rivista anarchica
anno 33 n. 287
febbraio 2003


pedagogia

Il bambino e il dolore
di Camilla Pagani

 

Il ruolo degli adulti nell’aiutare i bambini ad affrontare l’esperienza del dolore; e, al contempo, il loro ruolo nel provocarlo attraverso l’esercizio del potere e della violenza. L’analisi di una ricercatrice dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Comunicazione del CNR.

Capire il dolore del bambino equivale a capire le potenzialità della sua intelligenza, intesa come capacità di giudizio, di elaborazione e assimilazione degli aspetti più significativi dell’esperienza, come capacità di cambiamento, se necessario, delle proprie strutture di pensiero e quindi inevitabilmente anche come capacità di sofferenza. Si tratta di un’intelligenza che presenta connotazioni ben più ampie rispetto all’uso ristretto e svilente che viene fatto correntemente di questo termine, quando dagli adulti viene per lo più associato semplicemente all’uso del computer, all’apprendimento di una lingua straniera o alla soluzione di un problema logico-matematico.
Il tema del dolore del bambino ha molti aspetti, ma due mi sembrano fondamentali: a) il ruolo dell’adulto nell’aiutare il bambino ad affrontare l’esperienza del dolore e b) i modi in cui l’adulto, in genere intenzionalmente, ma talvolta anche non intenzionalmente, produce dolore nel bambino attraverso l’esercizio del potere e della violenza.
Analizzerò questi due aspetti facendo riferimento, a titolo esemplificativo, a queste specifiche tematiche: 1) il rapporto del bambino con la morte e la malattia; 2) la spinta in molti settori della popolazione nelle società industrializzate a favorire nell’educazione dei bambini, in una prospettiva di efficientismo e di competitività, prevalentemente lo sviluppo di capacità che potremmo definire tecniche; 3) l’apporto dell’arte, in particolare della letteratura, alla comprensione del dolore del bambino; 4) la comunicazione adulto-bambino.
In una ricerca che ho svolto alcuni anni fa sugli atteggiamenti dei bambini nei confronti della malattia e della morte e in cui ho raccolto molti dati soprattutto attraverso interviste e questionari, ho avuto la possibilità di riscontrare quanto varia, ampia e poco coerente sia la gamma di idee che gli adulti in genere hanno sul rapporto del bambino con il dolore (Pagani e Robustelli, 1986; Pagani, 1992). Nonostante si trattasse di un gruppo particolarmente selezionato di adulti, costituito prevalentemente da insegnanti e da genitori di cultura media e medio-alta, questa indagine ha messo in evidenza, tranne ovviamente alcune eccezioni, una diffusa superficialità e una diffusa contraddittorietà delle opinioni su questo tema espresse dalle persone interpellate. Dall’analisi dei dati emergeva generalmente in questi adulti una visione molto riduttiva, e di conseguenza falsa, del bambino per quanto riguarda le sue effettive capacità cognitive ed affettive. E se gli adulti hanno una visione superficiale e distorta del bambino ne deriva che il bambino si sentirà poco capito, solo, scarsamente incline alla comunicazione con gli altri, e notevole sarà quindi la sua sofferenza. A titolo esemplificativo basterà citare due opinioni espresse da alcuni degli insegnanti e dei genitori coinvolti nella ricerca. La prima è che il bambino, rispetto all’adulto, ha una forza intrinseca che gli permette di dimenticare più facilmente gli eventi dolorosi e di avere quindi maggiori capacità di recupero. La seconda è che l’adulto deve porsi di fronte al bambino come una fonte di speranza e di ottimismo. Deve perciò evitare di affrontare con lui temi dolorosi come quelli della morte e della malattia, per non apparire agli occhi del bambino come una persona triste o depressa.
Queste due opinioni fanno riferimento, in modo più o meno implicito, ad un concetto di forza legato alla capacità di dimenticare o, in ogni caso, alla capacità di negare alcuni aspetti della realtà. Come ho già scritto (Pagani, 1992),

[...] un individuo tanto più avrà raggiunto un adeguato sviluppo della personalità quanto più avrà analizzato, elaborato e assimilato gli aspetti più significativi della sua esperienza (compresi quelli dolorosi), organizzandoli in un insieme sufficientemente coerente di ricordi, di sentimenti, di idee.

La forza non consiste quindi nell’oblio o nella negazione, ma nello sforzo di capire e di far capire. Sappiamo, anche perché la ricerca psicologica l’ha dimostrato, che il bambino, fin dai primi mesi di vita, percepisce, elabora e ricorda, attraverso modalità diverse a seconda del suo livello di sviluppo, quanto avviene intorno a lui e dentro di lui, ivi compresi gli eventi dolorosi (cfr. Anthony, 1971; Pagani e Robustelli, 1986; Pagani, 1992; Raimbault, 1975; Robustelli e Pagani, 1983; Stuber e Mesrkhani, 2001). Sappiamo anche che spesso il bambino vive questo processo di elaborazione e di assimilazione delle sue esperienze, soprattutto di quelle più complesse e dense di sofferenza, da solo, perché l’adulto per diversi motivi di solito lo abbandona in questo difficile compito. È possibile anche che in questa situazione di confusione, smarrimento e angoscia il bambino decida più o meno inconsapevolmente che ci sono ambiti dell’esperienza umana in cui è meglio non addentrarsi troppo o perché sono troppo dolorosi perché lui li affronti da solo o perché gli adulti sembrano non ritenerli importanti oppure sembrano considerarli aspetti della vita troppo terribili, e per questo talvolta anche proibiti o vergognosi, a cui non è possibile accedere nell’infanzia. Una delle conseguenze di questo stato di cose può essere che nel bambino l’esigenza soggettiva, e quindi progressivamente anche la capacità, di analizzare gli aspetti più complessi e più affettivamente coinvolgenti dell’esperienza vengano in parte o del tutto atrofizzate. Un’altra conseguenza è che nel bambino diminuisca o venga meno la capacità di comunicare costruttivamente con gli altri. Approfondirò questo punto più avanti, quando parlerò più in generale della comunicazione adulto-bambino.

Visione meccanicistica

D’altronde questo processo non avviene in un vuoto culturale. In un articolo intitolato Febbre e videogame, apparso in una rivista italiana di ampia diffusione, Mensurati (1998) cita un libro di J. C. Herz, Joystick Nation (1997). Così scrive la Herz nel prologo del suo libro:

I videogiochi costituiscono una perfetta formazione alla vita nell’America fin de siècle, dove l’esistenza quotidiana richiede l’abilità di saper analizzare [...] tipi diversi d’informazioni lanciateci simultaneamente addosso da telefoni, fax, televisori, cercapersone, agende elettroniche, sistemi vocali di messaggeria, la posta normale, quella elettronica in ufficio e Internet. Le notizie internazionali vengono aggiornate ogni mezz’ora, e il posto di lavoro ha un piede nel cyberspazio. Ed è necessario elaborare tutto questo istantaneamente. È necessario saper riconoscere i differenti modelli in questo vortice d’informazioni, e in fretta. I nati col joystick in mano sono avvantaggiati. Checché ne dicano i polemici luddisti, i ragazzini svezzati a videogiochi non sono piccoli zombi illetterati [...]. Sono semplicemente acclimatati a un mondo che assomiglia sempre più a una specie di esperienza da sala giochi.

Anche se l’autrice fa un esplicito riferimento agli Stati Uniti, le sue considerazioni sono in gran parte valide anche per le altre società occidentali, dove il modello di vita americano è diventato sempre più pervasivo. Senza voler toccare, ad esempio, nemmeno marginalmente il problema delicatissimo e concretissimo del ruolo del virtuale nello sviluppo della personalità di un individuo e il tema del collegamento tra videogiochi e addestramento al combattimento nella guerra moderna e tra videogiochi e sviluppo dell’aggressività, le espressioni abilità, lanciateci addosso, vortice, avvantaggiati, simultaneamente, istantaneamente, in fretta, ci rimandano a campi semantici facilmente riferibili alla competizione, allo sport agonistico, alla guerra, allo sviluppo di capacità prevalentemente tecniche. Queste capacità sono fondamentalmente legate alla prontezza di riflessi, alla rapidità dell’esecuzione del compito, all’efficienza della prestazione in una rincorsa conformistica al successo e alla vittoria su rivali e nemici. In questo contesto il significato del compito dal punto di vista etico, metafisico e delle sue conseguenze sul reale benessere di tutti, è considerato del tutto irrilevante. Si tratta di una visione essenzialmente meccanicistica dell’esistenza, in cui le informazioni significative che arrivano al cervello sembrano ridursi per lo più a quelle che provengono appunto da telefoni, fax, televisori, cercapersone, agende elettroniche, sistemi vocali di messaggeria, la posta normale, quella elettronica in ufficio e Internet. La velocità nell’interpretazione degli stimoli e nell’elaborazione delle risposte agli stimoli, il passaggio rapido da un compito a un altro, il ritmo martellante dell’avvicendarsi delle nuove informazioni, sembrano scandire i tempi che fanno da sfondo alla vita. Nonostante le numerose critiche che le vengono rivolte da ambienti diversi, scientifici e non, questa visione dell’esistenza si sta consolidando con sempre maggior forza nelle società occidentali.
Non ci si deve stupire quindi se la depressione, la violenza e i suicidi sono così diffusi tra i bambini e gli adolescenti e se permangono livelli disastrosi di primitivismo nei rapporti affettivi degli esseri umani tra di loro, con gli altri animali e la natura in genere. Infine, nel brano citato il punto culminante è costituito dall’assimilazione del mondo a “una specie di esperienza da sala giochi” e dalla disinvolta e acritica constatazione dell’acclimatazione dei ragazzini a una tale realtà. In questa prospettiva gli aspetti alienanti di un mondo divenuto una sala giochi e di conseguenza i problemi, ad esempio, del dolore, della solitudine e dell’incomunicabilità non sono nemmeno per un attimo presi in considerazione. È ovvio che questo contesto culturale non favorisce negli adulti un atteggiamento di interesse e di disponibilità nei confronti della comprensione del bambino e del suo dolore. È anche altrettanto ovvio che questo contesto culturale non favorisce nel bambino un atteggiamento di riflessione e di analisi critica per quanto riguarda le sue problematiche e quelle dell’ambiente in cui vive.
Se la consapevolezza di non essere capito è un’esperienza molto dolorosa per un adulto, tanto più lo è per un bambino, che ha più bisogno di appoggi, di linee guida nelle prime fasi della sua scoperta del mondo. Uno degli aspetti più negativi della nostra società è quello di non sapere guardare il bambino al di là della facciata che ci presenta e che spesso noi gli abbiamo costruito, così che succede che la gente è stupita e costernata quando un bambino o un adolescente si suicida o è ignara di quanta sofferenza si nasconde dietro la durezza e l’apparente indifferenza di un baby-killer o di un baby-soldato (Pagani, 2001).
Acquistare consapevolezza del dolore del bambino equivale anche ad acquistare consapevolezza degli aspetti più dolorosi e tragici dell’esistenza umana e della fondamentale inconsistenza del mito dell’infanzia come età felice, mito che gli adulti strumentalizzano per diminuire l’impatto del dolore sulle loro coscienze. Quando si programma la nascita di un bambino ci si dovrebbe interrogare non solo sulle possibilità affettive, economiche, di tempo, che siamo in grado di offrirgli, ma anche sul valore e il significato che attribuiamo all’esistenza umana di per sé, perché è innanzi tutto l’esistenza, intesa in senso metafisico e in senso sociale (cioè in un dato mondo, in una data epoca storica) che noi diamo al bambino. Una prospettiva metafisica e sociale è quella che ci offre su questo tema uno scrittore, Russell Hoban (1975), autore tra l’altro anche di libri per bambini:
C’è chi scrive libri per bambini e chi scrive libri sui libri scritti per bambini ma non penso assolutamente che venga fatto per i bambini. Penso che tutti quelli che si preoccupano tanto dei bambini in realtà si stiano preoccupando di se stessi, di tener insieme il proprio mondo e indurre i bambini ad aiutarli in questo compito, indurre i bambini a convenire che si tratta davvero di un mondo. A ogni nuova generazione di bambini bisogna dire: “Questo è un mondo, questo è quello che si fa, è così che si vive.” Forse la nostra paura costante è che arrivi una generazione di bambini a dire: “Questo non è un mondo, questo non è niente, e non c’è nessun modo di vivere.”
Nei giorni degli attentati terroristici alle Twin Towers e al Pentagono una parte della società occidentale è sembrata rendersi tragicamente conto del problema del dolore dei bambini. Ad esempio, è apprezzabile il fatto che, due giorni dopo la strage, il 13 settembre, l’inviato di “la Repubblica” a New York abbia dedicato in un suo articolo un capoverso ai bambini:
A soffrire di più – anche se non lo dicono – sono i bambini della città. Molti non sanno che fine abbia fatto il papà pompiere, la cugina telefonista o lo zio poliziotto: aspettano e guardano la tv. Molti altri non riescono a dare una risposta a tanti perché. Perché i terroristi sono venuti proprio qui? Perché le torri che erano così solide si sono frantumate? Perché le scuole sono chiuse? (“la Repubblica”, 13 settembre 2001)

È apprezzabile anche che negli Stati Uniti più voci (psicologi, insegnanti, genitori) abbiano sottolineato la necessità di aiutare soprattutto i bambini ad affrontare questa drammatica esperienza (cfr. Helping Children Handle Disaster-Related Anxiety. “Medscape News”, September 13, 2001).
È auspicabile però che la maggiore consapevolezza del dolore dei bambini manifestata appunto da una parte della società occidentale in occasione dell’11 settembre includa il dolore dei bambini di ogni parte del mondo.

Migliori strategie

La psicologia, da parte sua, dovrebbe contribuire maggiormente a porre in risalto le enormi capacità e potenzialità affettive e cognitive del bambino e quindi la sua capacità di sofferenza. E non mi riferisco soltanto ai casi più vistosi di sofferenza del bambino, ma anche alla sofferenza di tutti quei bambini che vivono quel tipo di vita che viene comunemente definito normale. La psicologia, essendo una scienza influenzata in modi più o meno sottili dall’ideologia dominante nelle società occidentali, non si rende sempre conto in modo adeguato di quanto un bambino normale venga traumatizzato dalle normali contraddizioni sociali del nostro tempo. Tra l’altro l’aggettivo normale dovrebbe essere limitato al campo della statistica e bandito dal linguaggio corrente, in nome della unicità e della complessità di ogni singolo individuo e di ogni singola situazione e perché è un aggettivo fondamentalmente superficiale, fuorviante e denso di connotazioni che incoraggiano la passività e l’accettazione dello status quo, percepito come fondamentalmente positivo.
L’arte invece, e in particolare la letteratura e il cinema, ha spesso analizzato con profonda penetrazione il mondo interiore del bambino e il dolore del bambino in particolare. Mi viene in mente a questo proposito, per citare solo un esempio tratto dalla letteratura, un breve romanzo di Henry James, Ciò che sapeva Maisie (1897). I problemi a cui accennavo prima, della scarsa o nulla attenzione degli adulti alle domande più delicate e profonde del bambino, della sua solitudine, della vastità e complessità delle sue capacità e potenzialità affettive e cognitive, della sua sofferenza e del rischio che questo scrigno di ricchezza interiore venga irrimediabilmente perduto o venga deturpato da un ambiente esterno corrotto e perverso, sono tutti concentrati con una essenziale chiarezza nella figura della protagonista, una bambina, Maisie appunto.
In questa storia, diversamente da quanto ci si potrebbe ragionevolmente aspettare, dalle burrasche e dagli scossoni che accompagnano i primi anni di vita della bambina, soprattutto a causa delle liti furibonde dei suoi genitori, che vivono separati, del loro atteggiamento irresponsabile e patologicamente traumatizzante nei suoi confronti e dei comportamenti falsi, volgari e superficiali di molti adulti che ruotano intorno a lei, Maisie uscirà illesa, anzi con una capacità di percezione, di analisi e di elaborazione della realtà estremamente acuita. Perché se è vero che lo sviluppo di un bambino che cresce in una famiglia caratterizzata da mancanza di affetto, da aggressività nei rapporti interpersonali, dall’assenza di un supporto adeguato che gli venga fornito nell’elaborare i dati dell’esperienza, in generale subirà rallentamenti o distorsioni più o meno gravi, è anche vero che esistono dei bambini i quali, nonostante queste premesse negative, sono in grado di manifestare atteggiamenti e comportamenti di profonda empatia e notevoli capacità cognitive. Probabilmente, proprio perché conoscono gli effetti devastanti dell’aggressività e della solitudine affettiva, questi bambini sviluppano una reazione di rifiuto nei confronti di scelte distruttive e manifestano una profonda maturità nei loro pensieri, nei loro giudizi e nei loro affetti. La ricerca psicologica dovrebbe analizzare con maggiore attenzione lo sviluppo della personalità di questi bambini e il ruolo eventualmente svolto da figure-chiave al di fuori della famiglia (un amico, il genitore di un altro bambino, un insegnante). Forse in questo modo potremmo individuare con più chiarezza i fattori che promuovono lo sviluppo dell’empatia e quindi elaborare migliori strategie per favorire questo sviluppo.
Per ritornare alla letteratura, vorrei citare alcuni frammenti tratti appunto da Ciò che sapeva Maisie. James tra l’altro penetra nel mondo interiore di questa straordinaria bambina con grande delicatezza e profondo rispetto:

[...] era cresciuta in mezzo a delle cose riguardo alle quali ciò che aveva soprattutto imparato era che non doveva mai fare domande.

[...] la vita era un corridoio lungo lungo con tante porte chiuse. Aveva imparato che a queste porte era saggio non bussare [...].

Ricordiamo che Maisie è il pretesto e lo strumento dei litigi e delle dispute legali dei due genitori. All’inizio ha una percezione solo confusa di questa specie di gioco perverso e del ruolo che vi svolge. Ma poi ne diventa progressivamente e lucidamente sempre più consapevole. Capisce ad esempio di essere stata usata dai suoi genitori come inconsapevole latrice di messaggi violenti e volgari tra di loro. Decide allora di stare fuori dal gioco, usando una strategia ben precisa, quella di fingersi stupida:

La teoria della sua stupidità, abbracciata alla fine dai suoi genitori, coincise con un grande evento nella sua piccola vita silenziosa: la visione completa, personale ma definitiva, dello strano ruolo che aveva. Fu letteralmente una rivoluzione morale che avvenne nelle profondità del suo essere. Le bambole rigide sugli scaffali bui cominciarono a muovere le braccia e le gambe; vecchie forme e vecchie frasi cominciarono ad assumere un significato che la spaventò. Provò una sensazione nuova, una sensazione di pericolo; un rimedio nuovo sopraggiunse per fronteggiarla, l’idea di un io interiore o, in altre parole, l’idea del nascondersi. Comprese da segni imperfetti, ma con una mente prodigiosa, che era stata fulcro di odio e messaggera di insulti, e che tutto era cattivo perché lei era stata usata per renderlo cattivo. Le sue labbra socchiuse si sigillarono con la determinazione di non voler più essere usata. Avrebbe dimenticato tutto, non avrebbe riferito nulla, e quando, come tributo al successo dell’applicazione del suo sistema, cominciarono a chiamarla una piccola idiota, provò un piacere nuovo e acuto. Perciò quando, qualche tempo dopo, i genitori, prima l’uno e poi l’altro, dichiararono davanti a lei che era diventata disgustosamente stupida, questo non era affatto dovuto al contrarsi del piccolo corso d’acqua della sua vita. Sciupò il loro piacere, ma in realtà aumentò il suo. Vedeva sempre di più; vedeva troppo.

Nell’analisi di questa crescita interiore, di questa maturazione intellettuale, non può sfuggire che questo nuovo stato di cose, seppure accompagnato da un’aumentata soddisfazione della bambina per le proprie capacità di autonomia, di controllo, di lucidità, nello stesso tempo prelude probabilmente anche a una sua profonda e diversa esperienza di dolore, legata alla solitudine e alla perdita di speranze ed illusioni. Il problema sempre aperto del rapporto tra conoscenza e sofferenza entra qui in gioco.
Questo è quello che ci sa dare l’arte. Ma l’arte, per come è strutturata oggi la società, rappresenta una forza troppo piccola tra le molte altre forze costituite dalle ideologie dominanti. Vedremo più avanti se, e come eventualmente, è possibile fronteggiare questa realtà in modo costruttivo ed efficace.
Amplierò ora alcune riflessioni fatte all’inizio di questo articolo sul rapporto tra la comunicazione dell’adulto con il bambino e il tema del dolore del bambino. Per motivi di spazio mi limiterò alla comunicazione verbale. Sfortunatamente in molti casi la comunicazione dell’adulto con il bambino è inadeguata non soltanto quando le tematiche da affrontare con il bambino sono collegate alla sofferenza, ma anche quando sono collegate ad altri ambiti della realtà di livelli più o meno complessi. I messaggi dell’adulto al bambino sono spesso, a seconda dei casi e in gradi diversi, confusi, fuorvianti, egocentrici, falsi. Frequentemente quello che il bambino dice non è preso nella dovuta considerazione, non è analizzato e capito. L’adulto non è sufficientemente empatico e il suo linguaggio è spesso metaforico, approssimativo, poco logico, poco coerente, poco comprensibile. È come se l’adulto non fosse in grado di riconoscere le capacità razionali del bambino o non volesse riconoscerle. Gli esempi che si potrebbero fare sono innumerevoli. Per restare nel campo della sfera cognitiva e non toccare le connotazioni ansiogene di alcuni messaggi del tutto mistificatori (del tipo “Se sei cattivo ti mando in collegio”) basterà citare l’esempio dell’educazione religiosa.

“Ma è peccato, è peccato”

Spesso le religioni si basano su principi filosofici astratti, su dogmi, su concetti per loro stessa definizione non dimostrabili empiricamente. Il bambino, che sviluppa la sua capacità di ragionare partendo dai dati concreti dell’esperienza (in questo modo cerchiamo di insegnargli la matematica, le scienze, la storia, e così via), si trova più o meno irretito in una trama di idee e di immagini complesse, talvolta contraddittorie (l’aldilà, dio, il diavolo, gli angeli, l’inferno, l’anima, il peccato) che non riesce ad elaborare e ad assimilare liberamente e autonomamente ma che invece gli vengono presentate come realtà precostituite, scontate. Quindi i bisogni del bambino di chiarezza, di concretezza e di conoscenza vengono verosimilmente frustrati. È chiaro che l’atteggiamento degli adulti in questo campo può essere definito autoritario e violento, anche se per tradizione non è in genere considerato tale.
Una madre araba, che abita con la famiglia in Italia e il cui bambino frequenta l’asilo, ha risposto così al figlio, che le chiedeva perché non potesse mangiare il prosciutto a scuola come facevano gli altri bambini: “È cattivo il prosciutto”. “No, non è cattivo, è buono” ha ribadito il bambino. “Ma è peccato, è peccato” ha ribadito a sua volta la madre. Le risposte a questo bambino non sono diverse per il loro messaggio di autoritarismo e di irrazionalità (di cui probabilmente questo genitore, come tanti altri genitori, non si rende conto) da quelle, ad esempio, di un genitore cattolico a proposito di altri principi religiosi.
A chi dovesse obiettare che solo in questo modo è possibile impartire al bambino un’educazione morale, è opportuno ricordare che esiste anche una morale laica, fondata su principi di libertà, di tolleranza, di giustizia e di solidarietà, su principi quindi che ci sembrano utili e giusti per ogni persona. È una morale che può essere spiegata al bambino in termini molto concreti (facendogli osservare, ad esempio, che l’altro bambino piange se lui gli dà i pizzicotti) e sui cui principi si basa una convivenza armoniosa tra gli esseri umani, come pure tra gli esseri umani e gli altri animali e la natura in genere. Sono principi che hanno fondamentalmente lo stesso carattere di essenzialità, di urgenza, di universalità e di necessità, a livello per così dire di sopravvivenza, come quelli che impartiamo appunto al bambino nella realtà quotidiana, in base ai quali, per fare un altro esempio, non bisogna mettere le dita dentro una presa della corrente o arrampicarsi sul davanzale di una finestra.
Tra l’altro il tema dell’educazione religiosa è collegato a quello dei diritti umani e a quello dei diritti del bambino in particolare (cfr. Convenzione sui diritti del fanciullo, 1989; Peens e Louw, 2000a; Peens e Louw, 2000b; Robustelli e Pagani, 1983), al diritto del bambino “di cercarsi una propria verità”, come scrive in una lettera a Camus (1994) il suo vecchio maestro di scuola a proposito dell’insegnamento della religione, al diritto del bambino di conquistare la propria autonomia.
La comunicazione inadeguata dell’adulto con il bambino ha spesso, tra i suoi effetti principali, quello di inibire lo sviluppo della razionalità nel bambino. A sua volta uno scarso sviluppo della razionalità in molti casi produce sofferenza perché in questo modo le capacità di affrontare costruttivamente i problemi della vita, di capire gli altri e la realtà in genere, vengono ridotte. Negli ultimi anni è stato giustamente dato ampio risalto alle capacità di elaborazione fantastica del bambino, collegandole in particolare all’espressione artistica (disegno, pittura, fiabe, musica, ecc.). È importante tuttavia che venga dato altrettanto risalto alle capacità tradizionalmente definite razionali del bambino, alle sue capacità di elaborare ipotesi, di riflettere su se stesso, sugli altri, sulla realtà e quindi anche sul problema del dolore. È importante accompagnarlo in questa sua indagine e aiutarlo nei limiti delle nostre possibilità.
Qualcuno potrebbe obiettare che anche la razionalità produce sofferenza in quanto l’individuo razionale non elabora le sue esperienze con il sostegno offerto da miti, illusioni o fedi. Ho accennato a questo problema precedentemente, commentando una citazione dal romanzo di James.
La scelta o meno della razionalità è collegata al sistema di valori di una società e al sistema di valori di un individuo. In una società in cui i valori dominanti sono quelli della solidarietà è verosimile che la razionalità aiuti gli individui a soffrire di meno. In una società dominata da un modello di vita competitivo è verosimile che, ad un certo livello, diciamo più superficiale, dell’esperienza, gli individui soffrano di meno grazie alla dipendenza da miti, illusioni e fedi. In ogni modo è nel contesto dei suoi valori personali che in ultima analisi si inserisce la scelta di un individuo, una scelta che è possibile operare autonomamente e indipendentemente dai valori dominanti della società in cui è dato vivere. È verosimile tuttavia pensare che l’uso della razionalità, che implica di per sé l’adesione a stili di vita più costruttivi e solidaristici, a lungo termine apporterebbe agli individui un maggior benessere psicologico. La configurazione di questo maggior benessere psicologico è tuttora solo in minima parte delineabile, in quanto a tutt’oggi per quello che possiamo sapere non ci sono mai stati i prerequisiti psicologici e sociali per una sua realizzazione. Sarebbe comunque un benessere collegato al potenziamento delle capacità cognitive ed affettive e alla diminuzione dei sensi di frustrazione, di insicurezza e di solitudine.
Nella ricerca e nell’analisi delle cause della sofferenza in generale e del bambino in particolare la nostra cultura è rimasta fondamentalmente superficiale. Ci si accontenta in genere dell’evento, della concretezza del dato immediato e non si va oltre, non si penetra dentro le motivazioni più profonde degli individui, né si valutano criticamente i possibili effetti di una cultura sugli individui stessi. Si mettono a fuoco, ad esempio, a seconda dei casi, il gesto violento, la percossa, la coltellata, la bocciatura e si ignora la lunga e complessa sequenza degli atteggiamenti degli individui che fanno parte dell’ambiente psicologico del bambino e la vasta gamma dei condizionamenti culturali.

Comunicazione inadeguata

Che cosa fare per aiutare il bambino nel suo rapporto con il dolore? La risposta non potrà mai essere del tutto esauriente. L’adulto stesso non è in grado in molti casi di capire il perché della sofferenza. Ma certamente qualcosa si può fare. Alcuni suggerimenti emergono già dalle considerazioni presentate finora. È necessario comunque e soprattutto reimpostare il rapporto dell’adulto con il bambino. Nel corso della storia questo rapporto è stato in genere caratterizzato dalla più o meno tacita convinzione che il rapporto stesso dovesse essere di tipo gerarchico, basato cioè su una maggiore quantità di potere dell’adulto rispetto al bambino. È importante invece che l’adulto consideri il bambino, pur tenendo conto della diversità delle esperienze e delle competenze, a tutti gli effetti un individuo alla pari, un “compagno di strada”, con cui, nei dovuti limiti e nel rispetto del suo grado di sviluppo cognitivo ed affettivo, si può e si deve condividere la riflessione sulla maggior parte delle esperienze fondamentali della vita. La comunicazione inadeguata dell’adulto con il bambino, a cui facevo riferimento prima, è fondamentalmente legata a questo rapporto gerarchico e quindi distorto. È inoltre necessario che tutti, bambini e adulti, siano in grado di analizzare criticamente le ideologie dominanti e quindi i modelli di pensiero e di comportamento della nostra società, in modo che si rendano conto di quanto questi modelli condizionino la nostra visione del mondo in generale e di quello del bambino in particolare.
Queste riflessioni sul dolore del bambino, in riferimento, in particolare, alla comunicazione adulto-bambino, all’educazione religiosa e ai normali condizionamenti culturali in una società, acquistano, credo, un rilievo ancora maggiore nel momento storico attuale.
Alcuni anni fa un adolescente di 13 anni con un handicap psichico, il cui padre aveva ucciso la moglie, la madre del ragazzo, saputo che mia madre era morta, mi chiese con molta dolcezza dove si trovasse ora mia madre. Gli risposi che non lo sapevo. Presumo che questa risposta, che non forniva alcuna certezza sulla sopravvivenza o meno delle persone morte, gli dava tuttavia la certezza di un nostro legame affettivo e di un rispetto reciproco sulla base di una comune sofferenza e di una comune ricerca di significati in una realtà che non riusciamo a penetrare.

Camilla Pagani

Riferimenti bibliografici

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