rivista anarchica
anno 34 n. 298
aprile 2004


anarchici

 

Teatro sociale

Molto probabilmente non avevano la «dignità» letteraria del teatro maggiore, e anche la fama degli autori non varcava gli angusti ambiti delle sale dove recitavano le filodrammatiche. Però non erano neppure testi scritti con la mano sinistra, alla buona, per palati grossi a un tanto al chilo, perché il piccolo, grande mondo proletario al quale si rivolgevano dall’alto del palcoscenico aveva un palato fine, da intenditore esigente. E soprattutto avevano una funzione, la manifesta funzione di parlare direttamente al cuore di un popolo affamato di buone letture, di speranze di riscatto e di emozioni capaci di dare corpo a quella solidarietà di classe che, sola, poteva garantire il loro «diritto all’esistenza».
Il teatro sociale, il teatro rivoluzionario, il teatro degli esclusi e dei sovversivi! Un genere letterario copioso e fortunato, che fra il finire dell’ottocento e i primi decenni del novecento divenne uno fra gli strumenti culturali più importanti per l’educazione politica e «sentimentale» del nostro proletariato. Un genere dai contenuti dichiarati, esplicitati con la chiarezza del fine rivoluzionario: contenuti didascalici, pedagogici, formativi di una coscienza e di una consapevolezza che potessero, una volta svuotatasi la sala della recita, trasformare le tensioni e le ingiustizie in volontà di lotta e di attacco alle strutture dello sfruttamento. Un teatro che portava sulle scene la vita quotidiana delle plebi, le lotte, gli scioperi, gli eccidi, le infamie di una borghesia infame e irrecuperabile, le disgrazie di vite sofferte e infrante da una durezza senza speranza. Un genere che fra gli anarchici, soprattutto, ebbe larga diffusione, sia perché la propaganda diretta (e questa era propaganda diretta coi fiocchi) era strumento naturale per l’azione dei libertari, sia perché la diaspora del movimento, coi suoi membri costretti ad emigrare per trovare condizioni di vita più dignitose o per sfuggire alle continue attenzioni repressive del potere, creava ovunque, nel nord dell’Europa come nelle Americhe, affollate comunità di compagni. E in queste il fiorire di una letteratura che riusciva a mettere in sintonia l’esistenza quotidiana con i momenti di svago o di arricchimento umano e culturale, diventava fondamentale strumento di coesione e di identità.

Militanti autodidatti
Molti furono i nostri compagni che si cimentarono col teatro sociale, e alcuni famosi, come Pietro Gori o Luigi Damiani, infaticabili autori di fortunatissimi testi più e più volte portati sulle scene di mezzo mondo. E lo stesso Malatesta, a lungo stimolato dagli amici e consapevole dell’importanza, per la diffusione dell’Idea, di questa forma di comunicazione, si cimentò diligentemente in un Lo sciopero, dramma in tre atti edito postumo a Ginevra nel 1933 per i tipi de «Il Risveglio» di Luigi Bertoni. Ma più spesso gli autori sono figli del popolo, lavoratori fra i lavoratori, militanti autodidatti quotidianamente impegnati nella lotta e partecipi, sul posto di lavoro e nella società, delle situazioni rappresentate sul palco e delle contingenze vissute giorno per giorno dagli spettatori. E fra i tanti, in questo Ritratti in piedi, propongo all’attenzione dei lettori l’operaio tessile di Schio Ausonio Zuliani (Tempeste Sociali. Dramma sociale in tre atti con Prologo in versi martelliani, La Spezia, «Il Libertario», 1915), il calzolaio vercellese Tomaso Concordia (Lo Sciopero dei risaiuoli. Dramma rivoluzionario in quattro atti con prologo d’introduzione, Genova, La Comune, 1920) e il minatore aquilano Umberto Postiglione (Come i falchi. Scene drammatiche in due atti, Philadelphia, Circolo di Emancipazione Sociale, 1939).
I testi di questi autori, quanto mai sintomatici e felicemente rappresentativi di quanto fin qui detto, mostrano una sostanziale uniformità, sia nella struttura narrativa caratterizzata da stilemi comuni, che nella scelta degli argomenti. Da una parte i buoni e dall’altra i cattivi, qui gli operai, i contadini, gli apostoli della redenzione sociale, là il potere e la ricchezza, il padrone, il giudice, il prete, lo sbirro. E poi la provocazione padronale, la durezza dello sfruttamento, lo sciopero, la lotta, la sollevazione delle plebi incitate dagli anarchici e dai socialisti a cui si contrappone la crudeltà e l’infamia del nemico, l’ardire e l’ardore del giovane protagonista, la purezza d’animo della figura femminile legata all’eroe, la nobile figura del transfuga della borghesia che ha dedicato la sua scienza al proletariato. E il tradimento del crumiro o della spia (frequenti per ricordare allo spettatore la necessità di tenere sempre gli occhi aperti), la fame, il dolore, la fatica di trovare un lavoro, la lotta per la sopravvivenza, fino alla tragedia finale. Perché è una costante la mancanza del lieto fine, del «vissero tutti felici e contenti», non solo in quanto impedita dalla crudeltà di quella vita così fedelmente riportata sulla scena, ma anche perché il dichiarato intento didascalico non può assecondare sentimenti di ottimismo contrari all’impegno e alla durezza dello scontro. E infatti è essenziale, per la struttura del testo, lo scontro finale, redentore, catartico, durante il quale le masse, vincenti o perdenti a questo punto ha meno importanza, cercano di prendere in mano le proprie sorti senza permettere a nessuno di provare a fermarle.
Nelle Tempeste Sociali di Zuliani, precedute da un prologo nel quale l’autore declama gli intenti educativi di questa forma di propaganda e la auspicata adesione del teatro alla realtà, si intreccia alle traversie politiche del protagonista, latitante per sfuggire a una condanna rimediata per alcuni articoli di giornale, una fosca storia di calunnie e tradimenti famigliari orditi dal proprietario della fabbrica tessile di Schio. Calunnie e provocazioni che porteranno lo sventurato Ermete de Fiori, vero e proprio alter ego di Zuliani, costretto ad emigrare in Svizzera per sfuggire alle rappresaglie padronali, a morire in carcere dopo sette anni di ingiusta detenzione.
Particolarmente drammatica è la descrizione dell’eccidio che segue alle provocazioni padronali, durante il quale muore il miglior compagno di Ermete, come singolare è la figura del carceriere, giovane non ancora segnato dalla durezza del mestiere, che aiuta e compatisce il giovane prigioniero contribuendo, nel momento supremo, ad allontanare il cappellano della prigione, torvamente appollaiato sul letto del moribondo.


Minatore e hobo
In tutt’altra landa il testo di Postiglione, fra i minatori della Pennsylvania, una comunità di emigrati italiani dove ancora non è arrivata la parola sovversiva dell’anarchia liberatrice ed emancipatrice. Una comunità che senz’altro riproduce una delle tante frequentate dall’irrequieto abruzzese, minatore, hobo e instancabile militante sindacale. Qui è il capoccia, proletario traditore della sua classe trasformatosi in aguzzino degli ex compagni di lavoro, a fare una brutta fine, ucciso ed appeso alla vista di tutti, come i falchi secondo una ancestrale tradizione contadina, a monito per i suoi pari e ad incitamento alla rivolta per gli sfruttati abituati a tremare dinanzi a lui. La sua colpa il ricatto e il sordido tentativo di approfittare della compagna di Enzo in cambio di un po’ di lavoro, il suo imperdonabile errore ignorare che Enzo ha trovato, nella coscienza dello sfruttamento e nella praticabilità della rivolta, la forza per farlo pentire definitivamente delle sue torbide abitudini. Inutili saranno gli appelli in nome di dio per sfuggire alla vendetta, perché «in nome di dio ci derubate e ci affamate... in nome di dio ci prendete tutto e ci negate ogni cosa... in nome di dio voi vorreste che ci rassegnassimo a tutte le vostre infamie! Ah... no davvero!».
Il vercellese Concordia non poteva ambientare che nelle sue campagne lo sciopero dei risaiuoli. Sono i contadini stavolta che si stringono in lega, decisi a far valere i loro diritti contro Lorenzo, sindaco e proprietario terriero, tanto arrogante quando può ripararsi dietro la divisa del brigadiere quanto pavido allorché la folla dei risaiuoli cerca di stanarlo dalle sale del municipio. Particolarmente interessante la figura di Riccardo, giovane anarchico e medico dei poveri, che per aver tradito la propria classe spronando alla lotta la folla esasperata sarà il primo a soccombere davanti ai colpi della forza pubblica. Altrettanto significativa la figura del prete, laido adescatore di giovinette e avido seguace dei piaceri della carne, la cui volgarità si contrappone all’idealismo del dottore, lui sì vero Cristo pronto a sacrificarsi per la redenzione del lavoro. Sarà Tomaso, i cui genitori sono fra le vittime dell’eccidio, a bilanciare il corso della storia incendiando la casa e le proprietà del sindaco, ma dopo anch’egli morirà, suicidandosi per non finire i suoi giorni nelle patrie galere.
Trame abbastanza semplici, essenziali come si può capire, direttamente finalizzate alla propaganda, ma non per questo prive di una qualità letteraria che traspare nella attenzione dedicata alle didascalie e che vuole essere non solo il legittimo momento di gratificazione per l’autore, ma, soprattutto, una dimostrazione di rispetto per il pubblico, «povero» certamente, ma proprio per questo con maggiore diritto di assistere ad uno spettacolo dignitoso e ben costruito. E dimostrazione di rispetto anche per i luoghi e le circostanze delle rappresentazioni, quando nelle sale delle filodrammatiche, dei circoli operai, delle case del popolo, delle povere sale da ballo affittate per pochi soldi o nei parchi delle periferie il popolo si ritrovava come comunità, organizzando le serate di sostegno a uno sciopero o a una vertenza, le feste campestri, le riffe per la propaganda, le pubbliche letture o i comizi, preceduti dalla farsa di prammatica e conclusi dal lavoro degli attori. Quei giovani proletari che trasmettevano un fiotto di emozioni, portando in scena la vita quotidiana, la loro e quella di chi li applaudiva.
Operai, contadini pellagrosi, famiglie costrette a emigrare, minatori abbruttiti dalla fatica, sterratori, marinai, tutta gente sconosciuta condannata a una situazione di duro sfruttamento ma mai vinta e sempre in piedi, che nella sua capacità di interloquire, anche durante una recita, con chi gli indicava la strada della emancipazione trovava, ogni giorno che dio mandava in terra, la dignità di lottare e di non curvare la schiena.

Massimo Ortalli

 

Odissea perpetua
di Ausonio Zuliani

La nostra vita errante di militi ed attori,
È un’odissea perpetua di lotte e di dolori;
È una battaglia audace tra l’infuriar degli odi,
Nel mare tempestoso di mille inganni e frodi.
Noi siamo i cavalieri d’un ideal d’amore
Di cui, tra sogni audaci, trabocca il nostro cuore;
Noi siam gli araldi impavidi d’un’utopia radiosa
Che all’igneo orizzonte s’annunzia minacciosa...
E come il navigante, sui flutti procellosi,
Lottando tra l’insidie dei gorghi vorticosi,
Fissa gli sguardi, ansioso, nel bieco fortunale
Verso il chiarore incerto del provvido fanale,
Così noi pur nell’ansia, del battagliar febbrile
Contro lo sfruttamento e la violenza vile,
La tremula pupilla lontan figgiamo ognora
Ove dell’avvenire già spunta in ciel l’aurora.
(breve pausa) Noi non cerchiam l’applauso del pubblico elegante,
Che vive del sudore del popol dolorante,
Né ci conturba punto la stupida insolenza,
Del critico che vende... la penna e la coscienza...
Noi combattiam con l’arte, di verità sovrana,
La tragica epopea della giustizia umana,
Stillando nelle vene dei fiacchi e degli imbelli,
Le generose audacie dei forti e dei ribelli.
E in questa latta immane di redenzion sociale
Ci è sol conforto e guida la scienza e l’ideale,
Ci è sol compenso e premio l’apostrofe brutale
E la violenza cinica del codice penale...
E mentre gli assassini del popolo affamato
E gli svaligiatori delle banche di stato,
Son fatti cavalieri con decreto speciale
Per volontà suprema del vampiro regale,
Noi, che vogliamo assurgere al sogno redentore
Di libertà e giustizia, di fratellanza e amore,
Siamo bersaglio all’odio dei birri e dei potenti
E spesso imprigionati siccome malviventi.
Così la legge impone, la legge dei signori,
Contro il diritto sacro di noi lavoratori,
Contro la voce libera della giustizia umana
Che trionfar dovrebbe tra gli uomini sovrana.
Ma contro questa legge iniqua, infame, odiosa,
La tempesta sociale già rugge minacciosa
E squassa, quale raffica del turbo aquilonare,
La duplice tirannide del trono e dell’altare...
È la fatal crociata di tutti i derelitti
Per la final conquista di più giusti diritti,
La gran tragedia umana degli odi invan repressi
A furia di manette, a furia di processi...
Ma noi combatteremo la gran battaglia ardita
In nome della plebe oppressa ed asservita,
Sinché, redenti i popoli a nuova civiltà,
Unica legge al mondo sarà la Libertà!

 

Vigilia d'importanti avvenimenti
di Ausonio Zuliani

ARTURO (entrando) – Buona sera, compagni.
(evitando Gino, stringe la mano ad Armida e fa una carezza ad Anita).
ARMlDA (lo prende per mano) – Buon Arturo ascoltami. Noi siamo forse alla vigilia d’importanti avvenimenti che richiedono fermezza e solidarietà. Di fronte alla brutalità dei nostri aguzzini noi dobbiamo unirci in un fascio concorde e deciso onde servire d’esempio alla folla irrequieta, che attende da noi la scintilla annunziatrice della prossima bufera. (comprendendo col gesto il pubblico) Per la causa di tutti e d’ognuno, per il bene dei nostri fratelli derelitti e schiavi, noi dobbiamo dare una prova della nostra serietà, della nostra volontà, della nostra forza. Che i piccoli rancori tacciano di fronte all’ira nemica. Tregua ai ripicchi, alle beghe personali. Nell’ora tragica e solenne sappiamo essere compagni e fratelli; un solo corpo ed una sola coscienza. (l’attira presso Gino, indi unendo le loro mani) Per la schiera innumere dei senza pane, per le vittime oscure della reazione che nelle carceri soffrono per la colpa sublime d’aver amati i deboli... dimenticate il passato e ritornate amici.
Arturo e Gino si abbracciano
(rombo prolungato di tuono)
ANITA – Dunque, Arturo, che novità ci rechi?
ARTURO – Vengo dalla sede del Gruppo Socialista e non ho potuto informarmi di ciò che avvenne nelle ultime ore.
ANITA – Ma, insomma, i compagni non sapevano nulla?
ARTURO – Alle quattro la situazione era, su per giù quella di stamane. Le vie e le piazze erano animatissime. S’è fatta una dimostrazione di simpatia davanti alla caserma degli alpini che si rifiutarono di obbedire ai comandi al canto dell’Internazionale.
GINO – Bravi, perdio; se si comincia così siamo a buon punto.
ANITA – Lo dicevo io che gli alpini non impugnerebbero i fucili contro i loro fratelli!
ARTURO – La propaganda d’Ermete comincia a dare i suoi frutti. (come scoraggiato, con breve pausa) Però non bisogna illudersi troppo... In paese corron le voci che stia per giungere un reggimento di fanteria...
GINO (scattando) – Non dovevano scioperare i ferrovieri?
ARTURO (con gesto significativo) – Avevano promesso, ma non se ne fece nulla. Certe abitudini non si perdono così presto!
ARMIDA (dopo breve riflessione, a Gino) – Temo che la faccenda si faccia seria; se giungono i soldati siamo bell’e spacciati! I lavoratori non sono preparati ad una simile eventualità. Non possiedono né fucili né altri mezzi persuasivi da opporre al nemico!
ARTURO (incoraggiandola) – Non bisogna però, disperare. Se lo sciopero generale perdurerà dovranno pur cedere lor signori! Siamo noi i produttori e se le nostre braccia riposano non sapranno che cosa mangiare.
ARMIDA – Sono illusioni, caro mio! Con l’educazione che hanno ricevuta i lavoratori in questi ultimi trent’anni di propaganda legalitaria, sarebbero essi i primi a subire i tristi effetti d’uno sciopero generale. I ricchi troverebbero sempre il mezzo di procurarsi il necessario alla vita. Bisognerebbe che gli operai fossero risoluti a saccheggiare i magazzini, ma col rispetto che hanno per la proprietà difficile spingerveli.
ARTURO – Apriranno bene gli occhi, una volta o l’altra!
ANITA (dopo breve pausa) – Arturo, non ci hai ancora detto che cosa avete deciso nella vostra riunione.
ARMIDA – A proposito, che pensano di fare i tuoi compagni?
GINO (ironico) – Diavolo, non è difficile indovinarlo… Avranno certo votato… un ordine del giorno di protesta!
ARTURO – No, caro Gino, i giovani socialisti han fatto tesoro della propaganda d’Ermete, dei sacrifici generosi di tanti martiri, della dolorosa esperienza di questi ultimi anni di battaglie; e si sono schierati, senza reticenze e senza ipocrisie al vostro fianco, pronti a qualunque evento per la difesa della libertà.

Tratto da: Ausonio Zuliani, Tempeste Sociali, La Spezia 1915.

 

Un mondo nuovo
di Umberto Postiglione

ENZO – Che vuoi che ti dica… Avrei tante cose da dirti che non so da dove cominciare. Ho visto un mondo nuovo… ecco tutto!
LINA (ridendo) – Hi… hi… hi!… Come le dici grosse! Un mondo nuovo a poche miglia di qui… e in una settimana?…
ENZO (con convinzione) – Si capisce… un mondo nuovo. Quegli amici che ho incontrati laggiù sai… mi hanno aperto gli occhi.
LINA – E che forse, prima, li avevi chiusi?
ENZO (vivamente) – Proprio così… Li avevo chiusi, come li hai tu e tanti altri lavoratori che seguitano a crepar di fatica e di fame biascicando avemarie e paternostri.
LINA – Ma cosa ti gira per la testa, Enzo?… Che… t’hanno stregato, forse?
ENZO – Già, già… stregato! Altro che stregato!… Ho visto in un’ora, quello che in tutta la mia vita non ho mai visto.
LINA (incuriosita) – Ma si può sapere cosa hai visto?…
ENZO – Ecco, cosa ho visto… L’altra sera a Black Dimond capitai a caso in una sala attrattovi dalla voce di una persona che parlava ad un gruppo di minatori. Mi par di udirla ancora adesso quella voce… E quelle parole mi sono scese giù nel fondo dell’animo… Ma vedi… non so ridirle, ché altrimenti le andrei ripetendo per tutto il mondo!
LINA (c. s.) – E che diceva, dunque, colui che parlava?
ENZO – Che diceva?… Parole d’oro, Lina mia, parole d’oro! Quando entrai, parlava della vita dei minatori, della nostra fatica bestiale, dei pericoli a cui ci esponiamo… Sai come chiamava i minatori?… Talpe umane, li chiamava… Proprio così, perdio! Come le talpe siamo noi… Viviamo sottoterra ed una frana di roccia può da un momento all’altro seppellirci, senza l’ultimo bacio della mamma… della sposa… Talpe umane!… (breve pausa. Resta pensieroso, poi avvicinandosi a Lina e mettendole le mani al collo) E di voi parlò, Lina… delle nostre donne!… Ah, quando disse che molte donne affrante dai patimenti, minacciate dalla fame… son costrette a darsi al boss perché mantenga al lavoro il marito… (Lina singhiozza). – Lina, tu piangi?… Oh… piangevo anch’io a sentir quel giovane… Aveva le lagrime agli occhi anche lui. (Breve pausa). Sai Lina, fu tanta l’impressione che quelle parole mi lasciarono, che rimasi lì come incantato. Pensavo a te, Lina,… Ti vedevo, qui, sola… senza un soldo… spaurita. Immaginavo che qualcuno, approfittando della mia assenza, avesse potuto assalirti… ingannarti. Le tempie mi martellavano… Il sangue mi bruciava… Avrei voluto tornare subito qui… volare… e prendere per il collo il boss... quell’infame che m’ha costretto a separarmi da te, e... sgozzarlo come si sgozza un pollo…

 

“Mi hai tolto il pane”
di Umberto Postiglione

ENZO (sprezzevole) – Enzo, sì… Non te l’aspettavi, eh? Lo avevi tirato bene il tranello. Ma ora nella rete ci sei tu, miserabile. E non ne uscirai liscio, credi a me. (Breve pausa). Tu mi hai tolto il pane... e poi volevi togliermi anche l’amore. Ho pur io ragione di toglierti la tua vitaccia incarognita?
TONIO (spaventato e tutto umile) – Enzo... in nome di dio, perdonami!
ENZO – In nome di dio?… In nome di dio ci derubate e ci affamate... in nome di dio ci uccidete come cani per le strade... in nome di dio ci massacrate nelle guerre... in nome di dio ci prendete tutto e ci negate ogni cosa… Ed è infine in nome di dio che voi vorreste che ci rassegnassimo a tutte le vostre infamie! Ah… no davvero!
TONIO (c. s.) – Pietà di me, Enzo, perdonami!
ENZO – Pietà?… Ed avesti tu pietà di questa donna che ti supplicava di lasciarla in pace?... Dovrei dunque aver pietà di te, io? Oh... no! Sarei un vile! Non ti bastava togliermi il pane, sei venuto a rubarmi anche l’amore e vorresti che io ti lasciassi impunito?... Tu, che ti sei appostato come un falco per afferrare la preda quando fosse sola!... (risovvenendosi) Ah, i falchi... laggiù nei vecchi paesi!... Ricordi, Lina?… Quando un contadino ammazzava un falco, lo inchiodava sulla porta di casa per dare esempio agli altri. (Cieco dall’ira) L’accetta, l’accetta!... (va in giro per la camera cercando l’accetta). Dov’è l’accetta ?... (la trova nell’angolo della porta, la impugna e dirigendosi minaccioso verso Tonio, atterrito, in atto di colpirlo) Voglio spiccargli la testa dal busto al miserabile ed inchiodarla sulla bocca della mina come s’inchiodano i falchi!

Tratto da: Umberto Postiglione, Come i falchi, Philadelphia, 1939.

Fannulloni accaparratori
di Tomaso Concordia

DOTTORE – Povere vittime di un sistema barbaro, d’una società ingiusta e sragionevole! Voi siete dei veri martiri, i martiri del lavoro! (verso il pubblico) E si osa dire che viviamo in piena civiltà, nel secolo del progresso e delle più miracolose scoperte… Povera civiltà! Inutili o vane scoperte! (avanzandosi verso il pubblico, con forza) Possiamo chiamarci civili, noi che permettiamo che la grande maggioranza degli uomini soffra ogni sorta di miseria e muoia di fame, dopo essersi logorata la salute lavorando come bestie mentre un pugno di fannulloni, perché accaparratori del prodotto dei primi, gozzovigliano senza tregua nei banchetti e nei festini, e muoiono sovente... d’indigestione? (dopo un istante di pausa) A che valgono tutte le miracolose scoperte dei nostri signori scienziati? A profitto di chi si realizza il progresso dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, delle scienze, ecc. ecc.? Il frutto di tutte le ricerche scientifiche non è forse a totale vantaggio di chi tutto possiede; ed i miserabili, i diseredati, i dannati al lavoro irredento non sono ancora oppressi dal giogo religioso capitalista ed autoritario? Fra gli splendori di tutte le grandi scoperte, fra il lusso, l’abbondanza, l’arte raffinata, la letteratura utile e educativa e tutto ciò che costituisce la ricchezza sociale, ma proprietà di un’infima minoranza di uomini rinchiusi in un gretto conservatorismo, non vediamo dibattersi milioni, diecine di milioni, centinaia di milioni, la quasi totalità degli uomini in una terribile cerchia della moderna schiavitù, uguale a quella dei popoli barbari, ma forse ben più crudele di quella? (con forza) Sì! è una vergognosa farsa quella rappresentata dai signori scienziati, finché una società ingiusta come la nostra, non permetterà che tutti gli uomini godano i frutti del lavoro, dell’arte e del sapere umano!… (con largo gesto, indicando se ed il pubblico) Ma se vogliamo essere sinceri, perdio! bisognerà, ben gridar forte: noi siamo tutti dei malati di mente o delle perfette canaglie; perché, se fossimo ragionevoli, non dovremmo permettere che tanti milioni e miliardi e tante energie materiali ed intellettuali siano sprecate per l’opera incivile dell’oppressione, dello sfruttamento e della distruzione umana, costringendo i produttori della ricchezza sociale a vegetare nell’ignoranza, nella superstizione, nell’… – e perché non dirlo? – nello stato bestiale! L’intelligenza, il sapere, il coraggio, il valore e… e tutto quanto costituisce la parte migliore dell’umanità, oggi, nella società irragionevole, vengono adoperate per creare, inventare, scoprire cose se non inutili, certamente non urgentissime, quali: le scoperte chimiche, i dirigibili, l’aviazione, le scoperte dei poli, ecc. ecc., mentre quasi nessuno studia e lavora per scoprire il mezzo di affratellare gli uomini, mediante la messa a disposizione di tutti i viventi di: pane, casa, libri, ecc. E la medicina, a che cosa serve? Ad arricchire coloro che di questa ne han fatto un commercio! Altro che medicine dobbiamo somministrare agli uomini! Bisogna metterli in condizioni economiche tali da poter combattere il male.
Si diano agli uomini cibi sani ed abbondanti, abitazioni comode, gaie, inondate di luce e accarezzate dai benefici raggi del sole, un’istruzione razionale ed un’educazione sociale; e allora i nove decimi dei mali travaglianti quasi interamente l’umanità, scompariranno, essendone scomparse le cause che li produssero... Ma così non si fa... perciò posso gridare forte: che una società che non studia i mezzi necessari per rendere felice tutti i suoi membri, la si può paragonare ad un’associazione di delinquenti, una cloaca di malviventi, od un circo di pazzi! Mentre la loro società permette che la tubercolosi, la pellagra, la malaria, l’anemia, il rachitismo e tantissimi altri mali mietano milioni e milioni di uomini, privi dei mezzi più elementari di difesa: cibi ed igiene; mentre i dirigenti trovano normale, giusto e logico che milioni di diseredati siano falciati dalla morte imperante nelle miniere, nelle zolfatare, nelle tetre officine, nelle malsane risaie ed in ogni luogo dove si lavora come bestie, la gente cosiddetta per bene, i signori del cosiddetto ordine, gl’imbecilli chiamano malfattori i generosi pionieri di un’Era nuova, i combattenti disinteressati pel bene sociale, gli apostoli della rigenerazione umana, i martiri che sanno lottare e morire per l’avvento di una società di liberi, di uguali e di amore vero! (osservando melanconicamente la camera) Ecco l’abitazione del povero ed avvilito risaiuolo! Confrontatela alle regge, al Vaticano, ai sontuosi palazzi dei ricchi: e poi negate, negate sfacciatamente che la questione sociale è una invenzione di menti esaltate, di gente squilibrata... (Facendo alcuni passi colle braccia incrociate, cupo) Quanta squallidezza !... Qui è necessario soccorrere questi infelici… (ponendo qualche moneta sul tavolino) Queste, buona Giovanna, serviranno per comperare ciò che sarà più urgente... Non rifiutate, ve ne prego... Mi addolora di non poter far di più pel momento...

 

“Colle gambe nude”
di Tomaso Concordia

LORENZO – Dunque, parroco, ora andiamo a visitare i miei campi, le risaie e il lavoro della trebbiatura sull’aia… Vedrai a che bello spettacolo ti farò assistere!… E le belle mondine?... Le vedrai, Le vedrai! Son circa duecento, quasi tutte giovanette... ve ne sono di quelle che sembrano ancora bambine, che madonnine!... Oh! le vedrai colle gambe nude, curve, nella risaia... che po’ po’ di gambe!... Andiamo, vieni!
DON CRISTOFORO, ridendo beatamente – Non c’è male! non c’è male! Dopo aver ben mangiato e ben bevuto, una buona passeggiatina all’aria libera dei campi, sotto i folti alberi, ad osservare le belle risaiuole intente a mondare il riso, non farà mica poi male!… (ridendo sempre più). Ma bravo! ma bravo, caro Lorenzo! si vede che sei un uomo giudizioso, tu! Ma si! andiamo a vedere i tuoi uomini… pardon!… le tue belle e graziose donne. (Con largo gesto). Oh! il lavoro!... solo esso rende felice chi lo compie! (Con una certa serietà). V’è al mondo uomo più contento del lavoratore… onesto, s’intende? Per lui la vita trascorre lieta e tranquilla.
LORENZO, un po’ grave – Eh! Caro mio… una volta era così! ma oggi!… oggi con tutti i partiti avanzati e con tutte le mene pazzesche dei rivoluzionari, i contadini del Vercellese – che un tempo erano così docili, così pazienti, così presto contenti di quel poco che lor si offriva in cambio del lavoro – ora non son più quelli... sono in continue agitazioni, odiano il padrone e dicono apertamente che non saranno mai contenti fin che non li avranno espropriati!… Dacché è venuto quell’anarchico Zavattero a parlare sulla pubblica piazza contro i detentori della ricchezza ed in favore della messa in comune delle terre, a profitto dei produttori, i nostri contadini si son montato il capo!… parlano sul serio di fare l’uguaglianza...
DON CRISTOFORO, con fine malizia – Dimentichi, però, che il prete esiste non per nulla… Difatti, non puoi negare che, col nostro confessionale dal pulpito, noi lavoriamo abbastanza bene per impedire che i lavoratori ascoltino questi arrabbiati rivoluzionari, e si accordino e si associno... Capirai, caro Lorenzo, noi conosciamo molto i loro difetti e, soprattutto, la debolezza delle donne... È nostro dovere, di buoni ministri di Dio, di coltivare questi gentili esseri deboli! Così facendo riusciamo ad ottenere questo: la donna reagisce con tutti i mezzi, non esclusa l’astuzia, contro le idee abominevoli del marito, contro lo spirito ribelle del fratello, contro il malcontento ognor crescente dell’amante... Lascia fare ai preti, Lorenzo mio! e non dimenticare il giusto proverbio popolare: «Il prete, colla paura dell’inferno, ed il carabiniere, colle manette, mantengono i poveri nella quiete». (ridendo a crepapancia) Ah! Ah!... Si vede che non sei ancor abbastanza furbo, tu!... Se ti spaventi del chiasso che fanno i socialisti e gli anarchici – poiché per ora, altro non è che fuoco di paglia – ti dimostri poco intelligente e meno chiaroveggente...

 

“Son perduto”
di Tomaso Concordia

BRIGADIERE, bussando alla porta – Non mi son sbagliato, è qui… Aprite!
TOMASO, di soprassalto – Eccoli!… Son perduto!
BRIGADIERE – Tomaso, aprite!
TOMASO, energico – Aprire? No! La pecora non va da sola nella bocca del lupo.
BRIGADIERE, arrogante – In nome della legge, aprite!
TOMASO, sarcastico e energico – Sempre in nome della legge!... La legge... Ma voi lo sapete che la vostra legge e iniqua e barbara!… È la vostra legge che condanna alla miseria milioni di lavoratori!... È la vostra legge, che voi sciagurati difendete, che spinge alla disperazione milioni e milioni di affamati, in mezzo all’abbondanza ed il lusso (con forza). In nome della legge! Ah, iene in sembianze umane!… La legge che voi difendete col fucile e le manette, è criminale, perché è fatta apposta per proteggere i potenti; mentre calpesta ed uccide i deboli! (Esclama). Mio padre e mia madre furono assassinate perché esistono le leggi infami in difesa dei ricchi e dei potenti… Ed è in nome di queste inique leggi che ora si vorrebbe arrestare, per far morir lentamente in una galera qualunque, l’uomo che ragiona, che ha palpiti generosi, che sogna un avvenire di pace e di giustizia, e combatte per la redenzione dei proletari... La vostra legge, dopo avere assassinati i genitori, vuol sopprimere l’orfano, il ribelle, il giustiziere. Vili!
BRIGADIERE, furioso – In nome della legge, aprite, o abbatteremo la porta!
TOMASO, commosso – Genitori miei, perdonatemi (Rivolto al Brigadiere, con forza). La vostra legge non vi farà raccogliere che un cadavere! (Estrae la rivoltella e si spara un colpo nella testa. Cade al suolo gridando:) Viva la rivoluzione socia...
La porta viene abbattuta, Brigadiere e carabinieri entrano colla rivoltella in pugno.
CARABINIERI, vedendo il cadavere – È morto!
BRIGADIERE, indifferente – Meglio così!
PIETRO, di fuori – Cos’è successo! Cos’è successo!
Entra e vedendo il cadavere si getta in ginocchio, lo abbraccia e lo bacia ripetutamente sulla fronte. Poscia, rialzandosi lentamente, si copre il viso colle mani e fra i singhiozzi, esclama:
Hanno ucciso anche il figlio!
BRIGADIERE – No. Il miserabile s’è fatta giustizia lui stesso. (Sogghignando). Tanto di guadagnato pel comune e pel governo!
PIETRO, grave, commosso, ma con energia – Ma la sua dolorosa storia registrerà un’altra vittima di questa barbara società!

Tratto da: Tomaso Concordia, Lo sciopero dei risaiuoli, Genova, 1920.