rivista anarchica
anno 34 n. 299
maggio 2004


 

Ricordando Valerio Cacucci

Sabato, 13 marzo 2004, mio padre ha smesso di soffrire, al termine di una lunga malattia. Sento di dovere molto anche a lui, per i miei ideali libertari. A lui, metalmeccanico della Fit Ferrotubi di Sestri, che si sdraiava sui binari all’ennesima cassa integrazione, i carabinieri a dirgli “Cacucci, guarda che stavolta ti arrestiamo...”, fino al licenziamento per chiusura da neoliberismo, sconfitto tutta la vita ma mai vinto.

Valerio Cacucci

Voglio raccontarvi un pezzetto di storia paterna.
Il 2 dicembre 1943 mio padre Valerio aveva 15 anni e si trovava nel porto di Bari, dove faceva il garzone di bottega per un barbiere. Il contrattacco tedesco colpì varie navi statunitensi alla fonda. Tra queste, la John Harvey, carica di migliaia di bombe all’iprite.
Gli Usa non hanno mai dato spiegazioni del loro crimine di guerra, bombe all’iprite messe al bando dalla convenzione di Ginevra fin dal 1925. Nessuno poteva saperlo. Migliaia di morti per le esalazioni e le ustioni. Mio padre, come tutti, si mise ad aiutare a tirare fuori i soldati e i pescatori da quella melma di nafta e iprite.
La pelle dei feriti si staccava a brandelli, e toccandone i panni, ci si ustionava le mani. Chissà come ha fatto il mio vecchio – ragazzo – a sopravvivere. Ci ha rimediato problemi alla pelle incurabili, e un enfisema polmonare. 75 anni. Meno 15, come dire che i successivi 60 sono stati un regalo dell’iprite che lo risparmiò, come pochi altri, grazie solo al vento forte da ponente a levante che spostò in mare i fumi delle esplosioni.
Ancor oggi molti di quegli ordigni giacciono in fondo all’Adriatico pugliese, sparpagliati da un criminoso tentativo dello stato italiano di occultare la questione, rigettando al largo tutte le bombe recuperate nella rada. L’ultimo caso di pescatore che tirando a bordo le reti si è ustionato mani e braccia risale a non molto tempo fa... e ne hanno registrato almeno 250 dal ’43 a oggi.
Fino a qualche anno fa me lo raccontava ancora, quel giorno di inferno nel porto di Bari, il 2 dicembre del 1943. Io sono nato l’8 dicembre e lui era nato il 15 dicembre. Un mese fatidico, in famiglia. Il mese che lo vide restare vivo a dispetto dell’orrore.
In fondo, è anche per narrare la storia dei dimenticati come lui, che hanno fatto “del proprio meglio” nei momenti di tragedia, che scrivo i libri che scrivo.
Vi abbraccio forte

Pino Cacucci

 

 

Convegno su Malatesta a Livorno

Organizzato dalla Federazione Anarchica Livornese (aderente alla FAI), sabato 6 marzo 2004 si è svolto a Livorno un Convegno su “Anarchia e movimento operaio. L’azione e la riflessione di Errico Malatesta a 150 anni dalla nascita”. Come è noto, nell’arco degli ultimi mesi l’anniversario della nascita di Malatesta (S. Maria Capua Vetere, 4 dicembre 1853 – Roma, 22 luglio 1932) ha costituito l’occasione per una serie di iniziative editoriali e di incontri che hanno interessato diverse città italiane. La giornata di studi di Livorno si colloca all’interno di questo ciclo di iniziative, caratterizzandosi peraltro per un taglio suo proprio originale. La scelta degli organizzatori, come ha chiarito nella sua breve introduzione Tiziano Antonelli a nome della FAL, è stata infatti quella di concentrare l’attenzione su un tema specifico ma di grande rilevanza, quale è quello dell’influenza di Malatesta sul movimento operaio, analizzato sotto il duplice profilo della riflessione teorica e della ricostruzione storiografica di alcuni aspetti e momenti tra i più significativi.
La relazione introduttiva (Errico Malatesta e il movimento anarchico tra speranze rivoluzionarie e sconfitte del movimento dei lavoratori) è stata affidata a Giampietro “Nico” Berti, autore di una recente monumentale biografia del più famoso anarchico italiano. Richiamandosi esplicitamente ad alcuni temi trattati nella sua monografia, Berti ha sottolineato come in tutta la lunga vita di Malatesta esista un nesso inscindibile – di derivazione mazziniana – tra pensiero e azione. Studiare Malatesta vuol dire essenzialmente confrontarsi con tutti i tentativi di dare vita a una rivoluzione socialista in Italia, dai moti internazionalisti del 1874 e 1877 (che si innestano in una tradizione risorgimentale mazziniana e pisacaniana) ai tentativi insurrezionali dell’ultimo decennio dell’Ottocento, dalla “Settimana rossa” del giugno 1914 fino al “Biennio rosso” (1919-20) nel primo dopoguerra. In riferimento soprattutto a quest’ultimo periodo, Berti ha mosso una dura critica all’inconcludenza dei socialisti massimalisti, che proclamando in continuazione la loro volontà di fare una rivoluzione senza mai effettivamente prepararla e realizzarla, ottennero il solo risultato di spaventare la borghesia favorendo così l’avvento al potere del fascismo. Molto più concreta appare in confronto l’azione sviluppata in quel periodo da Malatesta e dagli anarchici, rivoluzionari sul serio ma minoritari e consapevoli della impossibilità di dare avvio al processo rivoluzionario senza la partecipazione delle masse orientate dal PSI.

All'epoca della Prima Internazionale

La settimana rossa
Roberto Giulianelli (La Camera del Lavoro di Ancona) ha ricostruito brillantemente i rapporti tra Malatesta, gli anarchici e il movimento operaio nel capoluogo marchigiano. L’arrivo del rivoluzionario campano ad Ancona nei primi mesi del 1897 galvanizza il movimento libertario locale (in poco tempo nascono decine di gruppi) e lo orienta su posizioni organizzatrici. L’influenza malatestiana sul movimento anconetano si rivelerà profonda e duratura. Coadiuvato da alcuni compagni e collaboratori di notevole spessore (Cesare Agostinelli, Adelmo Smorti, Rodolfo Felicioli, Emidio Recchioni e altri), Malatesta dà vita al settimanale “L’Agitazione” che proseguirà per qualche anno anche dopo il suo arresto nel 1898. L’appello di Malatesta affinché gli anarchici ritornino ad occuparsi delle condizioni dei lavoratori viene raccolto in ambito locale, e i libertari partecipano alla fondazione nel 1900 della Camera del Lavoro di Ancona, alternandosi con i repubblicani per i primi anni alla sua direzione, prima che subentrino i sindacalisti rivoluzionari. Autonome resteranno le leghe mezzadrili della provincia, egemonizzate dai socialisti riformisti (l’anarchismo ad Ancona si presenta come fenomeno prettamente urbano, sostanzialmente estraneo resta il mondo delle campagne, come del resto avviene con poche eccezioni nel resto d’Italia). La presenza di un ambiente particolarmente favorevole spiega perché, al suo rientro in Italia nel 1913, Malatesta scelga di nuovo proprio Ancona come luogo di residenza. Nel giugno dell’anno successivo, non a caso, il capoluogo marchigiano sarà l’epicentro dei moti della “Settimana rossa”, in cui Malatesta avrà un ruolo di assoluto rilievo. Dopo il nuovo esilio londinese, al rientro in Italia nel dicembre 1919, il vecchio rivoluzionario preferirà stabilirsi invece a Milano, anche per assumere la direzione del quotidiano “Umanità Nova”.
Maurizio Antonioli (L’anarchismo fra socialismo e individualismo alla fine dell’Ottocento), ha analizzato le varie tendenze dell’anarchismo italiano dagli ultimi decenni del XIX secolo fino all’avvento del fascismo. La corrente organizzatrice malatestiana, che aveva i suoi punti di forza soprattutto ad Ancona e a Roma, per lungo tempo è stata costretta a competere e polemizzare con le correnti antiorganizzatrici e poi, a partire dai primi anni del Novecento (dopo la pubblicazione in traduzione italiana degli scritti di Max Stirner) con varie forme di individualismo. Fondamentale in questo dibattito appare il ruolo di Luigi Fabbri, il più attivo e culturalmente attrezzato tra i discepoli di Malatesta, fedele interprete e diffusore del suo pensiero anche durante gli anni in cui il maestro, esule all’estero, riduce notevolmente i suoi interventi sulla stampa. È interessante notare come gli antiorganizzatori e gli stessi individualisti, avversari dichiarati della organizzazione politica degli anarchici, spesso non manifestassero alcuna preclusione nei confronti dell’organizzazione sindacale dei lavoratori (emblematico il caso di Camillo Signorini, individualista e dirigente di rilievo del Sindacato Ferrovieri Italiani). In conclusione, si può sostenere con qualche plausibilità che la corrente organizzatrice sia stata minoritaria per una lunga fase nell’anarchismo italiano (aldilà dell’indiscutibile prestigio personale e della autorevolezza di Malatesta), e che solo nel primo dopoguerra, con la nascita dell’Unione Anarchica Italiana, si modifichi in modo significativo e duraturo il peso rispettivo delle varie tendenze.

Errico Malatesta a Paterson (USA) nel 1900

Sul sindacalismo
Guido Barroero (L’eredità di Malatesta nel secondo dopoguerra: la presenza degli anarchici nel movimento operaio) è partito da un’analisi delle concezioni malatestiane riguardo il sindacalismo, come emergono soprattutto nel corso della polemica con Monatte durante il Congresso anarchico internazionale di Amsterdam del 1907. Malatesta si mostra critico nei confronti della teoria sindacalista rivoluzionaria che identifica la rivoluzione con lo sciopero generale, e rifiuta anche la concezione del sindacato operaio visto come organo autosufficiente in grado di guidare da solo il proletariato verso la trasformazione rivoluzionaria della società. Pur auspicando un impegno dei libertari nelle lotte operaie, Malatesta crede sempre nell’importanza fondamentale della organizzazione specifica degli anarchici. Ritiene anzi che il sindacato sia per sua natura sempre riformista e portato al compromesso. Non facendosi illusioni sulle potenzialità rivoluzionarie di questo organismo,
Malatesta propende per un sindacato politicamente “neutro”, in cui possano convivere tutti i lavoratori (anarchici, socialisti, repubblicani e di altre tendenze), accumunati dalla necessità di difendere i medesimi interessi. Per questa ragione sarà inizialmente contrario alla nascita dell’USI, ritenendo più opportuna la presenza degli anarchici e dei sindacalisti rivoluzionari nella CGdL (ci sarà per questo una divergenza di opinioni con Armando Borghi). Dopo l’interruzione rappresentata dal fascismo, nell’immediato secondo dopoguerra il movimento anarchico italiano praticamente nella sua interezza (compreso lo stesso Borghi) farà proprie le concezioni malatestiane in campo sindacale, rinunciando alla ricostituzione dell’USI e aderendo alla CGIL unitaria. Solo dopo la rottura dell’unità sindacale a opera dei cattolici, dei repubblicani e dei socialdemocratici, con la nascita rispettivamente della CISL e della UIL, anche alcuni anarchici a partire dal 1949 decideranno di riattivare l’USI. Il loro tentativo all’epoca non avrà successo e si esaurirà nell’arco di pochi anni, anche per il disinteresse e il mancato sostegno di gran parte del movimento libertario.

I rapporti con Armando Borghi
Riallacciandosi almeno in parte ad alcuni temi della relazione precedente, Luigi Di Lembo (Errico Malatesta e Armando Borghi) ha messo a confronto le concezioni malatestiane con quelle espresse da Borghi, che per circa un quindicennio – nel periodo a cavallo della prima guerra mondiale – fu il più noto esponente del sindacalismo anarchico in Italia. Per quanto Borghi abbia cercato nel secondo dopoguerra (in particolare in Mezzo secolo di anarchia) di accreditare un’immagine di sé come discepolo di Malatesta e interprete più o meno fedele della sua concezione politica nel movimento operaio, le divergenze ci furono e non di poco conto. Anarchico antiorganizzatore in gioventù (come attestano il periodo di sua direzione del settimanale “L’Aurora” di Ravenna e l’opuscolo Il nostro e l’altrui individualismo del 1907), Borghi si avvicina poi al sindacalismo “d’azione diretta” e attraversa, soprattutto nel 1913-14, una fase che lui stesso definirà di “empietà operaista”. Senza mai cessare di definirsi anarchico, le sue concezioni sono in quegli anni distanti da quelle di Malatesta, col quale polemizza in alcune occasioni, e vicine piuttosto a quelle di Pelloutier, Monatte, Guillaume. Riscoprirà integralmente il proprio anarchismo, depurato da ogni incrostazione sindacalista, nella battaglia politica contro l’interventismo – a cui aderiscono molti sindacalisti rivoluzionari – e di fronte all’esperienza traumatica della Grande guerra.
Grazie proprio alla sua netta contrapposizione ad Alceste De Ambris e agli altri leader sindacalisti passati all’interventismo, nel settembre 1914 Borghi viene nominato Segretario generale dell’USI, mantenendo tale incarico fino alle sue dimissioni nel 1921. Si riavvicina in questo periodo a Malatesta, col quale collabora strettamente per tutto il “Biennio rosso”. La corrispondenza tra i due continuerà anche dopo l’espatrio di Borghi alla fine del 1922, ed è anche grazie ad alcune di quelle lettere che è possibile documentare una persistente diversità di opinioni su questioni non trascurabili. In particolare, mentre Malatesta ritiene che soprattutto dopo l’avvento del fascismo l’USI dovrebbe confluire nella CGdL, Borghi continua ad attribuire ancora una valenza positiva all’esistenza di una struttura sindacale autonoma di tendenza libertaria. Del resto, in quegli anni Borghi è attivissimo nel promuovere l’AIT, l’internazionale anarcosindacalista e libertaria nata al Congresso sindacalista di Berlino (25 dic. 1922 – 2 gen. 1923) in contrapposizione all’internazionale sindacale socialdemocratica di Amsterdam e a quella comunista di Mosca.
Solo dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti, avvenuto alla fine del 1926, l’anarchico romagnolo comincerà a rivedere radicalmente le sue posizioni, influenzato dal contatto con la realtà americana. Secondo Di Lembo, sull’evoluzione di Borghi avrebbe pesato con molta probabilità anche l’allarme suscitato dai diversi tentativi di revisione dell’anarchismo divenuti oggetto di accesi dibattiti in quegli anni, sia di taglio classista e iperorganizzatore (come la celebre “Piattaforma di Archinov”) sia democraticisti. Fatto sta che ritornato in Italia nell’ottobre 1945, Borghi sembra avere fatto propria la concezione del sindacato di Malatesta (morto nel frattempo nel 1932) e si oppone a ogni tentativo di riattivazione dell’USI. Va oltre, peraltro, lo stesso Malatesta, e dimostra un sostanziale disinteresse per l’attività sindacale in genere. Per il Borghi della maturità il sindacato è divenuto ormai, nel mondo contemporaneo, solo un organo per la statalizzazione delle masse. Del resto, più in generale, tutta l’impostazione dell’ultimo Borghi è di tipo antiorganizzatore. Si può dire che si assiste a un suo sostanziale ritorno alle origini, alle posizioni espresse nei primi anni del Novecento.

Errico Malatesta con Amedeo Boschi nel 1913

L’arresto di Malatesta
Di un certo interesse, ma più legati a una dimensione locale, anche i contributi di Fabio Bertini (Anarchici livornesi e toscani nelle carte di polizia), e di Marco Rossi (Livorno in sciopero per la libertà di Malatesta). Il primo, utilizzando anche recenti ricerche effettuate per compilare schede per il Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, ha messo in luce la continuità che esiste in Toscana tra la tradizione democratica e rivoluzionaria risorgimentale e la nascita poi dei gruppi internazionalisti e anarchici. Il secondo ha ricostruito l’episodio dello sciopero generale svoltosi a Livorno il 3 febbraio 1920 in seguito all’arresto di Malatesta (avvenuto a Tombolo il giorno prima), inquadrandolo nelle vicende del movimento operaio della città labronica nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale.
Concludendo, per la qualità delle relazioni il Convegno può essere considerato sicuramente un successo. Complessivamente ridotta invece la presenza del pubblico, forse scoraggiato anche dalle avverse condizioni meteorologiche. Considerati i temi trattati e i nomi dei relatori, tra i quali vi erano alcuni tra gli storici più autorevoli dell’anarchismo italiano affiancati da ricercatori in qualche caso più giovani ma promettenti, ci si poteva aspettare un’affluenza maggiore.

Gianpiero Landi