rivista anarchica
anno 34 n. 297
marzo 2004


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Allain Leprest

(Dedico questo articolo al grande veronese Marco Ongaro, con cui abbiamo giocato un rimpiattino di tramite verso Allain, e che, dal suo stato di postumo vivente, s’industria sulle nostre leggende).

Allain Leprest

Leprest è a mio avviso il più poetico, il più scuro, il più profondo artista della sua generazione di cantautori.
Fu riconosciuto da subito come giovane talento da Maurice Fanon, che, per primo, lo presentò, all’inizio degli anni ’80, nel programma di una radio locale, o da un mostro sacro quale Nougaro, che lo considera un genio della scrittura.
E non sono stati i soli.
Allain è lo «scrittore di canzoni» forse più rinomato degli ultimi venticinque anni, basti pensare alla lunga collaborazione con Romain Didier, che ha prodotto le sue più belle opere sui testi di Allain, poi all’intero spettacolo per Francesca Solleiville Al dente, e ancora testi, testi, testi e gioielli per una pletora di artisti, a volte amici «sconosciuti» al grande pubblico cui, per pura amicizia e senza calcolo, affida dei capolavori, a volte vere star dei botteghini e del mercato discografico, quali Enzo Enzo, che lui non ha mancato di far penare per mesi, prima di regalarle quattro gocce di splendore. E questo è il suo mestiere di «ebanista», quello che gli fa dire, senza alcuna falsa modestia, a uno sconosciuto (il sottoscritto), rocambolescamente raggiunto per la prima volta al telefono intorno all’una di non so che nottata «la mia fierezza è di essere solo un umile artigiano».
Ma il meglio di Allain, che comunque resta nei dischi e negli spettacoli in cui è proprio lui a cantare, recitare e vivere le sue canzoni, è purtroppo confinato all’apprezzamento sfegatato di un gruppo, numeroso ma non sterminato, di fan.
Non tenterò qui di analizzare la ragione di questo stato di grande outsider, né offrirò – e si che ne avrei voglia! – un’analisi approfondita della sua poetica, più che altro perché lo stesso Leprest che ho anche avuto la fortuna di conoscere nel corso di un indimenticabile (e piuttosto etilico) pomeriggio nella casa parigina del mio caro amico e geniale poeta Lorenzo Flabbi, me ne ha posto quasi un veto. «Traducetemi, cantatemi, pubblicate i miei testi», ha detto, «ma per favore lasciate l’interpretazione al libero ascolto».
Così dunque farò, fornendo giusto quei dati indispensabili alla comprensione di un poeta tanto più intraducibile, quanto insuperabile nel maneggiare le strutture verbali, nel trovare feroci sfumature della lingua che carezzano e violentano significati e suoni, che aggrediscono e sprofondano l’ascoltatore in un universo a volte disperato con fuoco, a volte malinconico e ammaliante, a volte metafisico o rabbiosamente grottesco.

L’amore dell’umanità sconfitta e sofferente, il pudore che rintuzza la banalità, ci offre in questo reportage delle solitudini umane un delicato capolavoro che può ben aprire un piccolo tour in tre tappe nell’universo Leprest:

Je vien vous voir (Vengo a trovarvi, o piuttosto a cercarvi, a rendervi visita…)

Sono marmocchi, son piccolini… là, là
a Bogotà sono forzati… là, là
Vivono, muoiono, scavano oro, guadagnano due soldi e la sera dormono
Sul cuscino del loro marciapiede: vai a vederli

Lei è tutta sola nella cucina… là, là
Niente più cane, niente più cugine… là, là
Niente più di caldo dentro il suo frigo, niente più speranze, nessuna eco
Niente più desideri, né memorie: valla a vedere

È curvo trascina la sua pena… là, là
Prende da solo il suo cappuccino… là, là
Si spara un colpo, ma si manca al tirassegno dei cinquant’anni
Nessuna storia, nessuna mancia: vai a vederlo

Non ti piace Manet, né Beethoven… là, là
Non ami amare, non ami I LOVE… là, là
Non ami niente, ami il tuo cane, hai a casa l’acqua, ma l’acqua è niente
Se non c’è nessuno per berla assieme: vai a farti vedere

Si manca d’amore nei quartieri bassi… là, là
Il buon dio ha le braccia troppo corte… là, là
La gente è bella, il mondo e scemo quando getteranno le noccioline
Nel fondo dello Zoo, al centro della piazza: venitevi a vedere.

Questa sera canto non lontano da casa tua… là, là
Mangio un pianoforte verso le otto… là, là
Porto tutti: i bambini, la mia faccia, il tizio perduto, la vecchia sola
È per l’amore, non per la gloria che vi vengo a vedere.

Ovviamente inutile dire che il solo testo, per di più tradotto, non offre che un pallido scorcio della potenza espressiva di questa canzone…
Allain, classe 1954, è un uomo dell’estremo nord della Francia, la Normandia, la zona delle miniere di Germinal per intenderci, ed è venuto su in una famiglia mica troppo benestante, in un bel milieu operaio; comincia a cantare a vent’anni, poi scende verso Parigi per vivere la sua propria Bohème, e lì, presto, a dispetto dei lustrini e delle paillette del telegenico vuoto degli anni ‘80, si è imposto con la forza delle sue parole.
Tutti si accorgono di lui quando, col solo accompagnamento della chitarra o della fisarmonica, comincia a rinnovare, portandola alle estreme conseguenze, la tradizione di un realismo magico, di un modo così inedito di far danzare la lingua fra suono e significato, da sembrare incredibilmente vero.

Per concludere questo minimo excursus, che spero vi abbia stimolato alla conoscenza di uno dei più vivi dei viventi, concludo con il testo di questa canzone che apre i due ultimi dischi di Allain (uno in studio, uno dal vivo) e che quindi suppongo occupi nel suo cuore un posto particolare, come certamente lo occupa nel mio.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it

La pensione

To’, ora la bottiglia arriva al fondo, siamo vecchi, vecchia mia.
Veri vecchi col semolino, vecchi con la testa che trema
Eccoci al fondo della via, a voce bassa, chi l’avrebbe detto
Al tempo della vita che correva, al tempo che non si rimproverava
Alle stelle di sparire
In pensione

A che ci serve questo cuore se si è svuotato del meglio?
Che ci hanno preso legno e forza e non ci resta che la corteccia…
O forse non è proprio una cazzata che il vuoto venga reso
Che dopo la festa restino ancora le lische della vecchiaia
Per finire la sigaretta
In pensione

Tutto qui sembra vecchio, il caffè puzza di orzo
Il «tiamo» mette le pantofole, l’amore getta via le marionette
E la testa si volta di colpo a rileggere la tappezzeria
Su cui mille volte i cacciatori uccidono un cervo che cercava la fuga
Fra la porta e la finestra
In pensione

Forse ad una certa età più o meno lo spirito evapora
E la ragione traballa, e senti i peli bianchi sulla lingua
Noi saremo i centenari che sognano viaggi lontani
Aver voglia del Perù, anche quando senti caderti addosso
Le palate di terra che arrivano
In pensione

Scende la sera, andiamo via, non ci deve trovare seduti
Se molliamo i ninnoli, l’indispensabile sta in uno zaino
Guarda, alzo il pollice e Hop!… si chiama Autostop!
Tanto peggio se non abbiamo i jeans, se questa scema si crede
Che se ci sei dentro il cuore si fermi
In pensione

Addio il letto… Buongiorno Madrid, non facciamo riposare le rughe
Se ci sbrighiamo a correre, domani saremo a Toledo
A vedere le ombre lente, sentire le case che bruciano
Ciao arancio sul cortile, ciao pigrizia dei giorni…
Avevo fretta di arrivare
In pensione

To’, ora la bottiglia arriva al fondo, siamo vecchi, vecchia mia.

 

Nu (nudo)

Nudo, io vissi nudo, naufragato nascendo
Sull’isola di «malinfanzia» da cui nessuno tornò
Nudo, io vissi nudo nelle vigne selvagge
Gonfio di vino di temporale e di reggiseni commossi

Nudo, vecchio ingenuo, navigai nei tuoi celi
Dalle terre del fuoco, fino alle erbe pallide
Nudo, io piansi nudo nel vapore di uno specchio
Col cuore che gira nel faro, occhio di quanto amore!

Nudo, io vissi nudo sul filo dei miei sogni
Il tessuto di menzogne, il mio destino sbilenco
Ma nudo io continuo il mio cammino di tempesta
Urlando a pieni polmoni «La canzone dei tessitori»*.
Nudo, avanzo nudo, spoglio della mia ombra
Non volevo essere un numero lo sono divenuto

Nudo ho vissuto, ai quattro angoli delle stazioni
Clandestino di una storia che non ha più strada
Nudo sono venuto a visitare passando
Un globulo di sangue, un neutrone di nube
Ma nudo, il corpo nudo, voglio che mi si inumi
Nel mio più bel costume «pacifista ignoto».

* Les canuts, come ben ricorderanno i più attenti dei nostri lettori, è la mitica canzone ribelle di Aristide Bruand dedicata alle rivolte dei tessitori di Lione di metà ottocento.