rivista anarchica
anno 34 n. 299
maggio 2004


Iraq

Tutti contro tutti
di Antonio Cardella

 

Sui danni provocati alla stabilità mondiale dal texano dagli occhi bovini e dalla sua corte.

Per misurare in ampiezza e profondità i danni provocati alla stabilità mondiale dal texano dagli occhi bovini e dalla sua corte, basta sfogliare giorno dopo giorno i giornali e scorrere le immagini delle televisioni. Appare sempre più chiaro che gli attentati, le ritorsioni, i sabotaggi e gli attacchi mirati esulano sempre di più dalle logiche di conflitti circoscrivibili in territori specifici, per assumere le dimensioni di una grande e unica guerra di tutti contro tutti che si sviluppa su piani diversi e trasversali.

Rozza concezione

All’inizio del conflitto iracheno, avevo scritto su questa stessa rivista che la destabilizzazione del mondo arabo che sarebbe derivata dalle operazioni belliche avrebbe provocato un effetto domino molto diverso da quello che si aspettava la Casa Bianca, la cui rozza concezione della esportabilità della forma democratica occidentale in un mondo così diverso come quello mediorientale, e per di più con l’uso delle armi, avrebbe invece compattato l’intero mondo arabo contro l’Occidente, con conseguenze catastrofiche. Non era una previsione difficile e si basava sulla conoscenza diretta, anche se saltuaria, dei luoghi e delle popolazioni oltre che delle condizioni specifiche dei singoli territori, certamente gestiti e strumentalizzati dall’occidente con governi fantocci, il più delle volte inaffidabili, ma con tessuti sociali, etnici e religiosi assai coesi, tra loro spesso in conflitto ma sempre pronti a scendere in campo compatti per difendere la loro identità. A noi che stiamo perdendo la nostra sembra un delirio, appare insensato che uomini altrimenti pacifici, per poter conservare le loro tradizioni e per essere lasciati liberi di progettare un loro modello di sviluppo, basato sull’uso delle loro risorse, possano abbandonare le loro case e i loro paesi per combattere una battaglia che ritengono vitale. Perché questo è l’aspetto più singolare e preoccupante del conflitto: governi timidi, indecisi, preoccupati di venire deposti o attaccati dalla più grande potenza mondiale vedono i loro concittadini affluire in quelle che, con terminologia semplicistica e consolatoria, sono definite le brigate del terrore (semplicistica perché si fa di tutta un’erba un fascio, si mettono insieme la resistenza irachena o quella palestinese con la rete di Bin Laden; consolatoria perché si coltiva l’illusione che assimilando ogni forma di opposizione armata all’ideologia del terrorismo, si possa ridurre tutto ad un problema di ordine pubblico internazionale, occultando le vere cause che sono alla base degli attuali sommovimenti).

Conflitti trasversali

Ma la rottura di equilibri già precari provocati dalla guerra in Iraq, come dicevamo all’inizio, sta determinando conflitti trasversali che destabilizzano lo stesso schieramento occidentale. Ormai il dilemma guerra sì o guerra no è largamente superato dal fatto del tutto evidente che la guerra c’è stata. Solo che troppo ottimisticamente la si è dichiarata conclusa vittoriosamente per le armi della coalizione, mentre la realtà delle cose ci dice che non solo le armi non tacciono ma che l’aver voluto risolvere con l’intervento armato il problema Saddam Hussein ha determinato lo scatenarsi di conflitti sopiti oltre che un diffuso senso di insicurezza e paura nell’intera regione. Perché è bene non farsi illusioni: se il disegno coltivato dall’Occidente è quello di istituire in Medio Oriente nuove forme di protettorato, la prospettiva è quella di veder moltiplicata per quanti sono i paesi della regione la situazione che si vive attualmente in Iraq. Storicamente lo hanno già sperimentato gli inglesi che, in poco più di un cinquantennio di permanenza in quei territori, hanno dovuto contare 85 mila morti, e si era, in quelle plaghe, nell’era dell’arco e delle frecce o poco oltre, del nomadismo diffuso e delle istituzioni indigene evanescenti.
Vi era inoltre un’indifferenza diffusa sulla sorte di quelle popolazioni e il giuoco delle maggiori potenze europee era solo di carattere egemonico e strategico-militare. Nulla a che vedere con gli interessi concreti di natura economica e di assoggettamento politico che muovono oggi le forze trainanti della globalizzazione. Le quali, però, proprio perché ubbidiscono alla logica del mercato e della competizione, mostrano di avere interessi non propriamente coincidenti. Torniamo così, esemplarmente, all’Iraq dei nostri giorni ed ai contrasti occulti e manifesti che agitano lo schieramento occidentale.
Le divergenze tra Europa e Stati Uniti sul futuro dell’Iraq riguardano o, per lo meno, si dice che riguardino, aspetti di legittimità internazionale che l’intervento unilaterale della coalizione angloamericana avrebbe posti e che ancora adesso appaiono irrisolti. Si chiede quindi che, andata com’è andata l’avventura bellica irachena, si ritorni all’ONU, togliendo agli USA l’arbitrio di decidere il futuro del paese medio orientale. Ratificata la falsità delle motivazioni che erano state addotte per legittimare la guerra, si evidenziano le ragioni vere dell’intervento alle quali si è dato coerentemente seguito, disegnando un progetto di privatizzazione del territorio affidato alle lobby economiche statunitensi.
Qualche cifra e alcune annotazioni pertinenti servono a chiarire la situazione.
Il piano di intervento degli USA per il 2004/2005 prevede lo stanziamento di circa 18,7 miliardi di dollari così destinati: 5,56 miliardi nel settore elettrico, 4,56 miliardi, sicurezza e giustizia, 4,307 miliardi sistema idrico, 500 milioni trasporti e telecomunicazioni, 1,89 miliardi petrolio,790 milioni edilizia e sanità, 1,046 infrastrutture: totale 18,646 miliardi. I destinatari veri di questi soldi sono oltre alla Halliburton di Richard Cheney, vice presidente degli Stati Uniti, la Bechtel Group, per la quale avevano lavorato George Schultz e Gaspar Weinberger, rispettivamente segretario di stato e ministro della difesa del governo Reagan, la Parsons Corp, la Louis Berger Group, la Fluor Group e la Washington Group, tutte aziende che avevano finanziato la campagna repubblicana per l’elezione di George Bush per un totale di 2,8 miliardi di dollari. Naturalmente queste aziende costituiscono le capofila dell’operazione ricostruzione dell’Iraq e potranno subappaltare i lavori a imprese estere, ma solo di quei paesi che non si siano mostrati ostili alla guerra. L’ufficio preposto all’assegnazione, supervisione e gestione dei contratti sarà il PMO (Program Management Office) diretto dall’ammiraglio David Nash, affiancato da due vice, di cui uno iracheno.

Strumento di pressione

Trattandosi di stanziamenti annuali, i contratti di subappalto avranno identica durata e sarà discrezionalità delle aziende capofila americane rinnovarle o meno, il che potrà dipendere certamente dal grado di efficienza delle aziende subappaltatrici, ma potrà pure trasformarsi in strumento di pressione politica per discriminare di volta in volta quei paesi che sono riluttanti ad allinearsi pedissequamente alle posizioni statunitensi.
E ancora. Si valuta che per riportare ad una efficienza adeguata il complesso dei servizi pubblici iracheni, occorreranno dai 50 ai 70 miliardi di dollari e almeno sei/sette anni di lavoro. Pertanto, almeno per tale lasso di tempo, la vita economica e sociale dell’Iraq sarà interamente nelle mani dell’amministrazione americana. Se si considera poi che la parte più consistente degli stanziamenti deriverà dalla commercializzazione del petrolio iracheno e che tale commercializzazione avrà come tramiti prevalentemente la Exxon Mobil e la Shell (Russia e Francia attendono di conoscere la sorte delle concessioni ottenute da Saddam Hussein) si vedrà come anche le risorse energetiche di quel territorio saranno privatizzate e sottratte alla gestione dell’eventuale governo autonomo che dovesse insediarsi dopo il fatidico 30 giugno 2004.
Stabilite queste premesse resta da capire di cosa mai vanno cianciando i vari politici europei quando invocano il ritorno dell’ONU in Iraq. Ammesso, per un giuoco dell’assurdo, che Bush vada fuori di testa e ceda il maltolto, non si capisce con quali mezzi e quale credibilità politica le Nazioni Unite possano sostituirsi a questo imponente apparato economico-organizzativo messo in campo dall’amministrazione americana. Rischiano invece di occultare, con una copertura politica che renda possibile la partecipazione all’impresa di nazioni che sinora se ne sono chiamate fuori, l’effettiva colonizzazione della regione.

Guerra non ancora conclusa

Certo non tutto fila per il verso giusto. Per il momento il territorio non è praticabile per le imprese che dovrebbero ricostruirne le funzioni essenziali. La guerra è ben lungi dall’essersi conclusa e l’opposizione all’occupazione angloamericana ha anzi elevato i toni della resistenza. Anche dal punto di vista dell’assetto politico interno, il governo provvisorio è contestato dalla maggioranza sciita e non si vede come possa avviare il paese ad una qualsiasi normalizzazione. In questa situazione è difficile ipotizzare persino l’inizio di lavori, che, per la loro vastità e complessità, richiedono livelli di sicurezza assai costosi (è significativo che alla voce “sicurezza e giustizia” sia destinato lo stanziamento più consistente dopo quello previsto per il settore elettrico). Poi c’è la questione del petrolio: prima della guerra i malandati pozzi petroliferi iracheni producevano 2,5 milioni di barili al giorno. Oggi quale sia la loro reale capacità produttiva è difficile da sapere. Secondo fonti americane nel 2003 dal petrolio iracheno si è avuto un controvalore di circa 3 miliardi di dollari, nulla in confronto ai costi della ricostruzione. E per elevare la produzione a 4/5 milioni di barili, sempre secondo previsioni americane, occorrono cinque o sei anni di lavoro e costi altissimi che è persino difficile valutare con adeguata approssimazione, anche perché continuano i sabotaggi.
Infine ci sono gli inghippi di competizione internazionale. È infatti difficile che i paesi più industrializzati dell’Occidente si rassegnino ad avere un ruolo marginale nella colonizzazione (perché di questo si tratta) della regione. Ci sono implicazioni di natura geopolitica nel disegno espansionistico del Pentagono che non possono lasciare indifferenti Francia, Germania, Russia e persino India e Cina, per citare solo i principali interlocutori attuali degli Stati Uniti.
È prevedibile, quindi, che qualcosa nel prossimo futuro cambi. Ma finché i popoli non si svegliano, i movimenti di contestazione non si chiariscono le idee e scelgono una strategia d’intervento adeguata, c’è il rischio concreto che il superamento dei conflitti interni che agitano i governi dell’Occidente avvenga congiunturalmente all’insegna della spartizione. Come di consueto!

Antonio Cardella