“Sicilianità” e anarchia
“Sicilianità” e tensioni libertarie nella
letteratura contemporanea: è la visuale sottesa, chiave
interpretativa originale e poco frequentata, propostaci dall’autore
Antonio Catalfamo nel suo Scrittori, umanisti e “cavalieri
erranti” di Sicilia. Saggi e polemiche tra letteratura
e attualità, Ragusa, Sicilia Punto L edizioni, 2001,
pagg. 248, e 7,75. Si tratta, prima di tutto, di un percorso
in profondità volto a rivelare il fecondo humus di sensibilità
sociale e umanistica esistente sotto il guscio duro degli archetipi.
Catalfamo, poeta e saggista che ha ricevuto innumerevoli riconoscimenti
per la sua attività, collaboratore di pagine culturali
di vari quotidiani, si dimostra studioso acuto e ‘scopritore’
dei più impensati intrecci tra anarchia e culture antropologiche
della società siciliana, tra letteratura scapigliata,
pensiero radicale e ribellione sociale. Lungi dal qualificarsi
come una sorta di miscellanea e varia umanità, la ricerca
ci conduce in un appassionante viaggio che alterna la visione
di ambienti noti, visti però sotto diversa luce, alla
rivisitazione di miti coltivati a lungo nell’immaginario
popolare e sovversivo, di luoghi e protagonisti ‘minori’
e sconosciuti alla vulgata. Dall’umanesimo integrale di
un illuminista estremo come Nino Pino, premio Viareggio 1956
per la poesia dialettale e cantore dell’Alba di Maggio,
al surrealismo libertario di Beniamino Joppolo, dal futurismo
in versione ‘meridionale’ di Giovanni Antonio Di Giacomo
(alias Vann’Antò, rigorosamente biografato nel Dizionario
Vallecchi) alla poesia ‘anarchica’ del giovane Concetto
Marchesi a quella eversiva di Santo Calì, da Leonardo
Sciascia, vera icona e ‘sentinella’ contro il potere,
al siciliano di adozione Danilo Dolci: la mappa degli umori
libertari si fa trama e ordito. Per Dolci, implacabile accusatore
delle collusioni democristiane con il sistema malavitoso, valgano
le referenze del cardinale Ernesto Ruffini pronunciate in una
sferzante omelia pasquale negli anni sessanta: “La mafia,
il Gattopardo, Danilo Dolci sono le cause che maggiormente hanno
contribuito a disonorare la Sicilia”. Ma qui, precisa
Catalfamo, si intende ‘mafia’ non in quanto tale (che
per la cultura del potere non esiste) ma in quanto produttrice
di antimafia, quella sì fonte incommensurabile di ‘disonore’!!
Anche il tema identitario e la perdita tragica del retroterra
culturale sono fortemente rappresentati. Ad esempio per Nino
Pino il dialetto, con tutta la sua ricchezza espressiva e lessicale,
costituisce una possibile linea di resistenza. E fra i protagonisti
delle sue analisi non poteva mancare il contadino sradicato
negli anni dell’industrializzazione e delle grandi ondate
migratorie. “I carabinieri” di Joppolo, nella
cruda e realistica interpretazione tramandataci dal film di
Jean Luc Godard, ci forniscono poi una chiave di lettura ‘libertaria’
assolutamente condivisibile. Il potere è comunque potere.
E l’uomo guerriero è per forza uomo in disarmonia
con i propri simili. Per questo, in realtà, i carabinieri
non sono solo carabinieri, ma individui che indossano un miscuglio
fantasioso di divise. Ma il tema dell’antimilitarismo ricorre
anche nella ‘Cartullina’ del futurista Vann’Antò,
una rievocazione della mitica rivolta di Ragusa del 6 gennaio
1945, contro la chiamata alle armi di Badoglio, da cui emerge
la bella figura di Maria Occhipinti. Sicilia popolare e Sicilia
‘scapigliata’ scorrono davanti agli occhi del lettore
in un’avvincente narrazione novecentesca. Scopriamo un
Paolo Schicchi, uomo d’azione e di rivoluzioni, che nel
suo componimento “Gli uccelli” invita i passerotti
a bere il vino per darsi forza e per vincere le cornacchie allevate
dagli sbirri che “gracchian come cialtroni in parlamento”.
Il libro è anche un atto di accusa verso la sinistra
‘salottiera’, autoreferenziata e collusa, insomma
quella dei cenacoli e della accademie, quella -aggiungiamo noi,
più prosaicamente- degli assessorati e delle clientele.
“L’intellettuale italiano, piccolo borghese per
estrazione sociale e mentalità, si è chiuso narcisisticamente
in una torre d’avorio, inventando una propria aristocrazia.
Si è rigirato per secoli nel letto, come il malato dantesco,
credendo che bastasse rivoltarsi da un lato o dall’altro
per guarire. L’avanguardismo novecentesco, che ha avuto
vasta eco in Sicilia, è un esempio vistoso di questo
inutile rigirarsi senza posa. La letteratura libertaria ha messo
in crisi il narcisismo culturale, ha messo l’intellettuale
di fronte ai reali problemi ed alle proprie responsabilità.
Per questo è stata tenuta sotto moggio...”.
Di particolare pregio ci paiono le pagine dedicate alla scrittura
femminile (“Essere donna in Sicilia”) sulle
popolane Occhipinti e Rosa Balistreri, sulla borghese illuminata
Simona Mafai. Nella parte conclusiva si parla di cultura popolare
e poesia ‘operaia’, di artisti di strada, cantastorie
e “poeti barboni”. Esemplare la storia di Ciccio Busacca,
già caruso nelle miniere, vero innovatore che introduce
nelle sue narrazioni le tematiche politiche e sociali. Alla
fine dei suoi spettacoli itineranti “si rifiutava di passare
con il piattino a chiedere le offerte”. Quando canta della
morte del sindacalista Turiddu Carnevale, ad un congresso di
cultura popolare nel 1955, Carlo Levi sale sul palco e lo abbraccia
con grande commozione.
Giorgio Sacchetti
I rumori della Storia
Come già sapevano i sociologi e gli antropologi, anche
gli storici si stanno accorgendo d’avere occhi non solo
per leggere documenti, ma per vedere foto, immagini dei cinegiornali,
manifesti murali, e orecchie per sentire i «rumori della
storia»: musiche, slogan, discorsi registrati, assemblee
chiassose e agitate, cortei scandenti slogan, canzoni, canzonette.
È noto, infatti, che manifesti murali e canzoni sono
parti importanti della ricostruzione del contesto storico che
non sempre, però, ricevono il dovuto riconoscimento come
fonti. Capita che il noto, proprio perché noto, non sia
veramente conosciuto. Conoscere un fenomeno non vuol dire essere
vagamente informato della sua esistenza, vuol dire carpirne
la sua importanza inserendolo, assieme ad altri fattori, nel
contesto esplicativo. In questo senso sia il manifesto sia la
canzone leggera, che sono i temi trattati nei due libri segnalati
in questo articolo, stentano a trovare, tra gli storici, la
dignità di fonte e, quando anch’essa è riconosciuta,
un uso adeguato, appropriato, contestualizzato.
Capita che il manifesto murale sia usato nei libri di storia
o per farne una copertina accattivante, oppure – se l’editore
ha soldi da spendere – inserito assieme a fotografie nelle
pagine del testo con una piccola didascalia sottostante. Si
tratta, comunque di un uso indiretto, che stenta ad essere inserito
e letto, come le altre fonti scritte e documentarie, organicamente
dentro la narrazione storica. Un po’ meglio le cose vanno
per i manuali di storia delle superiori, dove però foto
e immagini iconografiche sono spesso vissute come specchietti
per le allodole per studenti non troppo invogliati alla storia,
messe lì per spezzare la seriosità del procedere
della narrazione.
Comunque, al manifesto è riconosciuta una dignità
e un’autorevolezza che la canzonetta non ha ancora acquisito,
in quanto è stato utilizzato fin dall’inizio come
strumento di lotta politica e ha conquistato nei decenni successivi
alla rivoluzione francese il ruolo definitivo di strumento di
denuncia e d’agitazione attraverso una gamma di soggetti
che variano dalla critica politica alla satira. Esso è
diventato parte dell’universo di simboli e miti che hanno
accompagnato e autorappresentato la storia del movimento operaio
e anarchico. Il titolo del catalogo dei manifesti del circolo
culturale di Carrara – Gli anarchici non archiviano.
Catalogo dei manifesti del circolo culturale anarchico di Carrara,
a cura di Massimiliano Giorgi, Comune di Carrara, Associazione
Archivio Germinal, Cooperative dei cavatori di Gioia, Lorano,
Canalgrande, Carrara, 2002 – tratto da un manifesto del
1987, sta a significare che la funzione di una documentazione
è d’essere utilizzata al fine di non archiviare
la storia, ma di raccontarla e narrarla con la maggior quantità
di fonti possibili. La sua pubblicazione rappresenta la conclusione
della prima parte dell’intervento di trattamento della
documentazione, che comprende materiale bibliografico e archivistico,
raccolto e conservato presso la Biblioteca del Germinal.
Il fondo di circa 700 manifesti è merito del lavoro svolto
con costanza, meticolosità e passione da Goliardo Fiaschi,
nato a Carrara il 21 agosto del 1930 e già, a quindici
anni, nell’aprile del 1945 assieme ai partigiani che sfilano
per le strade di Modena. Nel 1957 giunge a Barcellona e progetta
un attentato contro il caudillo Franco. Arrestato e incarcerato
fino al 1965, è estradato in Italia dove subisce un’ulteriore
detenzione fino al 1974. Libero, ritorna a Carrara e comincia
il lavoro d’archiviazione e catalogazione che dura fino
al 2000, anno della sua morte. I manifesti coprono il periodo
dalla meta degli anni ’70 al 2000. Trattano dei principali
temi della propaganda anarchica: antimilitarismo, antielettoralismo,
anticlericalismo, denuncia della repressione statale, resistenza,
antifascismo, ma anche tematiche internazionali: dittature sudamericane,
sovietiche, transizione democratica in Spagna, sciopero minatori
inglesi contro la Thatcher, la lotta di Solidarnosc in Polonia,
la guerra nel Golfo. E poi manifesti locali del 1° maggio,
funebri per compagni scomparsi, celebrazione di compagni e personaggi
storici, ecc.
Come scrive Franco Bertolucci nella prefazione al catalogo,
attualmente sono poche a livello nazionale le strutture che
possono vantare la conservazione e, soprattutto, la catalogazione
e la fruizione di collezioni di manifesti; tuttavia esistono
alcune interessanti raccolte specialistiche presso biblioteche,
archivi o centri appartenenti a partiti politici, organizzazioni
sindacali, comuni. Merita in tale contesto segnalare l’iniziativa
dell’istituto Gramsci di Bologna che ha costruito un archivio
multimediale dei manifesti politici che conserva realizzando
la prima banca dati on line iconografica italiana sul manifesto
politico e sociale del ventesimo secolo. È possibile
consultare in rete il catalogo dei manifesti, circa 500, all’indirizzo
del sito web www.manifestipolitici.it.
In questo contesto la catalogazione del Germinal e la pubblicazione
dell’inventario dei manifesti assume un’importanza
rilevante per gli studiosi.
Meno fortunata delle immagini iconografiche e dei manifesti,
la canzone leggera è stata considerata palude della superficialità
e della banalità. Neanche l’interesse per l’uso
pubblico della storia, che ha animato la comunità degli
storici e non, ha contribuito a sdoganare la canzone e la musica
come produttrice di senso comune storico, a differenza della
televisione, della carta stampata, del cinema che sono stati
oggetto d’analisi in quanto veicoli della comunicazione
storica. Eppure, come sottolineano i dati Istat, citati da Stefano
Pivato nell’introduzione al suo libro: La storia leggera.
L’uso pubblico della storia nella canzone italiana,
Bologna, Il Mulino, 2002, pagg. 246, euro 14,00, la musica ha
per i giovani una potente funzione per ciò che riguarda
la formazione dell’identità culturale a livello
individuale e collettivo. E allo storico non può sfuggire
come la musica e le canzoni possano diventare «produttrici
di senso comune», soprattutto a cominciare dalla metà
del Novecento, quando si verifica un manifesto conflitto generazionale,
una separazione tra mondo degli adulti e dei giovani e la musica
diviene uno dei linguaggi che meglio interpreta la distanza
e in certi casi la separatezza fra la generazione adulta e quella
della baby boom generation. Inoltre, prosegue l’autore,
per un giovane degli anni Settanta la storia contemporanea costituiva
un retroterra primario (quindi indispensabile) della formazione
e dell’identità politica, civile e ideale in senso
lato. Oggi invece si vive in tempi in cui allo storico è
richiesto più di raccontare che d’interpretare e
nella narrazione egli si sente sovente scavalcato dal giornalista,
dall’opinionista. Si ha una perdita d’identità
e crisi dello storico, mutazione dei linguaggi e dei canali
di comunicazione della storia. C’è da chiedersi,
allora, se anche la musica, assieme alla televisione e ai giornali
popolari, «venga ad assolvere nei confronti della storia
una funzione di surroga a fronte di quello che ormai viene definito
il tramonto della storia o, perlomeno, l’affievolita importanza
dei canali tradizionali del sapere storico». Sorge a questo
punto un interrogativo che Pivato propone con la forza della
provocazione. Sarebbe il caso di domandarsi, scrive, se nell’ambito
della comunicazione di massa e dei linguaggi giovanili hanno
fatto opinione storica e civile «Renzo De Felice, Ernesto
Ragionieri, Paolo Spriano, Rosario Romeo e tutta la generazione
degli storici negli anni Sessanta e Settanta, oppure Jovanotti,
Manu Chao, Francesco De Gregori e Paolo Conte?».
Scopo del libro non è trattare la storia della canzone,
ma la storia della società italiana fatta utilizzando
le canzoni e la musica come documenti e come fonti per la conoscenza
storica, indagando come la canzone popolare «ha letto,
tratto ispirazione o citato la storia del Novecento».
La ricerca inizia con un prologo dedicato ad uno dei primi esempi
di uso pubblico della storia nella canzone, dato dall’inno
nazionale Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli,
risalente al 1847; prosegue trattando del «prima della
canzonetta», cioè del Risorgimento, (il melodramma
come una delle prime e più palesi forme di uso pubblico
della storia), dell’innodia politica e sociale di fine
Ottocento inizio Novecento e dell’uso pubblico della storia
fatta dal regime fascista, esemplificato da Faccetta nera.
Segue la trattazione della canzonetta e della canzone d’autore
tra San Remo e Brassens, i grandi temi sociali dell’Otto-Novecento:
emigrazione, Guerre Mondiali, Resistenza, il boom economico,
il mito e l’antimito americano, il comunismo, il sessantotto,
il beat, il rock, il riflusso degli anni Ottanta, i gruppi rap
degli anni Novanta, fino al recupero musicale della memoria
della destra con canzoni che richiamano i miti del fascismo
e della mitologia medievale del Nord Europa, per giungere a
lambire quelle che costituiscono le colonne sonore e le identità
formative del nuovo movimento dei movimenti.
Pivato distingue tre gruppi di canzoni: quelle che ricorrono
consapevolmente all’uso pubblico della storia, quelle di
attualità politica che nel tempo si trasformano in documento
storico, la canzone che non contiene riferimenti storici e politici
ma che si presta vuoi per allusività e per caratteristiche
varie, ad essere considerato specchio di un’epoca. Nel
suo lavoro ha privilegiato quei testi i cui versi contengono
riferimenti alla storia del Novecento. Uno dei limiti, che l’autore
riconosce, è quello di proporre i testi e non la musica,
costruendo così un contesto e un rimando parziale perché
incapace di riproporre «le sensazioni e le emozioni che
una canzone restituisce appieno solo quando i versi sono accompagnati
da tutto un complesso corredo, a cominciare da quello più
elementare: la musica».
Lo storico che si accinge a considerare con serietà e
dignità di fonte le canzoni, anche quelle della «cattiva
coscienza», come diceva il titolo di un libro del 1964,
scritto contro le canzonette alla Rita Pavone o Celentano, incontra
almeno due difficoltà: la massa enorme del materiale
da consultare e la problematicità nel reperirlo. Rispetto
a quest’ultima lo stato di conservazione e documentazione
della canzone leggera ci pare molto arretrato. Dove trovare
i testi delle canzoni? Dove recarsi per ascoltarle? Perché
leggere il testo non è sufficiente, indispensabile è
anche sentire la musica che lo accompagna. Il soccorso viene
più da Internet che dalle istituzioni e dagli istituti
di documentazione.
Diego Giachetti
Sotto:
alcuni dei manifesti esposti a Carrara e riprodotti nel bel
catalogo ufficiale "Gli anarchici non archiviano"
(Biblioteca del Germinal - Carrara 2002)
  
  
  
  
  
  
  
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