rivista anarchica
anno 33 n. 295
dicembre 2003 - gennaio 2004


enduring war

La guerra, continua!
di Maria Matteo

 

Oggi, a più di otto mesi dall’invasione dell’Iraq, le piazze tacciono. Agli antimilitaristi il compito di aprire orizzonti di critica e occasioni di intervento radicali capaci di inceppare la macchina bellica della guerra infinita.

Un anno. Questo è il tempo trascorso da quando Bush e soci hanno annunciato la guerra preventiva contro l’Iraq. In tutto il pianeta rispose la mobilitazione preventiva pacifista. Fu un movimento grandioso: milioni e milioni di uomini e donne scesero in piazza contro la guerra. Senza se e senza ma. Quando la furia bellica si scatenò contro una popolazione stremata da dieci anni di embargo e guerra a «bassa intensità» le piazze continuarono a riempirsi di gente decisa a testimoniare la propria opposizione, il proprio no all’orrore che si stava compiendo. «Non in mio nome!» gridavano i cartelli mentre bandiere arcobaleno coloravano i balconi delle città italiane.
Oggi, a più di otto mesi dall’invasione dell’Iraq, mentre una sorda ribellione miete ogni giorno vittime tra occupanti che solo una becera propaganda può descrivere come «liberatori», le piazze tacciono, le bandiere arcobaleno scoloriscono alle finestre. Eppure la guerra sta continuando: un autorevole centro di ricerche americano calcola che le vittime civili del conflitto siano state sinora intorno alle 15.000. Ed il bilancio è destinato a crescere: a Baghdad i bambini giocano tra i rottami di carri armati distrutti dai micidiali proiettili all’uranio impoverito: cartelli in inglese avvertono del pericolo giornalisti e truppe di occupazione. Basta osservare le terribili menomazioni che hanno colpito i figli dei reduci statunitensi della prima guerra del Golfo per avere uno specchio del destino che attende questi bambini senza futuro. Ogni giorno le cronache registrano morti ammazzati tra folle la cui protesta è repressa a fucilate.

Rumoroso silenzio

Nel nostro paese, dove le manifestazioni raggiunsero cifre degne della miglior finale di Coppa Campioni o dell’ultima serata del festival di San Remo, il silenzio dei pacifisti è divenuto fragoroso. Altrove, sia pur con minore intensità, la presenza di piazza non è mai venuta meno: in Gran Bretagna e negli stessi USA ancora alla fine di ottobre si sono svolti cortei imponenti. La lotta contro l’occupazione si è accompagnata alla denuncia delle ormai palesi menzogne con le quali è stata malamente coperta un’operazione neocoloniale. In Italia, l’unica manifestazione di una certa rilevanza, la rituale Perugia Assisi, ha mostrato un movimento piegato su se stesso, incapace della semplice radicalità con la quale anche i settori moderati avevano affrontato la mobilitazione pacifista dei mesi precedenti. L’opposizione «senza se senza ma» ha ceduto il passo ai se ed ai ma: la mediazione ONU è tornata a far parte del carnet rivendicativo dei pacifisti nonostante l’organizzazione guidata da Kofi Annan, dopo aver a lungo rifiutato di fornire copertura all’avventura bellica angloamericana, con la risoluzione votata il 16 ottobre si sia riallineata con la superpotenza USA. Nell’ecumenico pacifismo alla melassa della Perugia Assisi un ben noto guerrafondaio come D’Alema è riuscito a guadagnare il proprio passaggio televisivo senza neppure un accenno della contestazione che lo aveva investito in altri anni, quando l’indignazione per i bombardamenti in Serbia e Kossovo voluti dall’allora presidente del consiglio non si era ancora sopita. La memoria di certi settori pacifisti è corta, cortissima. Nonostante il buon D’Alema ed il suo partito continuino a dar prova del proprio mai sopito spirito bellicoso non facendo in nessun caso mancare il proprio sostegno alle operazioni militari in Afganistan e in Iraq, la capacità di perdono di una sinistra piccina piccina pronta a spiccare il volo verso la prossima tornata elettorale si dimostra inesauribile.
Intanto le due operazioni belliche dello Stato italiano in Iraq ed in Afganistan continuano senza soste ad essere foraggiate con nuovi stanziamenti e rinnovato invio di truppe. Anche la Finanziaria 2003, non diversamente da quelle emanate dal governo negli anni precedenti, non ha mancato di registrare un incremento della spesa bellica a scapito di quella sociale. Il welfare ha ormai stabilmente ceduto il passo al warfare. Nel discorso del presidente della Repubblica in occasione della festa delle forze armate del 4 novembre, la data in cui, sin dal 1918, si celebra un massacro spaventoso, ciò è emerso in modo inequivocabile. L’esercito italiano, cui le «missioni di pace» all’estero e il ruolo in occasione di calamità naturali conferiscono un compito intermedio tra l’angelo custode e le Giovani Marmotte, necessita di «un generale miglioramento e ammodernamento dei mezzi e delle tecnologie». Cosa questo significhi è chiarito da un provvedimento preso in sordina durante l’estate. Il governo con apposito decreto ha deciso di procedere all’acquisto di materiali d’armamento «idonei a determinare danni alle popolazioni o agli animali, a degradare materiali o a danneggiare le colture e l’ambiente...». Si tratta di «giocattolini» quali gas letali e armi biologiche che hanno nomi tristemente famosi: Sabrin, Soman, Tabun e, dulcis in fundo, l’agente Orange. Sì avete capito bene: stiamo parlando del più noto dei prodotti della famigerata multinazionale americana Monsanto (oggi Pharmacia). Grazie a questo defoliante, a trent’anni di distanza dalla fine della guerra del Vietnam, in quel paese continuano a nascere bambini privi degli arti. D’ora in poi anche i «nostri ragazzi» avranno mezzi adatti ai loro compiti. Con buona pace per le coscienze dei tanti, troppi pacifisti che pensano che sia possibile e giusto opporsi alla guerra senza opporsi all’esistenza stessa degli eserciti che la fanno. Per non parlare degli stati di cui sono i gendarmi armati.

Resistenza sempre più debole

Assistiamo al paradosso che, mentre in Iraq ed Afganistan le truppe degli Stati Uniti e dei loro alleati vanno incontro a crescenti difficoltà, le politiche guerrafondaie, specie in Italia, incontrano una resistenza sempre più debole. In entrambi i paesi vittime della guerra infinita proclamata dai neoconservatori statunitensi alla facile vittoria nella guerra guerreggiata non è seguito un altrettanto facile dopoguerra. L’incapacità di controllare i territori conquistati e le preziose risorse di cui dispongono nel caso dell’Iraq, così come il mancato accesso a importanti vie di comunicazione per quel che concerne l’Afganistan costituiscono un costante smacco per la superpotenza USA. Le statistiche parrebbero dimostrare che il consenso alla politica estera dell’amministrazione Bush così come del governo laburista in Gran Bretagna è in costante diminuzione: la guerra sta assorbendo più risorse di quante non sia riuscita ad acquisirne ed il quotidiano stillicidio di vittime tra i soldati di stanza nei due paesi non contribuisce certo ad accrescere la popolarità delle operazioni in corso. Un sintomo inequivocabile dei crescenti ostacoli che si levano di fronte agli angloamericani è la fuga dal paese tra il Tigri e l’Eufrate della Croce Rossa, di varie ambasciate e persino dei rapaci funzionari del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. La partenza di questi ultimi dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che l’affare Iraq non è al momento dei più redditizi. D’altro canto i continui sabotaggi a raffinerie ed oleodotti fanno sì che gli statunitensi siano ancora lontani dal controllare l’oro nero iracheno. Sul fronte afgano il governo fantoccio di Hamid Karzai amministra, grazie agli americani, a malapena la capitale. Fuori Kabul la fanno da padroni i feroci signori della guerra che si dividono territori ed aree di influenza mentre i numerosi attacchi subiti dagli americani in questi mesi dimostrano che quelle talebane sono ben più che sacche di resistenza. Gli Stati Uniti non paiono più abili degli inglesi le cui ambizioni imperialiste subirono più di una sconfitta tra le ardue vette di quel Paropamiso che indusse persino Alessandro Magno a preferire la trattativa alla guerra.

Autonomia dall’istituito

In questo contesto il movimento contro la guerra potrebbe giocare un ruolo cruciale se riuscisse a recuperare parte della lucidità e della chiarezza con la quale era sceso in campo un anno fa. Non sarà facile. Allora i movimenti pacifisti erano innervati, anche se non profondamente pervasi, da significative istanze antimilitariste. Il pacifismo che scendeva in piazza era frutto dell’onda lunga del movimento no-global e riusciva a esprimere autonomia dall’istituito così come dalle sirene della sinistra moderata e, all’occorrenza, guerrafondaia. Oggi i processi di burocratizzazione di questo movimento paiono approfondirsi e, nonostante l’evidente crisi dei vari social forum, non sembrano riemergere significative capacità di autonomia politica. La ritualità spettacolare delle manifestazioni in occasione dei vertici dei potenti sta cominciando a mostrare la corda, mettendo in luce la necessità di una prassi radicale capace di aprire spazi di libertà nella quotidianità vissuta di reti capillarmente diffuse di resistenza e progetto. Sappiamo peraltro che, nella sua tumultuosa carsicità, questo movimento che attraversa le generazioni e le culture politiche, in questi anni ci ha stupito più volte riemergendo vitale ed imprevedibile.
Agli antimilitaristi più coerenti il compito di aprire orizzonti di critica e occasioni di intervento radicali capaci di inceppare la macchina bellica della guerra infinita. Ma bisogna fare in fretta. Altre nubi si profilano all’orizzonte. Se nuovi fuochi si accenderanno in Medio Oriente le loro fiamme potrebbero divampare sino ad innescare un incendio difficile da controllare.

Maria Matteo