rivista anarchica
anno 33 n. 293
ottobre 2003


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

Posta per vittime

 

Senza che i critici diano la sensazione di essersene accorti, è nato e va rigogliosamente diffondendosi per il mondo un nuovo genere letterario. Per il momento gli editori non vi dedicano ancora antologie, ma è soltanto questione di tempo.
Si tratta dell’arte epistolare, fiorita di botto nei carnefici, per vittime o per parenti dolorosamente rimasti a patire.
Sarà per alchimie difensive o sarà per acquietare l’insopprimibile esigenza della comunicazione, ma fatto è che – sempre più spesso – chi fa una strage, chi stupra e fa scempio del corpo ambito, chi assassina, chi si arroga tutti i diritti della vita altrui, poi, a cose fatte che capo hanno, prende la penna in mano e scrive una bella lettera a vittime, mariti, figli, padri e madri della vittima e a chiunque altro sia in posizione sociale tale da essere utilizzato come pubblico destinatario. Se il reo non ne è uscito vivo, nel compito, lo sostituisce chi gli era vicino – che, in qualche modo, riceve o crede di ricevere su di sé brandelli di responsabilità dell’accaduto.
Il fatto che questa letteratura sia resa pubblica, poi, obbliga ad esercizi ulteriormente impietosi gli sgomenti destinatari: che verranno raggiunti da giornalisti curiosi circa le loro reazioni, pronti a misurarne il borsino dei sentimenti ed a giudicare in nome e per conto di un giudizio formalmente universale. I disposti al perdono, quelli che dicono «passate più tardi. Vedremo…», quelli che dicono «nemmeno per sogno», quelli che stanno zitti davvero – perché consapevoli di quanto poco da dire ci sia – e quelli che stanno zitti perché hanno già venduto l’esclusiva del loro dolore alla concorrenza.
Caso recente, caso di strage – in parte mirata e in parte a casaccio – con suicidio conclusivo. Restano i genitori e qualche vittima sopravvissuta, i primi che sentono il bisogno di scrivere e i secondi che non possono sottrarsi al leggere. Diceva una delle vittime più colpite: tutto bene in questa lettera, capisco il loro dolore, ma, ad un certo punto della lettera, salta fuori la parola «imprevedibile» e, allora, non capisco più.
Il prevedibile è una categoria apparentemente complicata, ma, a ben guardare, più semplice di quel che appaia. L’essere umano si affida al ripetibile, la scienza stessa – che tante garanzie sembra dare allo svolgersi dell’esistenza – sorge dall’applicazione di questo schema. Quel che ha successo una volta, molto probabilmente lo si ripete. Vengono fissati dei rapporti fra i nostri singoli costituiti e, perlopiù, questi rapporti vengono mantenuti a lungo: l’acqua bolle ad una certa temperatura, bolle dopo se c’è il sale, l’acqua spegne il fuoco, il fuoco brucia, e così via connettendo. Più rapporti si istituiscono e più il mondo sembra rimanere sotto il nostro controllo – più eventi risultano prevedibili, per l’appunto. Quando qualcosa va per il verso storto, ovviamente, occorre trovare una spiegazione e, quando la si trova – in termini di nuovi rapporti – al vecchio schema bisogna rinunciare.
Se qualcuno, alla disperata ricerca di lenire dolori propri o altrui, qualifica da sé l’evento fonte dei dolori stessi come «imprevedibile» significa, ahinoi, che, da un lato, sta scaricandosi della sua parte di responsabilità, mentre, dall’altro, ahilui, sa dolersi soltanto a determinate condizioni – come è il dolersi delle conseguenze di un atto che, in quanto tale, è categorizzato come non soggiacente sotto il proprio controllo. È il caso in cui questa letteratura ottiene – giustamente – il risultato contrario di quello che si prefigge. Alla cassa dello strazio non si chiedono sconti.
Più o meno negli stessi giorni, leggo le reazioni varie alle sparate neofasciste sulle leggi razziali del 1938. Il clima culturale sembra favorevole a far fermentare «revisioni» storiche secondo le quali gli ebrei italiani, con leggi simili (che perfino Alleanza Nazionale, oggi, chiama «famigerate») se la sarebbero spassata. Ma, fra i tanti altri, parla lo storico Giorgio Rumi e mette le cose a posto: l’antisemitismo viene da lontano ed è un «virus» che «periodicamente» si ripresenta a destra. Concludendo, tuttavia, nel modo seguente: «Temo che dietro all’odio per Israele, dietro all’anticapitalismo e al rifiuto del cosmopolitismo ci sia ancora antisemitismo. Anche a sinistra». Lasciando a parte le considerazioni sullo strano modo con cui lo storico svolge il proprio mestiere (a parte cosa c’entra il giudizio sulla politica di Israele con l’antisemitismo, a parte cosa c’entri l’anticapitalismo, a parte cosa c’entri l’anticosmopolitismo alias antiglobalizzazione), anche qui, anche in questo genere letterario, non sfuggirà la tecnica retorica usata. Dolore e perdono, d’accordo, ma senza dimenticare i propri interessi.

Felice Accame