rivista anarchica
anno 33 n. 294
novembre 2003


dossier Illich

“Nemesi medica”: un quarto di secolo dopo
di Francesco Scotti

 

Con questo libro Illich riuscì a dare legittimità ai dubbi riguardo alla asetticità della scienza e della tecnologia e sulla bontà intrinseca della medicina.

Che cosa ci dice oggi questo libro e, soprattutto, quale posizione permette di attribuire al suo autore nella storia della cultura del novecento?
Innanzi tutto è un libro che ha una collocazione storica precisa, fin troppo precisa; appartiene infatti a quella cultura degli anni ’60 tesa alla delegittimazione della scienza ufficiale, nella speranza, sarebbe forse meglio dire nella illusione, che attraverso la verità i buoni avrebbero avuto accesso al potere. Si salva però dall’ingenuità che riconosciamo altrove perché ha, quale retrofondo, un’idea pessimistica del progresso: le invenzioni e le scoperte che costruiscono la modernità sono attivatori di uno sviluppo senza fine che, da una parte, ha bisogno di incentivare il consumo, così che la domanda si moltiplichi, dall’altra porta alla perdita di senso di ciò che è stato già creato, con la sua riduzione a manifestazione di potenza dell’istituzione che l’ha creato piuttosto che risposta a reali bisogni o desideri. «Ciò porta ad identificare la scuola con l’educazione, l’assistenza medica con la salute..»
Perché Nemesi medica? Le cure prestate, la difesa contro gli effetti nocivi delle cure, provocano una reazione paradossale che è costituita da un aumento del danno, per cui ciò che era nato per portare beneficio si risolve in un’ulteriore sofferenza per l’uomo. Dice Illich: «I greci nelle forze della natura vedevano delle divinità. Per essi la nemesi era la vendetta divina che colpiva i mortali quando questi usurpavano le prerogative che gli dei riservavano gelosamente a sé … Nemesi rappresenta la risposta della natura alla ubris, alla presunzione dell’individuo che cercava di acquistare gli attributi del dio. La nostra moderna ubris sanitaria ha determinato la nuova sindrome della nemesi medica» (pag. 31).
Ricordo l’entusiasmo che questa tesi suscitò in un convegno ad Assisi quando Illich, nel 1976, presentò il suo libro. Riusciva a dare legittimità ai dubbi che già si erano impiantati, nella cultura della sinistra italiana, riguardo alla asetticità della scienza e della tecnologia e sulla bontà intrinseca della medicina. Illich era riuscito a raccogliere una massa impressionante di dati che obbligavano a ripensare dalle fondamenta l’impianto della ricerca e della pratica nel campo sanitario. In un certo senso colpiva alle spalle i ricercatori ufficiali approfittando della loro incapacità di avere una visione di insieme, condannati dal bisogno di efficienza ad essere specialisti in un piccolo campo. Condannava senza appello, non dava spazio all’avversario, identificato come nemico di classe, senza sfumature o distinzioni. Non faceva ricerca per costruire ma per distruggere. Aveva cioè tutte le caratteristiche di quello che Enriques chiama lo scienziato eterodosso. «Le critiche degli scienziati eterodossi, di solito uomini di una genialità superiore a quella che appartiene alla media degli studiosi, di una genialità non bene contemperata dall’equilibrio delle varie doti che occorrono allo scienziato, ma spesso appunto più vivace perché non infrenata dalle esigenze del metodo e della dottrina, sottolineano come i problemi della scienza ortodossa sono mal posti, privi di significato e di valore.»

Ma i medici fanno fatica...

Chi erano i destinatari di questa provocazione? È una rilettura a distanza che ci permette di rispondere a questa domanda meglio di quanto fosse possibile in diretta. Se andiamo a valutare la situazione attuale, della ricerca e degli elementi di criticità in essa presenti, e della mentalità prevalente, dobbiamo dire che la provocazione è completamente fallita con i medici e gli altri operatori sanitari, a meno che non fossero già convinti della bontà delle tesi sostenute da Illich. I medici non possono e non potevano capire che il successo nel singolo caso e la salvaguardia della salute in generale non coincidono. Non potrebbero capire che se si abolissero tutte le specializzazioni della medicina e della chirurgia, e si dedicassero tutte le risorse in tal modo risparmiate alla prevenzione, all’igiene ambientale e alla cura delle malattie più comuni, la salute della popolazione migliorerebbe notevolmente. Gli esercenti una professione liberale, quali si definiscono i medici, fanno fatica ad entrare in una prospettiva sociale e collettiva. Restano ancorati all’idea che il lavoro di terapia parte dalla contrattazione con il singolo. La formazione professionale, l’esercizio della medicina, oltre che l’appartenenza spesso ad una classe privilegiata, li tengono lontani dall’idea che solo una mediazione politica permette un uso razionale delle conoscenze e delle risorse mediche. Possono al massimo giungere ad una impostazione umanitaria, e anche ugualitaristica, ma senza accorgersi che ogni tentativo di estendere in modo meccanico il privilegio di pochi alla maggioranza porta tali contraddizioni da produrre un danno proprio al bene che si vuole tutelare, cioè alla salute. Credo che il beneficiario della polemica di Illich non fosse il corpo medico ma l’utente, o meglio l’insieme dei cittadini consumatori, ai quali viene dimostrata la miseria che si nasconde in ciò che riluce nelle tecnologie mediche. Il messaggio è finalizzato ad una presa di coscienza, da parte dei cittadini, di ciò che la medicina dà loro e di ciò che toglie, facendo promesse che non può mantenere. Da questo l’insistenza, che può apparire ingenuità in un uomo così avvertito quale è Illich, sulla ricchezza dei valori tradizionali che danno senso alla malattia e aiutano a gestirla, con ragionamenti che prendono a prestito perfino il linguaggio delle virtù cristiane.
Che siano gli utenti i veri destinatari del messaggio spiega la semplificazione di molti ragionamenti e il carattere apodittico di certe tesi.
«Studiando l’evoluzione della struttura della morbosità si ha la prova che durante l’ultimo secolo i medici hanno influito sulle epidemie in misura non maggiore di quanto influivano i preti nelle epoche precedenti» (pag. 22).
«È stato dimostrato che il ruolo decisivo nel determinare come si sentono gli adulti e in quale età tendono a morire è svolto dal cibo, dall’acqua, dall’aria, in correlazione con il livello di uguaglianza sociopolitica e con i meccanismi culturali che permettono di mantenere stabile la popolazione» (pag. 23).
Il messaggio è stato accolto? Forse sì, perché oggi assistiamo al diffondersi dell’idea che vada recuperato il carattere umano della cura (e non unicamente tecnologico), dell’idea che la salute è un tutto inscindibile, non divisa per organi e apparati, che è una qualità della vita e non una merce. Inoltre si moltiplicano coloro che vogliono decidere del proprio destino quando si troveranno ad essere malati, decidere se essere curati o no, se vivere o morire – senza che ciò diventi oggetto di delega.
Bisogna dire che gli scienziati non hanno aiutato i consumatori di medicina a mantenere un atteggiamento corretto. Li hanno stimolati a consumare perché così si potesse produrre di più. Riducendo la salute a merce hanno espropriato i cittadini della competenza sul proprio malessere e sul proprio benessere. Ciò hanno fatto, anche in buona fede, per laicizzare la medicina, liberandola da quell’alone religioso che la legava poi inevitabilmente a una qualche fede, e da qui a una qualche chiesa. Ma con ciò hanno preteso – ed è questa una delle tesi centrali di Illich – di sganciare la medicina da qualunque sistema di valori; per liberarla dal religioso l’hanno esclusa dall’etico.
Questa norma dovrebbe trovare il suo fondamento nell’idea che è possibile dimostrare il limite del progresso, ovvero la tendenza dell’economia, della scienza, della tecnologia, abbandonate a se stesse, a produrre più danni che vantaggi.
Le distorsioni introdotte dal sistema sanitario si manifestano in forme paradossali che superano in stramberia le invenzioni più fantasiose. Borges aveva inventato una classificazione fantastica degli animali che merita di essere ricordata: «Per una certa enciclopedia cinese… gli animali si dividono in:
a) appartenenti all’Imperatore,
b) imbalsamati,
c) addomesticati,
e) sirene,
f) favolosi,
g) cani in libertà,
h) inclusi nella presente classificazione,
i) che si agitano follemente,
j) innumerevoli,
k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello,
l) et coetera,
m) che fanno l’amore,
n) che da lontano sembrano mosche.»
Illich, prendendo avvio dalla enumerazione delle diverse prestazioni medico legali che sono abitualmente richieste in un paese moderno, riesce quasi a far meglio (pag. 68):
«La burocrazia medica suddivide gli individui in
– quelli che possono guidare l’automobile,
– quelli che possono assentarsi dal lavoro,
– quelli che devono essere rinchiusi,
– quelli che possono fare il soldato,
– quelli che possono andare oltre frontiera, fare i cuochi o praticare la prostituzione,
– quelli che non possono aspirare alla vicepresidenza degli Stati Uniti,
– quelli che sono morti,
– quelli che sono in grado di commettere delitto e
– quelli che sono responsabili di averlo commesso.»
La conclusione di questa corsa contro la libertà, con un rafforzamento progressivo del potere dei medici e dell’istituzione sanitaria è che «oramai il cittadino, finché non si prova che è sano, si presume che sia malato» (pag. 96).

Che cos’è la iatrogenesi

A questo proposito Illich cita il famoso, e pressoché contemporaneo, documento di Franco e Franca Basaglia, La maggioranza deviante.
Questa citazione ci è utile per collocare Illich nella cultura che condanna la democrazia occidentale perché falsa democrazia, in quanto non fa discendere le decisioni dalla volontà dei più ma marginalizza le maggioranze riducendole in condizione di impotenza.
L’aver citato Basaglia introduce un’altra domanda. Perché Illich non dedica nessun capitolo specifico allo sviluppo della psichiatria e alla reazione che già in quegli anni si era ampiamente sviluppata in Europa contro la psichiatria tradizionale, la psichiatria del capitale? La risposta è che di tale nuova psichiatria non dà un giudizio positivo, anche se a partire soprattutto dai documenti teorici dell’antipsichiatria degli anni sessanta. Egli infatti critica Goffman, Szasz, Laing accusati di non essere abbastanza radicali perché, per dimostrare la genesi politica della malattia mentale e il suo uso per fini politici «contrappongono tutti l’irreale malattia mentale alla reale malattia fisica». «Essi sostengono che il linguaggio delle scienze naturali è valido solo per la malattia fisica…Questa posizione antipsichiatrica negando il carattere patologico della devianza mentale finisce col legittimare lo status non politico della malattia fisica» (pag. 168).
In questo modo essi fanno un favore agli ideologi della società industriale in quanto trasformano sofferenza, malattia, statuto di malato, in eventi naturali difendendo una medicina che non sarebbe condizionata dai valori della società capitalistica.
Ma non è solo una critica a una tattica sbagliata. È la conseguenza di una posizione totalmente diversa da quella dell’antipsichiatria europea, e più in generale del movimento antiistituzionale. Illich rifiuta di ridurre ad una causa lineare il rapporto tra sistema industriale e danno della salute. Ha introdotto, come mediatrice del danno, l’istituzione sanitaria dominata dalla logica del capitalismo. Il danno è frutto di una combinazione di fattori, alcuni materiali, altri simbolici.
L’insieme dei danni che derivano da una medicina moderna viene analizzato da Illich in funzione del meccanismo che li produce. La iatrogenesi (ciò che è causato dal medico o dalla medicina) può attuarsi attraverso le manipolazioni delle malattie e dei disturbi. Vi è una iatrogenesi clinica, in cui «il danno i medici lo infliggono nell’intento di guarire o di sfruttare il paziente, o i danni discendono dalla preoccupazione del medico di tutelarsi da una eventuale denuncia per malpratica.
Oppure viene introdotto un danno modificando il peso sociale della medicina (iatrogenesi sociale): «la gente viene spinta a diventare consumatrice di medicina curativa, preventiva, ecc., menomati che sopravvivono al limite del sistema e grazie all’assistenza; false attestazioni di invalidità che privano del diritto di lavorare.
Esiste infine una iatrogenesi culturale: distrugge la capacità potenziale dell’individuo di far fronte in modo personale e autonomo, alla propria umana debolezza, vulnerabilità, unicità.
La iatrogenesi è all’origine di un travolgimento antropologico che parte dalla soppressione del dolore. «L’individuo diventa incapace di accettare la sofferenza come una componente inevitabile del suo consapevole confronto con la realtà e impara a vedere in ogni malessere il segno di un proprio bisogno di protezione a riguardo» (pag. 139).
L’idea centrale è che con la società industriale si è raggiunto il fondo, si è creata una situazione insopportabile rispetto alla quale lo sfruttamento, la sofferenza delle età precedenti sono il paradiso. Di fronte al dolore aggiuntivo, insopportabile, la società stessa offre l’anestetico, addirittura un sistema anestetizzante.
Dal bisogno di confrontare l’esperienza del dolore e della sofferenza nella civiltà industriale e nelle culture tradizionali, scaturiscono analisi antropologiche che riguardano la strutturante centralità dell’esperienza del dolore, l’atteggiamento nei confronti della morte, la scoperta della dignità dell’uomo, il tentativo di caratterizzarlo rispetto agli animali e, insieme, il rischio che tutto ciò si perda, si alieni. Sono questi esempi magistrali di quella antropologia marxiana che trova il suo fondamento nei «Manoscritti economico-filosofici del 1844», a proposito dell’alienazione del lavoro umano e che ha avuto pochi altri cultori.
Ma Illich non si accontenta di fare la fenomenologia dell’alienazione del dolore, della sofferenza e della morte; fa riferimento – ed è questo uno dei punti meno chiari delle sue tesi – ad un’organizzazione primitiva della società in cui sarebbero disponibili quei rimedi che sono andati perduti nella modernità. Citando Malinowski dice che «nelle popolazioni primitive la morte minaccia la coesione e quindi la sopravvivenza dell’intero gruppo. Scatena infatti una esplosione di paura e forme irrazionali di difesa. Solo tramutando l’evento naturale in un rito sociale si riesce a mantenere la solidarietà del gruppo.» «Il dominio dell’industria ha spezzato e spesso distrutto quasi tutti i vincoli di solidarietà tradizionali» (pag. 197).
Quale è il mito fondante la posizione politico-filosofica di Illich? Una sorta di ideale primitivismo, un’età dell’oro del selvaggio naturale? Una simile riduzione sarebbe inutilmente provocatoria, anche se erano obiezioni di questo tipo ad eccitare la sua forza polemica.
L’dea comunque è che prima era meglio, il che porta a dimenticare che le soluzioni trovate dalle varie culture in passato sono tutte, per loro natura, assolutamente provvisorie e parziali; solo la tragicità degli eventi cui dovevano far fronte ci porta ad apprezzare in qualche modo una risposta che noi non abbiamo ancora trovato.

Revisionismo scientista

In conclusione bisogna riconoscere che è anche grazie a sintesi come quella di Illich che la ricerca sanitaria si è liberata di molti di suoi vincoli, ha criticato gli assunti di base, è stata costretta a una rigorosità maggiore, ad una visione complessiva che tenesse conto dell’interazione tra ambiti ristretti, è stata sospinta a scoprire una prospettiva ecologica, ad inventare un’epidemiologia nuova, ad impiantare un’economia sanitaria che fosse studio dei costi delle malattie oltre che delle cure, ad assumere una visione politica.
Ci troviamo oggi ad un nuovo punto di svolta con il rischio di un revisionismo scientista. Abbiamo a che fare con entusiasmi neo illuministici di una medicina basata sulle evidenze, su una eticità affermata ma più fondata sulla efficienza della distribuzione delle prestazioni e sulla difesa del diritto di accesso universale alle risorse sanitarie, che sul senso della cura per il singolo uomo bisognoso. Tutto ciò richiederebbe forse un nuovo libro, una nuova denuncia che facesse giustizia di questa nuova ubris medica. Ma il nostro tempo aspetta ancora la comparsa di un uomo dal destino così particolare come quello di Ivan Illich.

Francesco Scotti