rivista anarchica
anno 33 n. 294
novembre 2003


immigrazione & salute

Il camper del Naga
di Paolo Cottino

 

Il Naga è una associazione volontaria operante a Milano nel campo dell’assistenza sanitaria a immigrati e nomadi, anche a quelli sprovvisti di permesso di soggiorno. Se ne occupa, in un libro appena uscito presso Elèuthera, un giovane architetto anarchico, attivo nella Cascina Autogestita Torchiera Senzacqua.

Pensare l’immigrazione significa pensare lo stato, (...) essa costituisce l’occasione privilegiata per rendere palese ciò che é latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di “innocenza” o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o non pensato sociale.
A. Sayad, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul «pensiero di Stato»

(…). Alle 9 in punto dal cancello esce il camper che stavo aspettando, il camper del Naga. Il Naga è una storica associazione di volontariato che opera a Milano nel campo dell’assistenza socio-sanitaria a immigrati e nomadi indistintamente rispetto alla disponibilità o meno da parte loro del permesso di soggiorno (cosa che invece gli ospedali pubblici «per legge» non possono fare). Pur conoscendo da tempo il Naga, fino a poco tempo fa sapevo ben poco del Progetto Medicina di Strada al quale invece, a partire da stasera, ho chiesto di poter partecipare come osservatore esterno.
Il progetto nasce più di un anno fa sulla base delle riflessioni e delle analisi statistiche realizzate da alcuni medici e operatori dell’associazione che hanno rilevato l’esistenza in città di una consistente quota parte di stranieri che non usufruisce dell’ambulatorio del Naga. In particolare si tratta dei gruppi facenti parte della più recente ondata migratoria, delle etnie arrivate a Milano (e in Italia in generale) soltanto da poco e nella maggior parte dei casi per questo ancora sprovviste di relazioni familiari e di comunità cui appoggiarsi; persone ancora in condizione di instabilità per quanto riguarda l’orientamento in città prima ancora che per quanto concerne la sistemazione abitativa, spesso irregolari e quindi nella maggior parte dei casi costrette a condizioni di vita e di lavoro estremamente precarie. Per loro dunque il meccanismo informativo del passa-parola tra connazionali rispetto all’esistenza dell’ambulatorio non riesce ancora a funzionare al meglio: la sfida per i volontari del Naga è diventata allora quella di trovare il modo per non abbandonare a se stesse queste persone.
Una volta costituito all’interno dell’associazione un sottogruppo dedicato ad occuparsi specificamente di questa tipologia di pazienti, è stato avviato un lavoro di mappatura e aggiornamento continuo dello stato di fatto degli insediamenti abusivi sul territorio di Milano (baraccopoli, case occupate, fabbriche dismesse, baracche isolate, ecc.). Soltanto dopo aver raggiunto una quantità soddisfacente di informazioni a riguardo, in parallelo al lavoro di rilevamento degli insediamenti (che comunque prosegue) è stato avviato un programma settimanale di uscite serali con l’obiettivo di portare assistenza sanitaria nei luoghi identificati a mezzo di un camper. Mi sono reso conto fin da subito che seguire gli operatori del Naga in questa attività avrebbe costituito un’occasione forse unica per accedere a questi luoghi, per osservare e tentare di capire qualcosa di questi ambienti tanto sconosciuti quanto costretti dallo stato delle cose a rimanere nascosti; prendere parte alle uscite serali del unità mobile rappresentava per me una irripetibile opportunità per attraversare questi territori, queste forme dell’abitare e al contempo per scambiare qualche parola con i loro abitanti disponendo delle condizioni utili e del tempo necessario per farlo, quello dell’attesa per la visita medica all’esterno del camper.
Il camper, donazione di una fondazione, è stato attrezzato all’interno da parte dei volontari stessi per essere a tutti gli effetti un ambiente funzionale e al contempo caldo e accogliente. Le medicine, le schede degli assistiti e la strumentazione medica necessaria alle visite sono state classificate, ordinate e ripartite un po’ ovunque all’interno di scomparti progettati per tutt’altro uso: nel piccolo frigorifero, nei cassetti della cucina a gas, nell’anta bagno... Ad ogni uscita l’equipe si compone mediamente di cinque volontari, tra i quali due medici e tre assistenti: questi ultimi si alternano con turni regolari nell’ambito di un gruppo che ha precedentemente seguito un apposito corso di formazione, mentre i medici sono gli stessi dell’ambulatorio di viale Bligny che periodicamente garantiscono la loro disponibilità anche serale.

Silenziosamente nascosti nella città bombardata

Il resto dell’equipe attende in piazzale Loreto. La destinazione dell’uscita di stasera è l’ex Magneti Marelli di via Adriano, in fondo a viale Padova, periferia nord-ovest di Milano: «Si tratta di una uscita un po’ particolare» mi spiega Filippo, uno dei due medici, «perché solitamente ci rechiamo all’insediamento anche il giorno prima, di solito la domenica, per presentarci al maggior numero possibile di abitanti e avvertirli così dell’appuntamento della sera dopo. Invece in questo caso, per una serie di disguidi, si tratta in realtà della prima volta che ci andiamo. Abbiamo soltanto appuntamento di fronte al cancello con un abitante dell’insediamento, un ragazzo ucraino, conosciuto in occasione della visita ad un altro insediamento». Durante il viaggio, mentre Filippo è alla guida, l’altro medico si prepara indossando il camice. Nel frattempo gli altri volontari si riferiscono le ultime novità a proposito dell’attività dell’associazione, confermano o annullano le loro disponibilità per le prossime uscite e cercano di individuare sulla mappa di Milano dove si collochi l’insediamento verso cui ci stiamo dirigendo: «Dov’è?», «Come ci arriviamo?», «Noo...fino lì in fondo?», «Ma» – ironicamente uno di loro – «perché sempre così lontano? Perché non occupano mai il Duomo o non fanno un accampamento in piazza Vetra?» (...).
Sono le nove e mezza quando arriviamo in via Adriano. Un gruppetto di tre ragazzi ci aspetta di fronte all’ingresso sigillato della ex Magneti Marelli, l’unica interruzione metallica di un interminabile muro di cinta che, costeggiando tutto il marciapiede destro della via, scompare alla vista con l’esaurirsi sul fondo dell’illuminazione stradale. Uno di loro è Vitale, 26 anni, ucraino, laureato al suo paese e da tre mesi arrivato clandestinamente a Milano alla ricerca di una migliore sorte rispetto a quella avuta finora. Sarà lui la nostra guida all’interno dell’insediamento essendo l’unico dei tre che parla un po’ l’italiano. Nessuno dei tre pare rilassato durante le poche parole che l’equipe, guidata dal medico, cerca di scambiare con loro non appena discesa dal camper: il camper è infatti molto visibile, attira l’attenzione e lo sguardo di chi passa su di loro che, senza permesso di soggiorno, necessitano invece di risultare il più possibile invisibili (soprattutto alla polizia), di non farsi notare e soprattutto di mantenere nascosto il loro rifugio notturno in quel luogo abbandonato. Vorrebbero che le visite avvenissero da un’altra parte, che il camper non sostasse proprio davanti all’ingresso dell’insediamento: tuttavia non c’è altra possibilità perché tutti gli accessi all’interno dello spazio cintato sono sigillati e allontanarsi in gruppo significherebbe comunque aumentare il movimento visibile lungo la strada. L’equipe cerca di tranquillizzarli tentando di spiegar loro che ci sono margini di garanzia sufficienti a far sì che non debbano preoccuparsi: la polizia conosce il Naga, sa che presta questo servizio e con essa ci sono accordi precisi affinché non vi siano interferenze tra le rispettive attività.
Viene detto loro che bisogna informare tutte le persone che vivono lì dentro della momentanea presenza dell’unità mobile del Naga. «Si tratta di un’occasione da sfruttare» – prova a spiegare il dottore a Vitale – «perché i medici non potranno tornare qui di frequente: prossima volta tra due-tre mesi». A giudicare dai loro sguardi sembrano dubbiosi sulla possibilità di soddisfare tale richiesta. Le ragioni di tale perplessità, che inizialmente mi è sembrata francamente inspiegabile se non nei termini delle loro evidenti difficoltà di comprensione della lingua italiana, mi si sono rivelate solo successivamente: Vitale e gli altri abitano nell’immensa ex-Magneti Marelli «soltanto» da due mesi e pertanto non sono in grado di sapere dove si trovino tutte le altre persone che dormono lì... «Va bene, allora andremo insieme a cercarli. Ci accompagnate?» chiede Filippo. Di lì a cinque minuti entriamo.

Pancia a terra

L’ingresso è un buco delle dimensioni di circa un metro quadrato, al livello del suolo, nel portone metallico sigillato: probabilmente è il risultato del lavorio di braccia attente a creare l’apertura minima indispensabile al passaggio sfruttando un foro preesistente nel portone ossidato. Con meno agilità degli «indigeni» strisciamo anche noi pancia a terra per entrare. Di colpo, all’interno, un altro mondo, un’altra realtà, un’altra città. Nel corso della mia vita non ho mai avuto occasione di trovarmi fisicamente nel mezzo di una città distrutta e svuotata per via di un bombardamento, tuttavia ho come l’impressione che l’immagine in cui mi sarei imbattuto non sarebbe stata molto diversa da quella che ora ci trovavamo davanti. Uno spazio immenso, viali alberati e asfaltati separano lotti di edifici e palazzine, hangar e capannoni sventrati e in alcuni casi ridotti a macerie. Buio, pioggia e silenzio; solo il rumore e l’eco dei nostri passi che avanzano lungo il primo viale e che quasi ritmano il movimento dei nostri sguardi alla ricerca senza esito di qualsiasi traccia di spazio abitato.
Vitale, dirigendo lo sguardo verso una palazzina, con due fischi cerca di richiamare l’attenzione di una famiglia di amici che si rifugiano in una stanza di quell’edificio, al terzo piano. Soltanto al secondo tentativo la luce di un accendino si accende dietro ad un pannello di plastica. Le due voci in ucraino si scambiano alcune battute. L’unica parola che riusciamo a comprendere è «doctore». «Ha detto che non hanno bisogno di cure, che stanno bene e che continuano a dormire» sintetizza Vitale.
Proseguiamo a camminare lungo il viale. All’altezza della terza palazzina la nostra «guida» ci fa segno di attendere e sale scomparendo nel buio delle scale. Poco dopo torna e riprendiamo il cammino. Al suo nuovo distaccarsi dal gruppo in direzione di un’altra palazzina decidiamo di seguirlo e, sebbene si dimostri in parte restio a farci salire, prosegue con noi al seguito. Illuminando i nostri passi con la luce di un accendino percorriamo le scale interne, in alcuni punti ricoperte da macerie. Ogni piano si compone di spazi immensi coperti ma sventrati sui lati; soltanto alcune parti sono ancora integre, soprattutto quelle intorno alle scale: stanze probabilmente un tempo destinate agli uffici dei responsabili del reparto. Ed è proprio aprendo le porte di quelle stanze che, vincendo l’imbarazzo dell’intrusione, irrompiamo nei piccoli rifugi di intere famiglie.

Presenza insolita, pertanto sospetta

La prima porta che il medico del Naga apre svela ai nostri sguardi un ambiente di pochi metri quadri, interamente ingombro da una struttura artigianale in legno, evidentemente realizzata con materiale di recupero, che funge da letto a castello, e da un altro letto matrimoniale, da qualche ripiano e da un paio di armadietti e da una lamiera adattata a stufa a legna. La finestra della stanza è chiusa da alcuni strati di plastica fissata ai serramenti preesistenti, o almeno a quanto rimasto di essi. L’ambiente interno appare nel suo complesso ordinato; all’interno un’intera famiglia, padre madre e quattro figli, già nel pieno del sonno. «Dottore – Naga – medicine – avvocato – informazioni»: bastano queste semplici parole a richiamare l’attenzione e l’interesse del padre di famiglia che si alza ed esce a parlare con il dottore. Muovendoci per tentativi nel buio dell’edificio cerchiamo altre porte. Nel frattempo un’altra porta si apre «da sola»: un ragazzo, sui 25 anni, si affaccia avendo sentito il vociare all’esterno. Anche a lui viene spiegato il motivo di questa visita ma, in questo caso, restando al di fuori dalla sua stanza.
Seguendo Vitale scendiamo nuovamente le scale ritornando così sul viale dove ci trovavamo poco prima. Percepiamo dai suoi gesti e dalle sue espressioni la volontà di ricondurci verso l’entrata. «Ma non ci sono altri da avvisare? Noi sapevamo di almeno 100 persone che vivono qui tra ucraini, moldavi, rumeni, polacchi,...» chiede a Vitale il dottore del Naga. «È possibile! Ma io non posso sapere dove si trovano. Io sono qui solo da due mesi. Noi veniamo qua solo per dormire, di giorno non stiamo qui, c’è chi lavora e chi cerca lavoro. Qua è grande. Bisogna cercare». L’equipe non si rassegna: è evidentemente abituata a trovarsi in questo genere di situazioni. Sa di dover cercare, andare incontro, quasi stanare persone che non si vedono e non si sentono perché la loro esigenza è proprio quella di non apparire. In particolare lo spazio di questo insediamento è grandissimo e, già sgomberato tempo fa, il suo ripopolamento è nuovamente iniziato, a piccoli gruppi, soltanto da poco: così forse si spiega l’incredibile dispersione dei suoi abitanti. La presenza di Vitale ci è tuttavia indispensabile per muoverci all’interno di questo spazio, per creare un contatto con persone silenziosamente nascoste per le quali, noi volenti o meno, non possiamo che risultare, o quantomeno apparire, una presenza estranea, insolita e pertanto sospetta.
Sull’altro lato del viale una piccola porta. «Proviamo? Vitale ci accompagni?» dice il medico guadagnando la disponibilità del ragazzo. Questa volta niente scale: siamo all’interno di un immenso capannone aperto sul viale parallelo. L’eco dei passi si fa più consistente in quanto ci troviamo all’interno di un ampio spazio in parte chiuso sui lati. Illuminando con gli accendini camminiamo per cinque minuti all’interno alla ricerca di qualche traccia, di qualche luce o di qualche riferimento utile verso il quale orientare la ricerca. Troppo grande e poco riparato per poter essere utilizzato come rifugio, l’ampio capannone presenta soltanto tracce di un suo utilizzo come latrina. Un ombra in movimento a qualche centinaia di metri di distanza sembra essere di qualcuno interessato a capire chi siamo, mantenendosi però a distanza. Vitale lo chiama parlando in ucraino. Si ferma. Ci avviciniamo. Non capisce l’italiano, invece intuisce l’ucraino: è rumeno. Dice di abitare «qua in giro» senza specificare dove, di non conoscere nessun altro lì e di non aver bisogno di assistenza sanitaria. La già difficile comunicazione viene interrotta dallo squillare del suo telefono cellulare. È ormai ora di tornare al camper per organizzare le visite di tutti quelli che, avvisati in precedenza, nel frattempo sono confluiti all’ingresso dell’insediamento così come il dottore aveva indicato di fare. Per tornare all’ingresso completiamo il percorso circolare all’interno dell’insediamento: percorriamo altri viali. Il tono della voce negli scambi di parole mentre camminiamo si mantiene basso come quello di Vitale: una rispettosa complicità nel non violare la silenziosità del nascondiglio, preziosa caratteristica che fa di un luogo abbandonato un rifugio appropriato all’esigenza principale di chi lo abita, rimanere invisibile. «Questo comunque è veramente enorme. Ci si potrebbe creare un villaggio...» è l’ultimo commento di un volontario dell’equipe guardandosi indietro prima di piegarsi sulle gambe e scivolare verso l’esterno attraverso il buco da cui eravamo entrati mezzora prima.

Lavoro in nero

Una quindicina di persone, quelle più bisognose insieme a quelle che hanno avuto maggior fiducia in noi, attendono pazienti il proprio turno per la visita al di fuori del camper dove, nel frattempo, i membri dell’equipe che non avevano preso parte alla spedizione all’interno avevano allestito un banchetto informativo rispetto alle opportunità di regolarizzazione offerte dalla nuova Legge sull’Immigrazione e alla disponibilità volontaria di alcuni avvocati presso il Naga. Approfittando delle conoscenze in materia di legislazione sull’immigrazione che mi derivano dai dieci mesi di servizio civile appena ultimati, scambio alcune battute con alcuni di loro. Ragazzi e ragazze dai 24 ai 30 anni, ucraini, tutti di recente arrivo (il più «italiano» lo è da soli 5 mesi). Molti di loro non sono nemmeno arrivati clandestinamente: sono venuti con un normale visto turistico (che dura 2 mesi e non può in alcun modo essere rinnovato) senza poi aver abbandonato l’Italia alla sua scadenza; molti hanno studiato e due sono laureati, e, quelli che sono riusciti a trovare un lavoro, sono oggi manovali e operai generici in cantieri dove lavorano in nero. «Ma il mio capo non mi vuole regolarizzare! Glie l’ho già chiesto molte volte» dice uno di loro quando gli spiego che per rientrare nei flussi di ingresso (le quote di ingressi regolari annualmente stabilite con Decreto Legge del Ministero degli Interni) per il 2001 è necessario che tornino al paese d’origine con una richiesta di assunzione regolare da parte di un datore di lavoro italiano. Senza un lavoro regolare niente permesso, senza permesso niente lavoro regolare è la solita assurda contraddizione di questa Legge che mi trovo sempre in imbarazzo a dover spiegare. Dicono che in questo posto, in questo rifugio, li ha portati un loro connazionale incontrato in Stazione Centrale, dove ogni domenica si ritrova la comunità ucraina e dove sono facili ad attivarsi questi meccanismi di solidarietà reciproca e di mutuo appoggio.
Nel giro di un’ora le visite sono ultimate: chi necessitava di cure leggere ha avuto i medicinali necessari e chi invece aveva bisogno di una visita specialistica o di qualche intervento ha ricevuto un appuntamento all’ambulatorio. Ci salutiamo. I ragazzi guardandosi intorno e controllando bene di non essere osservati fanno entrare prima le ragazze e successivamente scivolano anche loro attraverso il buco d’ingresso a quella specie di città deserta che è la loro «casa», in quell’oscuro labirinto dove, una volta dentro, trovarli non è facile.

Paolo Cottino

Paolo Cottino è dottorando di ricerca in Pianificazione e Politiche Pubbliche del Territorio presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. A Milano, dove vive, collabora con l’Istituto per la Ricerca Sociale e il Politecnico sui temi della riqualificazione urbana. Da anni partecipa attivamente all’esperienza collettiva della Cascina Autogestita Torchiera Senzacqua.


NAGA
Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria e per i Diritti di Stranieri e Nomadi – ONLUS

Viale Bligny, 22 - 20151Milano
tel. 02 58 30 14 20
fax 02 58 30 00 89
e-mail:info@naga.it
sito: www.naga.it


 

Tre storie di frontiera tra le molte che ogni giorno hanno luogo nelle nostre città: l’autorganizzazione della sopravvivenza in edifici abbandonati delle comunità immigrate; la spontaneità sociale e la mescolanza culturale di un mercato di strada informale; l’appassionata battaglia di un gruppo di anziani a difesa di un ritaglio di terreno trasformato in orto. Spazi trascurati e anonimi ridefiniti da soggetti collettivi attraverso una sospensione della «norma» che garantisce una nuova fruibilità dello spazio. Dal viaggio all’interno di questi tre mondi il libro trae lo spunto per una riflessione di carattere più generale sul significato di questo tipo di comportamenti urbani, che il più delle volte scaturiscono dalla sinergia tra una condizione di privazione e l’attivazione di una originale capacità immaginativa e realizzativa di soluzioni alternative a quelle tradizionalmente previste.

Elèuthera - 152 pagine, € 12,00, prefazione di Antonio Tosi.