rivista anarchica
anno 33 n. 291
giugno 2003


educazione

Educare secondo Feyerabend
di Filippo Trasatti

 

Dialogo immaginario tra due persone (A e B) in una serata a Milano, nei pressi della libreria Utopia.

A – Se non fosse che sono così emozionato di incontrarla, e se non fosse un po’ troppo scontato, la inviterei a un simposio.

B – Ne sarei felice, purché fosse inteso davvero al modo antico: discutere e nello stesso tempo allietare tutti i sensi.

Temo che in questa Milano non potrò offrirle niente di simile, se vuole potremmo accontentarci di un’osteria.

Non la disprezzo affatto, andiamo. Ma, mi dica, perché la emoziona tanto incontrarmi?

Beh in un certo senso la considero un maestro e, badi bene, ho lasciato la minuscola per non irritarla.

Se la cosa le fa piacere, non vedo perché dovrei impedirglielo. Purché sappia che io rifiuto in questo senso gli allievi.

Ma se ha insegnato tutta la vita?

Ho cercato di insegnare a non prendermi e a non prendersi troppo sul serio, a emanciparsi dalla condizione di allievi che, glielo ricordo, deriva da allevare; beh io non voglio allevare nessuno, né figli, né tantomeno allievi. Magari un gatto e un cane sì.

Mi fa venire in mente il cane che si morde la coda: lei parla e intanto cerca di convincere chi l’ascolta a non prendere sul serio i suoi discorsi. Ma è davvero possibile? Non si contraddice così?

E lei non si contraddice mai?

Mai intenzionalmente almeno.

Beh sappia almeno quanto è pericolosa questa posizione; per me la base del pensiero, chiamiamolo critico (benché forse sarebbe meglio chiamarlo libero e creativo), è la capacità di vedere il limite delle proprie idee. Quando non lo si vede, bisogna insospettirsi. L’educazione dovrebbe avere fondamentalmente questo compito.

Nient’altro? Non c’è qualcosa di positivo a cui vale la pena di educare? Non ci sono contenuti validi che possano essere la base dell’educazione di un individuo?

Innumerevoli. Certamente ma nessuno in modo cogente e definitivo. Mi spiego meglio. Conoscere può essere una gioia, ma non può diventare una costrizione, in nessun caso. Non c’è un criterio di valore in assoluto che imponga a ogni uomo o donna ciò che è giusto, doveroso, inevitabile conoscere. Ciascuno dovrebbe prendersi la responsabilità di ciò che val la pena di conoscere, senza ricorrere a canoni e tantomeno a esperti che ci dicono che cosa fare della nostra vita.

Ma consideri un bambino, un ragazzo. Un allievo, che so, di 15 anni non conosce ad esempio la ricchezza della nostra tradizione filosofica o musicale. Prende ciò che trova nel contesto in cui vive. Allora non è meglio un criterio, piuttosto che nessun criterio? Non è che questo relativismo ci conduce all’indifferenza, per cui tutto va bene? La Bonarda che sta bevendo non è uguale a un Brunello di Montalcino.

Provo a spiegarlo in un altro modo. Intanto, mi scusi, questo vino è pessimo, ed è lei che mi ha condotto qui. Comunque in primo luogo il relativismo, se non viene assolutizzato, non è una bestia nera come lo si dipinge: è uno degli strumenti per immunizzarsi dagli assoluti. In secondo luogo certamente esistono criteri di scelta, ciascuno di noi li usa continuamente, ma vanno dichiarati sin dal principio e non sottratti al principio della scelta. Può darsi che un quindicenne apprezzi più Eminem dell’Arte della fuga di Bach, ma è precisamente compito mio, mostrargli che il mio criterio di scelta, che non è assoluto, può condurre a scoperte e a un piacere effettivo della conoscenza. Insomma mostro con la mia passione per Bach la strada che ho seguito, i miei criteri di scelta, ma non voglio imporli all’altro. Io penso che la gente debba essere lasciata libera di scegliere la propria strada e di sbagliare, come faccio anch’io continuamente. È la paura dell’errore che conduce al dogmatismo. Invece sbagliare è qualcosa che permette di distinguere esseri umani da automi.

È importante certamente l’idea di associare la passione alla conoscenza, ma secondo lei non si dovrebbe porre nessun criterio rilevante tra le diverse forme di conoscenza, tra i diversi saperi?

Pensi alla scienza, ammesso che esista qualcosa che può essere denominato in tal modo al singolare. Che cosa produce di fatto l’idea che una certa forma di conoscenza sia superiore, in un qualche senso, alle altre?

Dovremmo almeno motivare perché la si considera superiore, ad esempio, perché produce effetti reali.

Vuol dirmi che altre forme di conoscenza non producono effetti reali? Una chiacchierata tra amici, l’ascolto dei Winterreise di Schubert, l’amore per un’altra persona non producono effetti reali?

Certamente sì. Ma penso che il punto sia se esiste una forma di conoscenza che sia intersoggettivamente più valida e che dunque debba essere preferita sotto certi aspetti e dunque anche insegnata.

Se una tale forma esiste, dev’essere deciso collettivamente, ma non dall’alto delle cattedre. Tutto questo ha come conseguenza di sottrarre alle persone il potere reale di decidere e di affidarle nelle mani di esperti che li rendono sempre più dipendenti. Ma queste cose le dice meglio di me il mio amico Chomsky, anche se non concordiamo affatto sull’immagine della scienza.

Dunque lei non proporrebbe mai in nessun caso degli argomenti da studiare, poniamo in una scuola?

Se insiste, le proporrò il programma della mia scuola, e la chiamerò Scuola Scettica Sperimentale. La materia fondamentale sarebbe il teatro.

(A si gratta la testa perplesso).

Vede il teatro è una forma di conoscenza preziosa che ci permette di indossare le idee che esprimiamo, di metterle in discussione (di drammatizzarle), di inserirle in una scena e poi di spogliarcene. Si sa poi che gli attori mettono in dubbio una certa idea di verità e soprattutto hanno il vantaggio di farlo in pubblico. Infine studiando il teatro si impara la capacità di raccontare e il racconto è uno strumento di mediazione tra persone, linguaggi, culture diverse.

(A eccitato da questo programma, con la tentazione di prendere appunti).

L’altra materia fondamentale è la lingua anzi le lingue, il più possibile e in una forma viva. Il plurilinguismo effettivo ci permette di vedere meglio dall’interno altre culture. Tutti dovrebbero crescere plurilingue.

E le grandi opere?

Io credo che le lingue possano diventare, oltre che strumento di pluralismo, uno strumento di comprensione delle grandi opere. Ma ciascuno dev’essere lasciato libero di seguire la propria strada. Bisogna proporre alternative, campi di ricerca, miti, letture, ma come assaggi, un po’ come un sommelier impara a distinguere assaggiando e non ingurgitando. Qui non bisogna distinguere tra le grandi opere della tradizione letteraria e le opere scientifiche. È tutta una questione di traduzione. E badi che tutto questo non ha molto a che vedere con l’interdisciplinarietà.

Capisco. C’è ancora posto per qualcosa nella sua scuola?

Direi che ci sono ancora al massimo tre materie.

(A ormai conquistato). Brucio d’impazienza

Una materia fondamentale è lo humour che insegna a non prendersi troppo sul serio. Un’altra è l’arte che è poi la creatività in tutte le sue forme, dalla scultura alla scienza. E infine la materia forse più importante di tutte.

Mi lasci indovinare: la filosofia?

Certo che no. Io la chiamerei: l’arte di smascherare i maestri. Ma forse poi non è così lontana dalla vera filosofia. Ora basta però, mi conduca altrove a bere qualcosa di meglio.

I due si avviano verso casa di altri amici e continuano a parlare raccontandosi storie, assolutamente private, che non possono essere qui riportate.

Filippo Trasatti