rivista anarchica
anno 32 n. 286
dicembre 2002 - gennaio 2003


anarchici

Irriducibili e disperati

Come si sa, l’illegalismo, inteso come pratica militante che nasce da alcune estremizzazioni dell’anarchismo, fa parte a pieno titolo della storia, passata e recente, del nostro movimento. Manifestazione concreta di irriducibile estraneità alla società esistente, non di rado vede i suoi sostenitori teorizzarne la necessità, come la sola risposta coerente con il rifiuto di ogni potere e autorità. Contrapponendosi a quello che comunemente definiamo anarchismo sociale, e trovando le proprie radici, o meglio, le proprie conclusioni, nell’esaltazione di un individualismo attento esclusivamente alle specificità di chi lo afferma, l’illegalismo perde però per strada, e non potrebbe essere diversamente, alcuni dei capisaldi fondamentali del pensiero anarchico, vale a dire la volontà di non creare nuovi autoritarismi e l’aspirazione all’uguaglianza.
Meno male, dunque, che di un argomento tanto affascinante quanto delicato, quale fu l’azione illegalista di una componente significativa dell’anarchismo francese (e non solo francese) nei primi anni del ventesimo secolo, e in particolare della banda Bonnot, se ne è occupato Pino Cacucci, l’unico narratore, a mio parere, davvero in grado di affrontarne la complessità, senza concedere nulla a una facile retorica, a una superficiale esaltazione e ad una altrettanto superficiale condanna. Buon conoscitore delle tematiche che affronta (e questa sua conoscenza nasce dalla sedimentata adesione al pensiero libertario) nel suo bellissimo In ogni caso nessun rimorso (Longanesi, 1994) Pino Cacucci, con sensibilità attenta a tutte le coordinate che animarono la dialettica e la pratica militante del movimento anarchico d’oltralpe, ricostruisce le drammatiche vicende che ebbero per protagonisti l’anarchico lionese Jules Bonnot, audace rapinatore ed espropriatore, e gli altri personaggi di quel milieu libertario, profondamente individualista e sovversivo, che si affiancarono al primo in una sorta di lotta privata alla borghesia della Francia di inizio secolo.

Generoso e folle sogno

Restando volutamente sospeso fra ricostruzione storica e invenzione letteraria, in questo romanzo Cacucci descrive l’esistenza grama e disperata di un gruppo di anarchici che, fra il 1910 e il 1911, trovarono in un illegalismo fatto di rapine ed espropri il mezzo per sbattere violentemente la propria rabbia in faccia a una società che li voleva, altrimenti, relegati ai suoi margini. Protagonista, nel romanzo e nella cronaca, è Jules Bonnot, il “capo” dei banditi in automobile, il personaggio che più degli altri rappresenta la drammaticità di una condizione che sembra non poter avere alternative meno radicali. E, infatti, i motivi che imprimeranno alla sua sorte il carattere di non ritorno, che “lo condanneranno a trasformare la sensibilità in violenza”, ci sono tutti: una infanzia povera di tutto fuorché di sofferenze, lo sfruttamento sistematico sui luoghi di lavoro, l’impossibilità di far valere “con le buone” i propri diritti, i continui licenziamenti, le persecuzioni poliziesche, gli amori conclusi con donne incapaci di condividerne il furore, insomma, la preclusione, per lui anarchico, proletario, ribelle, a costruirsi un’esistenza “normale”. E attorno a lui, figli dello stesso ambiente e delle stesse idee, un gruppo di anarchici, irriducibili e disperati, che butteranno la vita nel generoso e folle sogno di dare ad essa, con gli strumenti della violenza, un senso diverso da quello imposto dalla società. I loro nomi Garnier, Valet, Dieudonné, Callemin, Soudy, Albert Libertad, André Lorulot, operai, artigiani, sottoproletari gli uni, intellettuali, giornalisti, conferenzieri incendiari gli altri. Diversi, ma tutti incapaci di qualsiasi mediazione. E non solo rispetto alla loro coscienza ma, a volte, anche rispetto alla loro stessa intelligenza.
Accanto a quanti vedevano nella violenza l’unica risposta alla feroce violenza dello stato e della borghesia, troviamo però anche quegli anarchici che, negli stessi anni, tentarono di proporre ben altre ragioni e ben altri metodi nella comune lotta contro il potere e lo sfruttamento. Ovviamente, infatti, il movimento anarchico francese di quegli anni non era composto solo di camarades disposti a interpretare i personaggi dell’eterno gioco di guardie e ladri, ma comprendeva, nella sua complessità, altre straordinarie figure di militanti, consapevoli che la scelta dell’illegalismo, a lungo andare, non avrebbe potuto portare ad altro che all’autodistruzione. Ecco quindi che, accanto a Bonnot e ai suoi, troviamo le limpide figure di Victor Serge e Rirette Maitrejean, amici e compagni di molti dei componenti la banda, sempre umanamente solidali con loro, con le loro sofferenze e il loro tragico destino, ma lucidamente e drasticamente oppositori delle loro scelte suicide. E con efficacia Cacucci fa partecipe il lettore, anche quello meno avvertito, dell’aspro scontro dialettico che contrapponeva chi non vedeva altra strada che quella con in mano una Browning, e chi, invece, continuava ostinatamente a pensare che l’anarchia fosse possibile solo diffondendone, nella società, i principi di solidarietà e uguaglianza.

Affresco plurale

Anche questa volta, dunque, non si tratterà di un singolo “ritratto in piedi”, ma di un affresco plurale, che vuole raffigurare quasi tutti i protagonisti di questo affascinante romanzo. Perché un ritratto, evidentemente, è dedicato a Bonnot, e ritratti con lui sono Albert Libertad, Raymond-la-science, Garnier, Valet, Carouy, “che hanno perso tutto ma l’unica cosa che sono riusciti a non perdere è la dignità”, ma... soprattutto “ritratti in piedi” sono Victor Serge e Rirette Maitrejean, che con una tenacia mai venuta meno, neppure durante la lunga e ingiusta carcerazione, con una lucidità e umanità che valse loro il rispetto anche dei più esaltati, contribuirono a far sì che, in un paese nel quale quaranta milioni di persone erano pronte, ormai, a identificare l’anarchia con il crimine e l’assassinio, l’ideale anarchico potesse continuare a essere, invece, il faro per ogni aspirazione di libertà ed uguaglianza.

Massimo Ortalli

Bibliografia

Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario, Firenze, La Nuova Italia, 1956

Paolo Valera, I clamorosi rossi dell’automobile grigia. Memorie di Giulio Bonnot, Milano, La
Folla, 1921

Gilbert Guilleminault e André Mahé, L’épopée de la Révolte, Paris, Denoel, 1963

Bernard Thomas, La banda Bonnot, Milano, Forum Editoriale, 1968

Pino Cacucci, In ogni caso nessun rimorso, Milano, Longanesi, 1994

Charles Bentin, La bande Bonnot, Geneve, Cremille, 1971

Maurice Boisson, Les attentats anarchistes sous la troisieme République, Paris, Editions de France, 1931

Jean Maitron, Ravachol et les anarchistes, Paris, Gallimard, 1992

Jean Maitron, Le mouvement anarchiste en France, Paris, Maspero, 1983

Victor Meric, Les bandits tragiques, Paris, Simo Kra, 1926

André Nataf, La vie quotidienne des anarchistes en France 1880-1910, Paris, Hachette, 1986

André Salmon, Le terreur noire, Paris, Pauvert, 1959

Alain Sergent e Charles Harmel, Histoire de l’anarchie, Paris, Portulan, 1949

 

Città senza
evasione possibile

di Victor Serge

L’anarchismo ci prendeva per intiero perché ci chiedeva tutto, ci offriva tutto: non c’era un solo angolo della vita che non rischiarasse, almeno così ci sembrava. Si poteva essere cattolici, protestanti, liberali, radicali, socialisti, anche sindacalisti senza nulla cambiare della propria vita, e per conseguenza della vita: bastava dopo tutto leggere il giornale corrispondente; a rigore frequentare il caffè degli uni o degli altri. Intessuto di contraddizioni, dilaniato in tendenze e sottotendenze, l’anarchismo esigeva anzitutto l’accordo tra gli atti e le parole (cosa che in verità esigono tutti gli idealismi, ma che tutti dimenticano, addormentandosi): per questa ragione andammo alla tendenza estrema (in quel momento), quella che mediante una dialettica rigorosa arrivava, a forza di rivoluzionarismo, a non aver più bisogno di rivoluzione. Eravamo un po’ spinti dal disgusto di un certo anarchismo accademico molto assennato, di cui Jean Grave era il pontefice ai Temps nouveaux. L’individualismo era stato appunto allora affermato da Albert Libertad, che ammiravamo. Non si conosce il suo vero nome; non si sa nulla di lui prima della predicazione. Infermo alle due gambe, camminava appoggiandosi alle stampelle, di cui si serviva con vigore nelle baruffe, da quell’attaccabrighe che era, portava su un torso possente una testa barbuta dalla fronte armoniosa. Povero, venuto vagabondo dal Mezzogiorno, cominciò la sua predicazione a Montmartre, nei circoli libertari e nelle code di poveri diavoli che aspettavano la distribuzione della minestra non lontano dai cantieri del Sacro Cuore. Violento e magnetico, divenne l’anima di un movimento di un dinamismo così straordinario che non è ancora del tutto spento al giorno d’oggi. Amava la strada, la folla, il baccano, le idee, le donne: convisse due volte con due sorelle, le sorelle Mahé e le sorelle Morand; ebbe figli che rifiutò di iscrivere allo stato civile. «Lo stato civile? Non lo conosco. Il nome? Me ne infischio, si daranno quello che vorranno. La legge? Vada al diavolo.» Morì nel 1908, delle conseguenze di una baruffa, all’ospedale, non senza lasciare il suo corpo, «la mia carogna » diceva, ai preparatori anatomici, per la scienza. La sua dottrina, che divenne quasi la nostra, era questa: « Non aspettare la rivoluzione: quelli che promettono la rivoluzione sono buffoni come gli altri. Fa la tua rivoluzione tu stesso. Essere uomini liberi, vivere da compagni.» Evidentemente semplifico, ma era davvero d’una bella semplicità. Comandamento assoluto: regna, «e crepi il vecchio mondo!» Da qui partirono naturalmente molte deviazioni; «vivere secondo la ragione e la scienza », conclusero alcuni, e il loro povero scientismo, che invocava spesso la biologia meccanicistica di Yves Le Dantec, li condusse a ogni sorta di cose ridicole come l’alimentazione vegetariana senza sale e di sola frutta, e anche a fini tragiche. Si sarebbero visti dei giovani vegetariani impegnare lotte senza uscita contro la società intiera. Altri conclusero: «Dobbiamo essere al di fuori, per noi non c’è posto che in margine alla società », senza pensare che la società non ha margine, che ci si è sempre dentro, anche in fondo alle galere, e che il loro «egoismo cosciente » faceva eco dal basso, tra i vinti, al più feroce individualismo borghese. Altri infine, tra cui mi trovavo anch’io, tentarono di condurre di pari passo la trasformazione individuale e l’azione rivoluzionaria, secondo il motto di Elisée Reclus: « Fino a che durerà l’iniquità sociale, resteremo in stato di rivoluzione permanente... » (Cito a memoria). L’individualismo libertario ci dava presa sulla realtà più lancinante, su noi stessi. Sii te stesso. Però, esso si sviluppava in un’altra città-senza-evasione-possibile, Parigi, immensa giungla dove un individualismo primordiale, ben altrimenti pericoloso che il nostro, quello della più darviniana lotta per la vita, regolava tutti i rapporti. Partiti dalle servitù della povertà, ce le ritrovavamo dinanzi: essere se stessi sarebbe stato un prezioso comandamento e forse un alto adempimento, se però fosse stato possibile; e non comincia a divenire possibile che quando i bisogni più imperiosi dell’uomo, quelli che lo confondono con le bestie più che con i suoi simili, siano soddisfatti. Il nutrimento, un ricovero, i vestiti dovevamo conquistarli con una lotta accanita; e, dopo, l’ora per leggere e meditare. Il problema dei giovani senza un soldo che una irresistibile aspirazione sradicava, « strappava al collare », come noi dicevamo, si poneva in termini quasi insolubili: molti compagni dovevano presto scivolare in quella che si chiamò l’illegalità, la vita non più in margine alla società, ma in margine al codice. « Non vogliamo essere né sfruttatori né sfruttati», essi affermavano, senza accorgersi che diventavano, pur restando l’una e l’altra cosa, uomini braccati. Quando si sentirono perduti, decisero di farsi uccidere, non accettando la prigione « La vita non val questa!», mi diceva uno di essi, che non usciva più senza la sua browning. «Sei pallottole per i cani da guardia, la settima per me. Sai, ho il cuore leggero...» È pesante, un cuore leggero. La dottrina della salvezza che è in noi metteva capo, nella giungla sociale, alla battaglia di Uno contro tutti. Una vera esplosione di disperazione maturava tra noi senza che lo sapessimo.

Tratto da: Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario, Firenze, La Nuova Italia, 1956.


 

Ammiravo
i suoi paradossi
di Paolo Valera

Egli diceva che non era nato per essere fra i malcontenti, fra i miserabili, fra gli ubbidienti. Erano malattie per i bruti, per gli idioti. La storia era fatta di disubbidienze. Ascoltavo e ammiravo. Ammiravo i suoi paradossi, senza difendermi, senza impedire che le stramberie diventassero a poco a poco verità anche per me. In un mese la mia fantasia si accendeva con le faville della sua. Mi scaldavo al fuoco del suo cervello. C’erano momenti in cui mi sentivo illuminato della sua luce. Con il suo verbalismo alla rovescia le figure storiche assumevano altri colori, diventavano altre persone, circolavano con altri caratteri. Annegate nell’inchiostro del disgusto o del disprezzo egli le alzava e le faceva rivivere nella prosa scarlatta della rivolta. Gli uomini più bistrattati dalle villanie dei contemporanei apparivano nella discussione uomini integri, con il loro cervello disambientato in lotta con gli uomini del suo tempo. Plasmati da lui, circolavano altezzosi, fieri, inconciliabili, come in una conflagrazione di idee. Se mi lasciavo impallidire dalle cataste dei cadaveri ammucchiati nelle pagine dei movimenti incomposti per le imprudenze o le impazienze dei personaggi o delle masse egli: mi svecchiava. Mi ripeteva che si doveva pensare alla rovescia. Il bianco doveva diventare nero e il nero bianco. Per la gente antica le perturbazioni, le violenze, le sollevazioni erano disperazioni umane. Per lui contenevano delle consolazioni, delle risurrezioni, delle giuste vendette, delle scene immortali.
– I tumulti – mi diceva – le insurrezioni, i complotti, le sedizioni, gli ammutinamenti, le eruzioni popolari contro le leggi antisociali sono manifestazioni sagge, da gente equilibrata. Non c’è altro. Se si è fatta della strada è grazie a questi urti, a queste febbri, a queste convulsioni. Per gli sciocchi sono eccessi di follia, Per me sono movimenti utili, razionali, indispensabili nella società del mio e del tuo. Senza di esse saremmo ancora alla Vandea odiosa della gente che moriva o voleva morire per i diritti patrizi e bestiali del feudalesimo.

Tratto da: Paolo Valera, I clamorosi rossi dell’automobile grigia. Memorie di Giulio Bonnot, Milano, La Folla, 1921.

I porci
stanno per pagare
di Bernard Thomas

Nel primo incontro, si parlò di varie cose. Si videro di nuovo il giorno dopo, poi ancora il successivo. In meno di una settimana un piano di battaglia era già elaborato.
Raymond descriveva l’obiettivo da raggiungere in termini entusiasmanti. Bonnot, imperturbabile, riconduceva la conversazione a dettagli concreti, indispensabili e persino difficili da comprendere per quegli intellettuali vegetariani. Lo faceva con modestia, con pazienza, senza alzare la voce, senza mai offendere, dando loro l’impressione di scoprire le idee da soli, a poco a poco. Le grandi linee di questa audace strategia, non priva di somiglianze con quella che venticinque anni dopo seguirà il Kuomintang per la guerriglia urbana a Shanghai, possono essere descritte in questo modo. Obiettivo: vincere la formidabile organizzazione sociale. Sorprendere. Stupire. Strategia: quella della vespa contro l’elefante. La puntura in un posto sensibile. Il colpo di mano rapido; l’azione-lampo che semina il terrore per il dolore imprevisto che provoca; poi, approfittando del panico, una ritirata rapida come l’attacco. Strumenti: l’arsenale inventato dalla scienza. Automobili veloci, armi dal tiro rapido. Arnesi da scasso perfezionati. Tattica: in periodo di preparazione, nascondersi in luoghi diversi, sotto falsi nomi, da non confidarsi neppure reciprocamente per ulteriore prudenza; appuntamenti in luoghi continuamente diversi. Uccidere soltanto in caso di necessità. Ma, beninteso, ogni resistenza da parte del nemico sarebbe stata considerata come una ribellione e avrebbe giustificato, per legittima difesa, l’impiego di armi da fuoco. Organizzazione della banda: nessun capo, coerentemente ai principi. Un’associazione di liberi individui. Ma comunque, un ruolo per ciascuno, in funzione della propria personalità. Un commissario politico, Raymond. Un consigliere militare, Bonnot. Come luogotenenti: Garnier, per la sua vivacità, l’audacia, l’agilità. Carouy, per la sua solidità, il sangue freddo esemplare; Monnier, detto Simentoff, egualmente coraggioso, eccellente nel raccogliere le informazioni, valido soprattutto per il sud della Francia. In seguito, in secondo piano, Metge, il cuoco, esecutore notevole, ma con la tendenza a perdere le staffe. Dieudonné, forse, se accetterà. Valet sarebbe stato un ottimo elemento, se la «riappropriazione individuale» lo avesse interessato, cosa non corrispondente alla realtà. Soudy è senza dubbio utilizzabile: quel povero ragazzo non ha più niente da perdere. Lorulot in nessun caso: un parolaio confusionario. Kilbatchiche, neanche parlarne.
(…).
Aveva in balia della sua volontà un gruppo di giovani, nati in famiglie povere come la sua, e che, come era successo a lui, l’ingiustizia mostruosa delle condizioni sociali aveva reso ribelli. Poiché essi erano più sensibili, più onesti, più logici e più coraggiosi del gregge, erano scivolati senza rendersene conto dalla parte dei ladri di professione. Che bel materiale caldo e corrosivo da utilizzare per vendicarsi della Società, per vendicare Judith! Con loro si poteva andare fino in fondo.
Bonnot vedeva giusto. A forza di scioperi finiti nel sangue, a forza di scandali finanziari, un pugno di ragazzi era sorto dalla massa dalla schiena curva per le bastonate. L’incomprensione che li aveva circondati, l’impossibilità di vedere le loro rivendicazioni soddisfatte, qualche buon libro che nessuno aveva insegnato loro a leggere, l’impulsività della giovinezza, la corruzione all’alto della scala sociale, il sudiciume in basso, li avevano resi pazzi furiosi.
Fornendo armi e un metodo a questi ragazzi paranoici per un insieme di circostanze troppo complicate per la loro testa, Bonnot ne farà degli assassini. Essi non si illudono più sulla possibilità di una rivoluzione mondiale, in quella fine del 1911. Non ci pensano più. Vedono rosso. Sono furiosi. Non si rendono conto che l’impeccabile strategia che hanno messo in piedi è al servizio di una ideologia demente: il trionfo di un io alienato.
Bonnot se ne frega. Possono dire e pensare ciò che vogliono. I porci stanno per pagare.

Tratto da: Bernard Thomas, La banda Bonnot, Milano, Forum Editoriale, 1968.

Non chiedevo granché
di Pino Cacucci

«Ribellione», mormorò Jules adagiandosi sulla branda.
Ribellione, non rivoluzione. Qualsiasi tentativo di sostituire un governo reazionario con uno rivoluzionario, rifletté, avrebbe comunque lasciato al loro posto, se non gli stessi sfruttatori, sicuramente i metodi di sfruttamento in quanto funzione, rifletteva Jules. Lo stato poteva cambiare i fini, ma non i mezzi. Stirner lo aveva capito. E Nietzsche definiva Stirner « l’intelletto più fertile della sua epoca »... Jules sorrise, scuotendo la testa, e le labbra gli si piegarono in una smorfia amara: l’intelletto più fertile, certo, che però era morto in miseria e solitudine, ignorato dai borghesi, disprezzato e ridicolizzato dai socialisti, abbandonato alla fame che aveva accompagnato buona parte della sua esistenza... A che era servito tanto intelletto, se poi nulla era riuscito a cambiare? La società, lo stato, il mondo intero erano disposti a riconoscergli la qualifica di filosofo, adesso che Stirner era un mucchietto di ossa dimenticate in qualche cimitero del paese più socialista di ogni altro. Già, i socialdemocratici tedeschi, pensò Jules grattandosi con violenza fra i capelli; fu distratto dall’idea che in quella lurida soffitta ci fossero le cimici... Ma no, era solo sporcizia, non si faceva un bagno da troppi giorni, e la polvere ferrosa della fabbrica era peggio delle cimici. Riprese il filo dei suoi pensieri. Dunque, i socialdemocratici erano quel fior di rivoluzionari che, una volta entrati in parlamento, avevano detto chiaro e tondo: « L’operaio tedesco è ormai un cittadino rappresentato al Reichstag, e da adesso ha dei doveri verso la Germania che vanno anteposti a quelli verso la propria classe»... Jules sospirò e subito fu preso da un attacco di tosse. Quella maledetta polvere. Che importava se veniva respirata in nome di Bismarck o della socialdemocrazia, quando l’unico scopo era costruire cannoni per poi sottomettere popoli in Africa o in Asia, o mostrare i muscoli ai vicini europei... E quel vecchio rimbambito di Engels, ricordò Jules, si era persino rimangiato il Manifesto Comunista, dichiarando che i socialdemocratici tedeschi dovevano approvare le spese militari, per difendersi da un attacco della Russia zarista... La solita storia. In quanto alla Russia, poi... Jules gettò uno sguardo ai vecchi giornali accatastati, ai fogli anarchici sparsi un po’ dappertutto nell’angusto spazio della soffitta. Due anni prima, c’era stato l’ammutinamento dell’incrociatore Potëmkin. Una bella cosa, senza dubbio. Magari li avesse avuti lui, i cannoni a lunga gittata da puntare su Lione... Be’, Lione era un po’ troppo distante dal mare. Forse, avrebbe cannoneggiato la Costa Azzurra, giusto per dare una ripulita... Stavolta si mise a ridere, fermandosi però in tempo, prima che i bronchi tornassero a tormentarlo. L’incrociatore Potëmkin, gli ufficiali e i soldati insorti... Ma che accidente di rivoluzione sarebbe mai stata, se a cominciarla erano i militari? Conosceva bene il mondo chiuso e miope dei militari: qualsiasi idea avessero, qualunque fosse il motivo che li spingeva ad ammutinarsi, si sarebbero portati dietro le tare tipiche della mentalità da caserma. No, non c’era speranza. Non nella rivoluzione, almeno. La ribellione era un’altra cosa. Certo, Stirner non aveva mutato nulla. Ma, neppure ci era riuscito quel calzolaio parigino, anarchico pure lui, tale Léon Léauthier, che era entrato in un lussuoso ristorante dell’avenue de l’Opéra e aveva piantato il suo trincetto nella pancia del primo simbolo che gli era capitato a tiro, cioè la faccia da carogna più carogna che aveva visto: casualmente, apparteneva al signor Georgewitch, ministro della Serbia. Roba da incidente internazionale. E a che cosa era servito? Il calzolaio, addio. Il ministro, sostituito da un’altra carogna suo pari. «Se avessi avuto della dinamite, avrei fatto di meglio», era stata la dichiarazione del calzolaio, prima che lo portassero via e cominciassero a massacrarlo di botte. Sì, come no, la dinamite...
L’ultimo barlume si spense, e la candela spirò. Jules accese un fiammifero, in cerca delle sigarette. Ne era rimasta una. La prima boccata lo fece tossire, ma già alla seconda avvertì una piacevole sensazione di stordimento nei polmoni.
(…).
Jouin l’aveva lasciato sfogare. E a quel punto riprese con voce sommessa:
«La conosco troppo bene, per chiederle una cosa simile. Io volevo soltanto metterla in guardia. Tentare di spiegarle che l’illegalismo porterà tutti alla rovina, anche quelli come lei che non lo condividono, o addirittura lo avversano. E che personaggi come Platano possono raccontare in giro di essere anarchici, ma sono soltanto delinquenti. Come ormai lo sono Raymond Callemin e Edouard Carouy, per la giustizia. Non si possono svaligiare case e uffici postali e pretendere di sbandierare ideali di amore e fratellanza...

O forse non è d’accordo con me, lei che dedica ogni giorno della sua vita a un’utopia che sta sprofondando nel fango? »
Le mani di Victor, posando la tazza del caffè, tradirono il nervosismo.
« I delinquenti servono a mantenere i poliziotti. Senza i delinquenti, nessuno vi pagherebbe uno stipendio », sibilò con le labbra bianche per la tensione.
« Lei tende a semplificare troppo le cose, signor Kibalcic. »
« Commissario Jouin, il vero motivo per cui non trovo pace, in questa mia vita, è che non riesco mai a vedere le cose semplicemente. Magari potessi accontentarmi di certe facili parole d’ordine, di ragionamenti elementari... Tutto è così maledettamente complesso, da aggiungere costantemente dubbi ai dubbi. C’è una sola cosa semplice, in questa realtà che ci hanno costretto a vivere: lei e io siamo nemici naturali. »
Il volto di Jouin riassunse quell’espressione dolente che aveva all’inizio del colloquio.
« È libero di non credermi, ma io non mi sento suo nemico. »
« Il mestiere che si è scelto la obbliga a esserlo, commissario. »
(…).
Jouin assunse un’espressione rassegnata. Guardò Rirette, che era rimasta in piedi, appoggiata al ripiano di marmo del lavandino, e distolse quasi subito gli occhi da quelli di lei. Aveva letto una sfumatura di pietà che si mescolava al disprezzo manifestato fino a quel momento. E non riuscì a sopportarlo. Preferì rivolgersi a Victor, che aspettava la sua risposta.
«Perché... perché non esiste una società che possa fare a meno dei poliziotti. Anche dopo una rivoluzione, la prima cosa da fare è riorganizzare la polizia. Lei questo lo sa, signor Kibalcic. È la sua intelligenza che le impedisce di essere del tutto utopista.»
«Ma è la mia sensibilità che mi farà vivere sempre e comunque contro una società che ha bisogno dei poliziotti per conservare il potere. Anche a dispetto dell’intelligenza, commissario. A dispetto di tutto e di tutti. Se il mio destino è di restare eternamente un eretico... tanto peggio. Vorrà dire che morirò senza rimpianti, con tutti i miei dubbi, ma con una sola certezza: di non essere mai stato complice dell’orrore, del sopruso, degli oppressori d’ogni sorta, qualunque sia il colore e l’ideologia che li anima.»
(…).


Jules se ne stava seduto sul pavimento in fondo alla stanza. Si era messo a scrivere su un foglio a quadretti, con là matita che aveva trovato nel cassetto del tavolo.
Non chiedevo granché. Camminavo con lei al chiaro di luna nel cimitero di Lione, illudendomi che non vi fosse bisogno d’altro per vivere...
Una pioggia di colpi staccò pezzi di intonaco e schegge di legno. Jules chinò il capo e attese pazientemente che si sfogassero. Tornato il silenzio, riprese a scrivere.
Era la felicità che avevo inseguito per tutta la vita, senza esser capace neppure di sognarla. L’avevo trovata, e scoperto che cosa fosse. La felicità che mi era stata sempre negata...
Uno squillo di tromba annunciò l’ennesima bordata di proiettili. Jules imprecò, mentre una nube di calcinacci e polvere ricopriva il foglio a quadretti. Appena cessarono gli spari, afferrò le due Browning e andò a scaricarle fuori della finestra.
Gli assedianti risposero, e passarono altri 17 minuti d’inferno. Alla fine, Jules, nel suo angolo, scrisse le ultime righe.
Avevo il diritto di viverla, quella felicità. Non me lo avete concesso. E allora, è stato peggio per me, peggio per voi, peggio per tutti... Dovrei rimpiangere ciò che ho fatto? Forse. Ma non ho rimorsi. Rimpianti sì, ma in ogni caso nessun rimorso.

Tratto da: Pino Cacucci, In ogni caso nessun rimorso, Milano, Longanesi, 1994.