per interposto Berlusconi

D’altronde, che altro si può rimproverare a Saddam Hussein, dal punto di vista di Bush e di Berlusconi? Di infischiarsene delle risoluzioni dell’Onu, certo, ma senza insistere troppo, visto il comportamento che, in tema di risoluzioni dell’Onu, adottano certi pilastri dell’amicizia con gli Usa in Medio Oriente. Di opprimere i Curdi, naturalmente, ma anche questa predica suona male dal pulpito di chi, in quella parte del mondo, fa conto soprattutto sull’alleanza con la Turchia. Di aver fatto provvista di ingenti quantità di armi di distruzione di massa, certo, anche se è fin troppo evidente che quelle armi non saranno mai pari a quelle stivate nei depositi della Nato e di molti alleati di Washington (alcuni dei quali, vedi il caso del Pakistan, che ostenta addirittura l’armamento nucleare, non si distinguono particolarmente per affidabilità politica e garanzie democratiche). Perché Saddam è un dittatore esecrabile, figuriamoci, ma non c’è aspetto della sua esecrabilità che non si rispecchi nelle consuetudini politiche dei molti paesi del terzo mondo su cui gli Stati Uniti hanno fatto conto e affidamento per i lunghi anni della guerra fredda, tanto è vero che proprio sul sostegno americano l’attuale regime irakeno, a onta delle sue origini rivoluzionarie, è stato costruito e rafforzato.
Oggi, certo, la guerra fredda è finita, ma visto che si trovano sempre dei rompiscatole che insistono con gli equivalenti moderni della riforma agraria, di nemici c’è sempre un grande bisogno. Quello di cui, evidentemente, bisogno non c’è è una accettabile motivazione ideologica per definirli tali. Basterà dire, ed è già cara grazia, che sono inaffidabili, pericolosi, minacciosi e diversi. Che sono, appunto, paragonabili a Hitler, un personaggio che, per essere al di là di ogni ipotesi di riabilitazione storica, può ben essere utilizzato al negativo come pietra di paragone assoluta. Il fatto che Hitler, a un certo punto della sua carriera, abbia seriamente pensato di dominare il pianeta, un’ipotesi che Saddam difficilmente potrebbe far sua (diversamente da Bush, che infatti la dà per scontata, tanto è vero che teorizza la guerra preventiva contro chi si azzardi a minacciare la posizione egemonica del suo paese), non deve, né può, interessare.
Ma se il paragone con Hitler mi può efficacemente servire a caratterizzare il nemico, non posso certo accettare che qualcuno se ne serva, più o meno brillantemente, per definire me. Per questo Bush non può accettare per quello che sono le banali allusioni delle Herta Daeubler-Gmelin di questo mondo, ma deve fingere di prenderle sul serio, a costo di infliggere all’incolpevole Schröder una delle peggiori lavate di capo diplomatiche che la storia recente dei rapporti internazionali ricordi. Lui, in proprio o per interposto Berlusconi, può dare dell’Hitler a chi vuole, ma nessuno può azzardarsi a dare dell’Hitler a lui, perché il problema non ha niente da fare con i paragoni storiografici (che sono sempre arbitrari): è una questione di imputazioni ideologiche, e per di più a livello assoluto, e un’imputazione ideologica negativa a livello assoluto ce se la si può permettere solo ponendo se stessi come modello ideologico assoluto al positivo. Insomma, se tu sei il Male io sono, di necessità, il Bene e chiunque abbia qualcosa da eccepire dovrà vedersela quanto prima con me. Nell’era della globalizzazione, anche i giudizi di valore sono globalizzati, nel senso che dipendono strettamente dal punto di vista di chi detiene il potere globale. La mazzolata diplomatica inflitta ai tedeschi, da questo punto di vista, ha un valore paradigmatico generale. Significa che non si accettano critiche e che ai loro alleati gli Stati Uniti sono disposti soltanto a concedere il ruolo di servizievoli berlusconi. Che mondo, ragazzi, che mondo…

Carlo Oliva