rivista anarchica
anno 34 n. 296
febbraio 2004


dibattito

Nel segno di Illich
di Adriano Sofri e Pietro M. Toesca

 

Uno scritto su “Panorama” dell’ex leader di Lotta Continua. E la replica del suo ex professore di filosofia al liceo.

Dopo aver letto il dossier su Ivan Illich, curato da Filippo Trasatti, pubblicato sul n. 294 (novembre 2003) della nostra rivista, Adriano Sofri – da sette anni detenuto nel carcere di Pisa – ha dedicato la propria rubrica sul settimanale “Panorama” (numero del 27 novembre scorso) in particolare allo scritto di Pietro M. Toesca. Titolo dell’articolo di Sofri: Dedicato al mio professore. Sottotitolo: Scopro che l’ultimo numero della rivista degli anarchici ricorda la figura di Ivan Illich, uno dei padri nobili del ’68. E che il primo saggio lo ha scritto un insegnante. Che conoscevo bene.
Già in altra occasione Sofri – allora in uno scritto sulla prima pagina del quotidiano “La Repubblica” – aveva preso spunto da un nostro ricordo di un altro “maestro”, il pedagogista Marcello Bernardi, per citare a lungo la nostra rivista.
Ripubblichiamo in queste pagine lo scritto di Sofri apparso su “Panorama”. Segue la risposta di Toesca.
Cogliamo l’occasione per ribadire la nostra simpatia e solidarietà ad Adriano Sofri, in coerenza con quanto da noi scritto nel 1988, subito dopo il primo arresto di Bompressi, Pietrostefani e Sofri nell’ambito delle indagini sull’uccisione del commissario Luigi Calabresi.

Dedicato al mio professore
di Adriano Sofri

La rivista ormai classica degli anarchici italiani si chiama “A”, è un mensile (quasi: salta gennaio, agosto e settembre).
L’ultimo numero dedica una parte alla figura di Ivan Illich e ne scriverò fra poco. Prima voglio copiare qualche frase dalla pagina che illustra condizioni di vendita, abbonamento, diffusione della rivista. Per esempio: “Siamo alla costante ricerca di diffusori... Il rapporto con i diffusori è basato sulla fiducia. Noi chiediamo che ci vengano pagate solo le copie vendute, a un prezzo scontato. Non chiediamo che ci vengano rispedite le copie invendute e suggeriamo ai diffusori di venderle sottocosto o di regalarle”. Oppure: “Ai detenuti che ne facciano richiesta, ‘A’ viene inviata gratis”.
Ivan Illich è morto un anno fa, era nato nel 1926 a Vienna. Parlava e ascoltava correntemente una decina di lingue. Fu molte cose: “Prete cattolico – anzi, monsignore – poi, uscito dalla Chiesa, rettore, a meno di 30 anni, dell’università di Porto Rico, professore di non so quante discipline (tra cui “storia del sistema fognario”) in non so quante università, animatore del Centro interculturale di Cuernavaca (in Messico), autore di numerosissimi libri e saggi, uno dei più radicali critici della civiltà tecnologica, cui oppone una visione di convivialità: così lo presentava quasi vent’anni fa Alex Langer, riferendo un incontro con lui. È difficile sopravvalutare la sua influenza. Nei primi anni ’70 le sue proposte contro l’invadenza della sanitarizzazione (La nemesi medica) o della scolarizzazione (Descolarizzare la società) si guadagnarono l’adesione di molti, con particolare entusiasmo di Pier Paolo Pasolini. E, insieme, una rimozione o un confinamento di sicurezza, da guru affascinante ed eccentrico, alla larga dalla critica dell’esistenza comune della gente comune.

Libero pensiero lastricato di ma e di se

Il primo saggio su “A” è di Pietro M. Toesca, che per Illich sente una simpatia di quasi coetaneo, soprattutto di partecipe di uno stesso viaggio. E protesta contro “il rifiuto di ricominciare dal principio, pazientemente, a tessere i fili del nostro sapere e del nostro fare”. Protesta, Toesca, contro la soggezione al fatto compiuto, scambiato per la realtà, e la rinuncia al pensiero e all’azione guidata dal pensiero, senza di che non c’è libertà. Un tal “realismo”, fra l’apologia e la rassegnazione alle cose come stanno, si appende, dice Toesca, a “una serie di se e di ma”.
Io mi prendo qui una pausa nella lettura, perché sono tipo di se e di ma e non riesco a vedere un cammino verso il pensiero libero e l’azione guidata dal libero pensiero che non sia lastricato di ma e di se. Non sono certo però che si tratti di una vera divergenza, e non di giochi di parole. Toesca procede sulla scorta di Illich denunciando il rovesciamento per cui l’istituzione, da tentativo di risposta organizzata a un bisogno o una domanda dell’individuo, diventa proprietaria esclusiva e autoritaria delle decisioni e delle competenze che investono l’individuo. Questo rovesciamento è il rischio di ogni istituzione, dalla famiglia alla scuola, dal luogo di lavoro alla società intera.
La libera e creativa relazione fra le persone viene così soppiantata e usurpata da autorità esterne che mirano soprattutto alla propria conservazione. La riduzione della libertà a obbedienza è comune a società repressive e a società del consenso consumista, “riducendo di molto la differenza tra metodi violenti e metodi democratici quando questi si avvalgono di mezzi di persuasione che fanno del consenso una vera abdicazione alla libertà di giudizio”. Qui mi prendo una seconda pausa. Capisco l’argomentazione, ma la sua formulazione mi fa temere una sottovalutazione della differenza, nell’esercizio dei poteri, fra “metodi violenti e metodi democratici”: perché al contrario non ho fatto che rafforzarmi nella convinzione della differenza cruciale fra coazione fisica e manipolazione morale, l’Habeas corpus, per intenderci. Che l’anima possa essere lesa altrettanto e più duramente che le membra è una frase di cui si capisce il senso: ma a condizione che si conservi la priorità dell’incolumità e intangibilità dei corpi.
Penso che Toesca, di cui immagino una nonviolenza profonda e pressoché tolstoiana, forse converrebbe con questo “prima e dopo”, dunque andiamo ancora avanti. Verso l’indicazione strategica di Illich, la “convivialità”, la conversazione. “Convivialità significa prima di tutto condivisione, gioiosa partecipazione reciproca: il che non vuol dire beota negazione dei triboli dell’esistenza, ma attivazione continua, gli uni per gli altri, della meraviglia che fa risuonare in noi la bellezza della realtà e permette di affrontare la sofferenza come una dimensione interna, mai catastrofica, di un percorso che si manifesta sempre come bene se è costruito insieme in uno scambio generoso di ciò che ciascuno scopre e realizza per sé”. Di questo scambio fa parte la restituzione dell’istruzione e dell’educazione dalla scuola al contenuto vivamente pedagogico di ogni relazione umana, e della stessa politica. Il seguito del saggio di Toesca è dedicato appunto alla scuola e alla descolarizzazione e alla universalità della dimensione pedagogica. Io smetto perché incombe il fondo della pagina e voi potete procurarvi il testo (“A” costa 3 euro, e se avete la fortuna di essere detenuti, gratis). Soprattutto devo rispondere alla perplessità che vi avrà colti se siete arrivati fin qui: se io non abbia fatto più attenzione al commemoratore Toesca che al commemorato Illich. Avete ragione. Il fatto è che Pietro M. Toesca fu il mio professore di filosofia al liceo Virgilio di Roma, proprio dirimpetto a Regina Coeli, moltissimi armi fa. Una scheda su “A” informa che, dopo aver insegnato nei licei, Toesca ha insegnato all’università a Roma e a Parma, e nel 1980 si è dimesso “per dignità e rifiuto di connivenza con l’Accademia ricostruita”. E abita a San Gimignano. Lui si è descolarizzato sul serio, dunque. E io, vecchio scolaro, lo saluto.

Adriano Sofri

Adriano Sofri educatore
di Pietro M. Toesca

Ho scritto ad Adriano Sofri una lettera affettuosa per ringraziarlo dell’affettuoso ricordo che mi ha dedicato su Panorama. Ma rispondo volentieri all’invito di “A” ad approfondire alcune considerazioni già accennate in quella lettera.
Il caso Sofri è da tempo entrato, grazie ad una più o meno sapiente, più o meno riuscita, campagna dei media, nell’‘immaginario popolare’ come una anomalia italiana. Un reato che, lo si giri come si voglia, è stato verificato (se si vuole rispettare l’‘al di là di ogni ragionevole dubbio’) come un reato di opinione, e anche in ritardo, è stato punito come un vero delitto. E tutto questo per chiudere una questione – la barbara ed equivoca uccisione del Commissario Calabresi – che pesava, se impunita, come un macigno sulla politica chiamiamola giudiziaria (secondo il gioco delle tre carte, cioè l’apparente divisione dei poteri) di uno Stato che non batte ciglio se gli si contesta l’accantonamento del 90% o giù di lì dei delitti di sangue (parola del Procuratore Generale dello Stato), ma che non può certo fallire nell’identificazione di un colpevole quando si tratti di qualcosa che riguarda pericolosamente la credibilità diretta del proprio potere. Un colpevole che può anche essere innocente: lo teorizzava già il buon Machiavelli dichiarando che un potere come si deve preferisce rischiare di condannare un innocente piuttosto che lasciare impunito un delitto.
Ma il caso Sofri è un’anomalia italiana soltanto nel senso che è lo specchio rovesciato di un’altra, ben più generale anomalia, quella per la quale le classi cosiddette dominanti italiane, manovrando a diversi livelli l’opinione pubblica, riescono spesso a giustificare, cioè a nascondere, in funzione della logica generale detta machiavellica del fine che giustifica i mezzi (la ragione di Stato) veri e propri reati grazie ai quali fare politica significa saper conquistare il potere e mantenerlo. A tutti i costi. In questo senso il caso Sofri è un ‘prodotto del regime’, come lo fu ad esempio quello di Antonio Gramsci in altri tempi e, per qualche tempo, e in altro contesto, di Pietro Valpreda.

Un buon cammino

Certo, non siamo, grazie a Dio, nella Germania nazista e neppure nella Russia di Stalin. Per questo Sofri è, ‘semplicemente’, chiuso in carcere: egli stesso mi fa osservare, giustamente, la differenza di una società democratica (lasciando intonsa la discussione sull’autenticità di una democrazia qual è l’attuale). E osserva anche giustamente che la vera violenza (la vera discriminazione) è quella fisica, e che quella morale è reale violenza in quanto arriva ad essere poi fisica. In realtà, anomalia per anomalia, è bene sapere quant’è la responsabilità delle democrazie ricche per la morte di milioni di esseri umani per fame, miseria, stenti. Emarginazione appunto. E queste cose Adriano le conosce bene poiché, mentre suoi ex compagni di Lotta Continua si sono svenduti senza alcuna vergogna al mercato delle vacche (come una volta si diceva popolarmente), egli ha invece fatto molto buon cammino, sviluppando la sua matrice prospettica di trasformazione reale della società, decantandola da ogni tentazione di violenza, impegnandosi, già ben prima della sentenza di condanna, negli interventi umanitari e, soprattutto, elaborando pensieri e giudizi morali, sociali, politici che hanno fatto di lui un autorevole opinion-maker (nel senso buono, salva la dizione americana del termine). E questa se si vuole è la sua vera anomalia: egli ha reagito alla discriminazione con tale saggezza anche autocritica, con tale equilibrio, con tale coraggio da far domandare, a chi non è proprio disattento o velato da pregiudizi, perché e come mai egli sia ‘dentro’ invece che fuori, e quelli che sono fuori siano fuori (non sarà perché questi sono dentro al potere?).
Sofri mi rimprovera anche, bonariamente, di essere troppo secco, di non consentire ‘se e ma’. In verità io li consento, e quanti! Ma laddove essi hanno un senso, e sono necessari, e non contraddicono alle premesse. Non cioè quando si tratta di quella coerenza che nella lunga storia, e contrastata, della presa di coscienza dell’umanità ha sempre richiesto (ma quante volte invano) di non annacquare affermazioni altamente veritiere con distinzioni capaci di salvare la capra e i cavoli di coloro che, nel viaggio di trasferimento dell’una e degli altri, dovevano tenere a bada il lupo e, in fondo, erano dalla sua parte (non si sa mai, può sempre servire a difesa). Oggi sembra, almeno a me sembra, che questa coerenza sia la richiesta consapevole di tanta parte dell’umanità che perciò contesta la pretesa di coloro che per ‘avere ragione’ si appellano direttamente alla ‘ragione’, nascondendo dietro a questo appello il solito ricorso alla forza. Certo, questa richiesta di coerenza è buona se è buona la premessa da sviluppare: il nazismo è stato un esempio di coerenza assurda, sviluppando all’estremo, senza dubbi né verifiche, una premessa cattiva ovvero falsa (per esempio il diritto esclusivo all’esistenza di una supposta razza superiore). Ma non abbiamo bisogno di disturbare ricordi tanto tragici: basta rendersi conto di qual è l’uso della ragione da parte dell’economia capitalistica.

Coerenza senza se senza ma

Adriano in verità conosce bene anche questo: il ‘sì sì, no no’ evangelico vale anche per lui, che rifiuta di chiedere una grazia che invece di riconoscere la sua innocenza, coprirebbe semplicemente la sua accettata colpevolezza con un velo di graziosamente concessa finzione di innocenza. Se non è coerenza questa, senza se e senza ma, non saprei quale altra.
È in questo che Adriano Sofri ha compiuto un lungo e attento cammino critico. Il rigore soprattutto morale della contestazione sessantottesca si è liberato dall’inganno di una versione dogmatica e violenta: e da tanti anni ormai Sofri compie una preziosa opera di educazione civile, sapendo e sostenendo che una diversa, nuova società dipende assolutamente dalla esistenza, dalla prospettiva e quindi dalla formazione di uomini diversi, nuovi. Certo bisogna cambiare le strutture, le condizioni sociali: ma da chi, e per chi? Il suo percorso è un forte esempio di questa presa di coscienza.
Se io dovessi infine manifestare una mia piccola perplessità, questa riguarderebbe il fatto che Sofri scrive ovunque, certo per arrivare là dove altri non può arrivare; e chi è condannato all’esclusione e al silenzio deve parlare, senza arricciare troppo il naso. Ma forse, qualche limite c’è.
Adriano, ti voglio bene e, anch’io, ti saluto.

Pietro M. Toesca