rivista anarchica
anno 33 n. 289
aprile 2003


lettere

 

A proposito di De Carlo

Cari compagni,
quello che più mi ha dato fastidio nel n. 284 di “A” è lo spazio dato a Giancarlo De Carlo, col quale in Sicilia abbiamo una polemica aperta. De Carlo si è messo al servizio dei baroni para-fascisti dell’università di Catania per i quali sta costruendo due aule universitarie, distruggendo preesistenze medievali e usando fondi destinati in origine a migliorare la vita di un quartiere degradato e ad alta incidenza mafiosa.
Si sono formati due comitati popolari che hanno bloccato i lavori, e fatto sequestrare, dopo lotte dure, il cantiere. Queste lotte sono tanto più significative in quanto partono dal basso e si scontrano coi poteri forti della città, fra di loro coalizzati. A me non dà fastidio che De Carlo continui a dichiararsi anarchico (ma sarebbe bene chiedergli quanto lo siano i suoi amici e collaboratori), né che parli di progettazione partecipata (sebbene nel suo libro per Elèuthera la contesti a favore della progettazione “tentativa”), ma mi piacerebbe sentirgli anche spiegare in che senso vadano i suoi ultimi progetti, sentirgli fare un minimo di autocritica, spingerlo ad incontrare i suoi contestatori e i gruppi di giovani architetti (che tentano di fare progettazione partecipata) che qui a Catania li appoggiano, vederlo aprirsi alle ragioni del quartiere e non solo a quelle dei suoi committenti. Mi spiace che “A” rivista (e “Sicilia Libertaria” è più volte intervenuta sulla vicenda), si mostri ad esse così acriticamente insensibili. Forse che l’accaparrarsi la collaborazione di un tanto nome fa dimenticare tutto il resto? Mi spiace anche perché qui a Catania e nei nostri ambienti in Sicilia in genere non fate voi e non fate fare a noi, che lavoriamo sul territorio, una bella figura. Come credete che io possa diffondervi la rivista?
Ma mi rendo conto che la lontananza e la poca conoscenza reciproca possano fare brutti scherzi. (…). Ciao

Natale Musarra
(Piano Tavola)

 

La replica di De Carlo

La vertenza catanese alla quale allude il vostro lettore è stata condotta da un Assessore comunale di Forza Italia sostenuto da alcuni interessi consolidati del quartiere Antico Corso e appoggiato energicamente dal giornale “La Sicilia”. A questa coalizione si sono associati il Centro Sociale Esperia – che qualche mese prima si era agitato perché temeva che la sua sede fosse in pericolo (e non lo era) – e un gruppo di Rifondazione Comunista che poi si era dissociato. In verità non mi è parso che gli associati abbiano dovuto sostenere una lotta dura, perché l’Assessore di Forza Italia ha vinto subito facendo fermare il cantiere prima dal Comune e poi dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e inducendo la Magistratura a aprire un’inchiesta giudiziaria.
L’inchiesta della Magistratura si è conclusa qualche mese fa con la constatazione che quello che era stato fatto era del tutto regolare. La Soprintendenza ha compiuto ulteriori scavi oltre quelli che aveva già ordinato prima di approvare il progetto e, al di sotto del livello che sarebbe stato raggiunto dalle fondazioni, ha portato alla luce alcuni reperti che già ci si proponeva di recuperare e mettere in valore. Quanto al Comune, è successo che il Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) ha decretato che il suo ordine di sospensione dei lavori era stato arbitrario e lo ha condannato a pagare i danni che ne sono derivati. I quali danni sono assai elevati, non solo perché il già costruito si è deteriorato, le attrezzature di cantiere sono rimaste ferme per mesi, molti operai sono stati messi in cassa integrazione, ecc. ecc., ma soprattutto perché è andato perduto il contributo europeo (Urban) di 4,5 miliardi di vecchie lire col quale, nel nuovo corpo di fabbrica, sarebbe stato apprestato anche un Consultorio sanitario da cedere al Quartiere.
Il progetto del nuovo edificio – due grandi aule, varie aule minori e un insieme di servizi – l’ho fatto io, con la certezza che si tratta di un’opera di fondamentale necessità per le persone – studenti, docenti, impiegati – che attualmente lavorano nella sede della Facoltà di Giurisprudenza a Villa Cerami in condizioni insostenibili: in uno stato di affollamento intollerabile, con servizi insufficienti, senza aule, senza biblioteche adeguate, distribuendo le lezioni alla meglio tra cinematografi, magazzini, depositi, appartamenti, ecc., presi in affitto a prezzi esorbitanti dai detentori di quegli interessi consolidati per i quali la situazione del Quartiere va bene così com’è e non deve cambiare.
Il progetto coinvolge una chiesa sconsacrata con i suoi annessi e si sviluppa su uno stretto pendio, scosceso e derelitto. Quel pendio nel ’700 era stato costruito sul perimetro lungo le vie Purità e Bambino, ma tutto era stato distrutto da un bombardamento della Seconda Guerra mondiale. Il Piano Regolatore del 1963 pare intendesse destinare l’area a verde privato ma poi il Comune aveva riconosciuto che si trattava di una indicazione improbabile (privato di chi?) e aveva pensato a alcune alternative. Una di queste, proposta da un gruppo di valenti tecnici comunali, era interessante ma non era stata neanche presa in considerazione e la decisione, approvata regolarmente dalla pubblica amministrazione, era stata che su quell’area si potesse costruire lo stesso volume che c’era prima che venisse bombardata.
A questo punto è arrivato il mio progetto, prima di massima per concorrere al finanziamento europeo (Urban) e poi, quando questo è stato accordato, esecutivo per ottenere le approvazioni – tutte puntualmente ottenute – del Comune, della Soprintendenza, del Genio Civile, del Provveditorato Regionale alle Opere Pubbliche, dei Vigili del Fuoco, dell’Unità Sanitaria, ecc. ecc.
È ben noto – credo lo sappiano tutti, fuorché a quanto pare il vostro lettore – che io non mi sono mai messo “al servizio” di qualcuno, che ho sempre selezionato le occasioni di lavoro che mi si sono presentate, che mi sono dedicato solo a progetti che non potevano avere effetti sopraffattori. Ho accettato di progettare e dirigere la costruzione della nuova sede della Facoltà di Giurisprudenza di Catania perché so che migliorerà le condizioni degli utenti cui è destinata, e perché sono convinto che contribuirà a promuovere il risanamento del quartiere Antico Corso infondendogli nuova energia e dimostrando con la sua presenza architettonica qualificata che non si debbono compiere in quel quartiere gli scempi architettonici che negli ultimi anni vi sono stati compiuti, fin sul filo della via Purità, senza né incontrare ostacoli né suscitare proteste.
L’attacco condotto dall’Assessore di Forza Italia e dai suoi consociati è stato violento e anche impudente perché puntava sulla disinformazione: per settimane sono usciti ogni giorno sul più importante giornale catanese lunghi articoli che diffamavano l’operazione, il progetto e il suo autore. Non sono mai intervenuto perché evito il più possibile di mescolarmi con la volgarità e la malafede, ma anche perché avevo il sospetto – lo conservo ancora – che la nuova sede universitaria fosse un falso bersaglio e che, come capita qualche volta in Sicilia, il vero obiettivo, misterioso e indicibile, fosse altrove.
Se i giovani architetti che si occupano di progettazione partecipata mi avessero chiesto spiegazioni, probabilmente le avrei date; ma nessuno si è fatto avanti, né i giovani architetti né il vostro lettore. Al quale vorrei suggerire di leggere l’Autobiografia di Pëtr Kropotkin dove l’autore, riferendosi alle avventurose circostanze della sua vita continua a ripetere che nelle attività che praticano gli anarchici debbono essere sempre più competenti di chiunque altro e quando parlano di un argomento debbono conoscerlo a fondo, altrimenti è meglio che tacciano e si mettano a studiare. Quando avrà letto le argomentazioni di Kropotkin sono certo che il vostro lettore se ne persuaderà e eviterà di fare pasticci come quello di accusare la progettazione tentativa di essere un surrogato ingannevole della progettazione partecipata. D’altra parte, se rileggerà con calma il libro-intervista pubblicato da Elèuthera, capirà ancora meglio che si tratta di due momenti complementari e quindi tutt’altro che in opposizione. Inoltre potrà perfino arrivare a capire, con la sua testa e non per sentito dire, in quale senso i miei più recenti progetti siano andati. La vertenza catanese alla quale allude il vostro lettore è stata condotta da un Assessore comunale di Forza Italia sostenuto da alcuni interessi consolidati del quartiere Antico Corso e appoggiato energicamente dal giornale “La Sicilia”. A questa coalizione si sono associati il Centro Sociale Esperia – che qualche mese prima si era agitato perché temeva che la sua sede fosse in pericolo (e non lo era) – e un gruppo di Rifondazione Comunista che poi si era dissociato. In verità non mi è parso che gli associati abbiano dovuto sostenere una lotta dura, perché l’Assessore di Forza Italia ha vinto subito facendo fermare il cantiere prima dal Comune e poi dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e inducendo la Magistratura a aprire un’inchiesta giudiziaria.
L’inchiesta della Magistratura si è conclusa qualche mese fa con la constatazione che quello che era stato fatto era del tutto regolare. La Soprintendenza ha compiuto ulteriori scavi oltre quelli che aveva già ordinato prima di approvare il progetto e, al di sotto del livello che sarebbe stato raggiunto dalle fondazioni, ha portato alla luce alcuni reperti che già ci si proponeva di recuperare e mettere in valore. Quanto al Comune, è successo che il Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) ha decretato che il suo ordine di sospensione dei lavori era stato arbitrario e lo ha condannato a pagare i danni che ne sono derivati. I quali danni sono assai elevati, non solo perché il già costruito si è deteriorato, le attrezzature di cantiere sono rimaste ferme per mesi, molti operai sono stati messi in cassa integrazione, ecc. ecc., ma soprattutto perché è andato perduto il contributo europeo (Urban) di 4,5 miliardi di vecchie lire col quale, nel nuovo corpo di fabbrica, sarebbe stato apprestato anche un Consultorio sanitario da cedere al Quartiere.
Il progetto del nuovo edificio – due grandi aule, varie aule minori e un insieme di servizi – l’ho fatto io, con la certezza che si tratta di un’opera di fondamentale necessità per le persone – studenti, docenti, impiegati – che attualmente lavorano nella sede della Facoltà di Giurisprudenza a Villa Cerami in condizioni insostenibili: in uno stato di affollamento intollerabile, con servizi insufficienti, senza aule, senza biblioteche adeguate, distribuendo le lezioni alla meglio tra cinematografi, magazzini, depositi, appartamenti, ecc., presi in affitto a prezzi esorbitanti dai detentori di quegli interessi consolidati per i quali la situazione del Quartiere va bene così com’è e non deve cambiare.
Il progetto coinvolge una chiesa sconsacrata con i suoi annessi e si sviluppa su uno stretto pendio, scosceso e derelitto. Quel pendio nel ’700 era stato costruito sul perimetro lungo le vie Purità e Bambino, ma tutto era stato distrutto da un bombardamento della Seconda Guerra mondiale. Il Piano Regolatore del 1963 pare intendesse destinare l’area a verde privato ma poi il Comune aveva riconosciuto che si trattava di una indicazione improbabile (privato di chi?) e aveva pensato a alcune alternative. Una di queste, proposta da un gruppo di valenti tecnici comunali, era interessante ma non era stata neanche presa in considerazione e la decisione, approvata regolarmente dalla pubblica amministrazione, era stata che su quell’area si potesse costruire lo stesso volume che c’era prima che venisse bombardata.
A questo punto è arrivato il mio progetto, prima di massima per concorrere al finanziamento europeo (Urban) e poi, quando questo è stato accordato, esecutivo per ottenere le approvazioni – tutte puntualmente ottenute – del Comune, della Soprintendenza, del Genio Civile, del Provveditorato Regionale alle Opere Pubbliche, dei Vigili del Fuoco, dell’Unità Sanitaria, ecc. ecc.
È ben noto – credo lo sappiano tutti, fuorché a quanto pare il vostro lettore – che io non mi sono mai messo “al servizio” di qualcuno, che ho sempre selezionato le occasioni di lavoro che mi si sono presentate, che mi sono dedicato solo a progetti che non potevano avere effetti sopraffattori. Ho accettato di progettare e dirigere la costruzione della nuova sede della Facoltà di Giurisprudenza di Catania perché so che migliorerà le condizioni degli utenti cui è destinata, e perché sono convinto che contribuirà a promuovere il risanamento del quartiere Antico Corso infondendogli nuova energia e dimostrando con la sua presenza architettonica qualificata che non si debbono compiere in quel quartiere gli scempi architettonici che negli ultimi anni vi sono stati compiuti, fin sul filo della via Purità, senza né incontrare ostacoli né suscitare proteste.
L’attacco condotto dall’Assessore di Forza Italia e dai suoi consociati è stato violento e anche impudente perché puntava sulla disinformazione: per settimane sono usciti ogni giorno sul più importante giornale catanese lunghi articoli che diffamavano l’operazione, il progetto e il suo autore. Non sono mai intervenuto perché evito il più possibile di mescolarmi con la volgarità e la malafede, ma anche perché avevo il sospetto – lo conservo ancora – che la nuova sede universitaria fosse un falso bersaglio e che, come capita qualche volta in Sicilia, il vero obiettivo, misterioso e indicibile, fosse altrove.
Se i giovani architetti che si occupano di progettazione partecipata mi avessero chiesto spiegazioni, probabilmente le avrei date; ma nessuno si è fatto avanti, né i giovani architetti né il vostro lettore. Al quale vorrei suggerire di leggere l’Autobiografia di Pëtr Kropotkin dove l’autore, riferendosi alle avventurose circostanze della sua vita continua a ripetere che nelle attività che praticano gli anarchici debbono essere sempre più competenti di chiunque altro e quando parlano di un argomento debbono conoscerlo a fondo, altrimenti è meglio che tacciano e si mettano a studiare. Quando avrà letto le argomentazioni di Kropotkin sono certo che il vostro lettore se ne persuaderà e eviterà di fare pasticci come quello di accusare la progettazione tentativa di essere un surrogato ingannevole della progettazione partecipata. D’altra parte, se rileggerà con calma il libro-intervista pubblicato da Elèuthera, capirà ancora meglio che si tratta di due momenti complementari e quindi tutt’altro che in opposizione. Inoltre potrà perfino arrivare a capire, con la sua testa e non per sentito dire, in quale senso i miei più recenti progetti siano andati.

Giancarlo De Carlo
(Milano)

 

Le donne afghane non vestono Benetton

Lettera aperta alla stampa

Abbiamo visto sulle vostre pagine le splendide foto di bambine e ragazze afghane, ritratte dalla Benetton a pubblicizzare il nuovo corso della politica afghana rispetto alle donne. Le immagini hanno un forte impatto emotivo, l’accostamento burqa-volto scoperto e/o le didascalie non lasciano dubbi: oggi le ragazze sarebbero libere di trovare un lavoro, di andare a scuola, di rientrare dall’esilio.
Noi e voi sappiamo che non è così.
Certamente conoscete quanto noi gli ultimi rapporti di Human Rights Watch, che potete consultare comodamente sul loro sito www.hrw.org, o persino tradotti in parte in italiano sui nostri siti (www.wforw.it; www.ecn.org/reds/donne/donne.html), visto che la stampa si guarda bene dal pubblicarli. Potete rivolgervi ad Amnesty International, o anche ai vostri stessi corrispondenti che sono certamente ben informati.
Perché allora ospitare sulle vostre pagine una campagna pubblicitaria che nega e nasconde quello che è oggi più che mai necessario denunciare con forza?
La “liberazione” delle donne è stato uno dei principali falsi obiettivi dei bombardamenti americani in Afghanistan. Le donne afghane, attraverso le loro organizzazioni quali tra le altre RAWA ed HAWCA, si sono opposte strenuamente a questo massacro e sono state ignorate. Hanno denunciato senza ambiguità che i nuovi padroni dell’Afghanistan, i signori della guerra insediati dal governo americano e mai liberamente eletti dalla popolazione, sono dei criminali.
Essi hanno provocato centinaia di migliaia di morti negli ultimi trenta anni, hanno devastato, torturato e calpestato i diritti e la dignità umana delle donne quando erano al governo prima dei talebani.
Contro di loro RAWA chiede da anni un processo internazionale per crimini contro l’umanità e l’accurata documentazione per realizzarlo è già pronta e disponibile da anni. Peccato che non si trovi né un giornale né una forza politica, neppure qui in Italia, disposto a sporcarsi le mani con questa storia poco edificante.
In tutte le province dell’Afghanistan le scuole riaperte a beneficio dei riflettori occidentali vengono assalite da bande di fondamentalisti e non sono poche quelle che sono state costrette a chiudere di nuovo.
Dobbiamo ricordarvelo noi che la sharia è in vigore ovunque, le carceri sono piene di donne che fuggono alla violenza domestica, i suicidi per sfuggire ai matrimoni forzati non diminuiscono, in molte regioni è nuovamente proibito alle donne circolare senza un parente stretto maschio? Le donne vengono arrestate e sottoposte a visite ginecologiche forzate, non riescono a raggiungere scuole, posti di lavoro, università a causa delle restrizioni rigidissime sulla libertà di movimento. Forse non è evidente a chi gira solo per Kabul, ma chi mette un piede fuori dalla capitale entra in un territorio fuori da ogni controllo.
Sta per arrivare l’8 marzo e qui in Italia ci saranno compagne a sostegno di RAWA. Per favore, evitate di pubblicare, magari accanto a un articolo corretto e ben informato come certo siete in grado di fare, qualche bella foto pubblicitaria capace di spazzare via, con un’occhiata, fiumi di inchiostro.

Coordinamento italiano a sostegno di RAWA
www.ecn.org/reds/donne/coordinamentoRAWA.html

 

Sul palco con Gaber

Ho letto, sul numero 287 (febbraio 2003) della rivista, a proposito di Giorgio Gaber, il ricordo della serata tenutasi al Teatro Uomo di Milano il 10 ottobre del 1975. Quella sera io ero sul palcoscenico, appena undicenne, ad accompagnare con la chitarra mia madre Paola Nicolazzi che cantava canzoni popolari anarchiche.
Il programma della serata prevedeva che dopo di noi si sarebbe esibito Francesco De Gregori. Mentre ci accingevamo a cedere il palco a Francesco, dal pubblico sono arrivate a gran voce le richieste per “Addio a Lugano”. De Gregori, sollecitato da mia madre, si è unito a noi e quindi, sorpresa inattesa, un signore col naso un po’ grosso, che io allora non conoscevo, si è alzato dalla platea per aggiungersi al gruppo.
È un episodio che, nonostante siano passati così tanti anni, ricordo ancora vividamente. Del resto non è cosa di tutti i giorni, per un aspirante chitarrista di undici anni, avere l’opportunità di suonare un “Addio a Lugano” cantata a tre voci da Paola Nicolazzi, Francesco De Gregori e “Il signor G”.

Roberto Ruberti
(Carrara)

Milano, 10 ottobre 1975, Paola Nicolazzi e il figlio Roberto

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Gigi Melchiori (Fontane) 40,00; Franco Pasello (Sesto San Giovanni) “auguri a Janus, che il 26 aprile compie 4 anni: sarà ben difficile anzi impossibile che io possa dimenticarti”, 50,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla, 500,00; Luigi Luzzati (Genova) 20,00; Antonio Cecchi (Pisa) 5,00; Enzo Francia (Imola) 20,00; Rocco Tannoia (Settimo Milanese) 5,00; Cariddi Di Domenico (Livorno) 30,00; Lorenzo Guadagnucci (Dozza) 20,00; Marco Buraschi (Roma) 50,00; Flavio Paltenghi (Pregassona – Svizzera) 5,00; Rino Quartieri (Zorlesco) 21,00; Gianpiero Bottinelli (Massagno – Svizzera) 20,00; Daniele Rotella (Messina) 2,00; a/m Paolo Finzi, raccolte durante l’iniziativa De André presso la Biblioteca comunale di Marcon (Venezia) il 16 febbraio u.s., 198,66.
Totale euro 986,66.

Abbonamenti sostenitori.
Gianluca Botteghi (Rimini) 100,00.
Totale euro 100,00.