rivista anarchica
anno 34 n. 303
novembre 2004


 

Ricordando Giovanni Raboni

Cara redazione,

forse non ci crederete (e anch’io mi sono sorpreso nel pensarlo), ma proprio ieri nella mia quotidiana ricerca poetica, avevo nuovamente letto alcune poesie di quegli autori che la critica italiana ha sentenziato essere i “poeti della vita quotidiana”. Fra questi – oltre a Majorino, Neri, Cesarano, Rossi – Giovanni Raboni.
Lo conobbi personalmente quattro anni fa, in un bar sotto casa sua, in occasione di un lungo colloquio su Giorgio Cesarano, il poeta-rivoluzionario per cui allora stavo preparando l’introduzione alla riedizione del libro “Manuale di sopravvivenza”, richiestomi dalla Bollati Boringhieri. Fu il primo – e l’unico – incontro che avemmo (anche se ci promettemmo di reincontrarci, per il fatto che Raboni rimase sorpreso dal fatto che non gli avessi minimamente proposto – ogni volta che avevo occasione di telefonargli – di prestare attenzione alle mie poesie), tuttavia ricordo la profonda curiosità e rispetto nei confronti del pensiero libertario e anarchico, che lui ben conosceva, e che per l’occasione ebbi modo di parlarne, facendogli conoscere la rivista “ApARTe°” (allora appena edita) ed il libro di Catanuto e Schirone su “Canti anarchici”.

Giovanni Raboni

Naturalmente il nostro unico incontro era finalizzato a comprendere come Cesarano si era progressivamente staccato dalla produzione poetica, abbracciando la critica radicale, e quali erano stati i loro rapporti amicali e professionali, dal momento che Raboni aveva in più occasioni collaborato assieme a Cesarano scrivendo sceneggiati per la RAI (un inciso: la “Freccia nera”, lo sceneggiato che tanto scandalizzò il Vaticano per il costume discinto della Goggi, vide all’opera lo stesso Cesarano che nel ritradurre dall’inglese il racconto, lo migliorò in alcune sue parti, finendo per comporne l’omonima canzone).
Da sempre amici, Raboni e Cesarano, condividevano in più la passione sfrenata per il calcio; il primo interista, mentre l’altro milanista, puntualmente ad ogni derby con i rispettivi figli andavano a San Siro e lì nasceva una lunga tenzone che proseguiva con interminabili sfottò. Ma era la poesia il campo in cui si ritrovavano per riflettere sull’evolversi di una situazione sociale che dopo il ’68 li aveva visti prendere posizioni differenti. Con Majorino avevano dato vita alla rubrica “Questioni di poesia” sulla rivista “Paragone”, e da allora la loro produzione poetica era diventata uno strumento per scandagliare la quotidianità.
Poi, la rottura di Cesarano con l’establishment intellettuale milanese, uscendo dalla Rizzoli e da tutte le parallele attività. Con Raboni i contatti continuarono; anzi, Raboni stesso affittò un casale toscano proprio vicino a quello che Cesarano aveva acquistato a Pieve di Compito. Entrambi proseguirono, però, per la propria strada, anche se nell’ultimo periodo (poco giorni prima del suicidio) Cesarano aveva ripreso con la poesia. Non per nulla la sua opera poetica fu pubblicata postuma da Raboni per conto dei “Quaderni della Fenice” dell’editrice Guanda.
Di Giovanni Raboni serberò sempre una sua osservazione, che contribuì a cambiare il mio approccio con la produzione poetica, nel voler richiedere alla poesia una “riconoscibilità formale” per ricominciare ad esistere, oltre che nelle menti e nella volontà dei poeti, anche “nella mente e nell’orecchio dei lettori”.
Vi chiedo scusa, per questa lunga “spataffiata”, ma volevo comunicarvi la mia tristezza per la morte di un poeta.
Un abbraccio,

Gianfranco “Joe” Marelli

 

La tristissima storia della timbratrice

Chi ama le poesiole per l’infanzia d’altri tempi senz’altro conosce una raccolta di versi intitolata “Pierino Porcospino”. Narra la storia di un bambino, Pierino porcospino appunto, che compare nell’esordio – oh che schifo quel bambino, Pierino il porcospino – e che poi nel prosieguo viene sostituito da numerosi alter ego, accomunati da una vocazione all’indisciplina e da una irresistibile attrazione verso la trasgressione delle regole, cosa che li porta, nel breve volger di qualche strofa, a fare una brutta fine. Così Corrado che si succhia il pollice viene punito da un sarto mostruoso che, comparso all’improvviso, gli trancia via di netto i pollici criminali con il forbicione e il cattivo Federigo, tormentatore di bestie e nutrice, si becca un gran castigo.
Ma la sorte peggiore tocca all’incauta Paolinetta che, lasciata in casa da sola, non sta buonina, come le ha raccomandato la mamma: si mette a giocare con gli zolfanelli, da vera sventata qual è. Finisce così: un po’ di cenere e due scarpini/caro ricordo dei suoi piedini/è quel che resta/non c’è più nulla/di quell’indocile, vispa, fanciulla.
Non è poco, come punizione. Insomma “Pierino porcospino” è una sorta di teatro della crudeltà per bimbetti, frutto di una pedagogia d’altri tempi, che non temeva di agitare orrendi babau di fronte agli occhi sgranati dei pargoli da educare. Tant’è che una volta, volendone io acquistare una copia in una libreria per ragazzi della mia città mi sentii rispondere con sdegno che loro, quella cosa lì non la tenevano. Rinunciai a spiegare alla commessa che le povere rimette non erano poi tanto pericolose e pensai che a lei era precluso uno dei molti piaceri che questa valle di lacrime ci offre – e cioè sentir recitare da Paolo Poli “La tristissima storia degli zolfanelli”. Non è che tutto questo abbia molto a che fare con la timbratrice che rileva le presenze dei ragazzi a scuola, dirà chi legge. E invece sì, perché anche la timbratrice è un mostro come le forbici del sartore che punisce esemplarmente il povero Corrado. Ed è un mostro ugualmente il “patto formativo” che dovrebbe regolare i rapporti tra studenti e insegnanti; sono mostruosi il POF e il formalismo burocratico, è mostruoso il “progetto qualità” e il tentativo di trasformare la scuola in una azienda che piazza il suo prodotto sul mercato.
Ma ogni ragazzino, per quanto impressionabile, sarà anche pronto a ridere del sartore, e capirà che la punizione per chi si succhia i pollici non può essere proprio quella, così esagerata.
Mentre lo studente che si accinge ad entrare in classe per verificare se il primo ad infrangere il patto formativo sarà lui stesso o il suo insegnante, di fronte alla timbratrice rimarrà impassibile e serio, perché così deve essere nella scuola dell’autonomia, che è una scuola seria in cui nessuno ride perché non c’è niente da ridere. O forse quello studente cederà alla tentazione ed invece di far passare il codice a barre del suo libretto delle assenze proporrà al lettore ottico il codice a barre del detersivo – tanto per sabotare con un’umana monelleria la scuola-azienda e l’istruzione-merce. E magari per farsi due risate con il compagno di banco – che quello ancora non è stato monitorato, non è stato abolito dalla riforma Moratti e si chiama ancora così, compagno di banco.

Giovanna Lo Presti
delegata RSU CUB Scuola Itis Peano Torino

 

L’ironia di Luigi

Poco dopo il ’68 e prima dell’epoca degli anni di piombo, ci fu un periodo nel quale il movimento anarchico, colpito dalla repressione nel ’69, oltre a fare la campagna per la verità contro la mistificazione ed i complotti, sviluppava un intenso dibattito interno proiettato verso un rinnovamento culturale e organizzativo.
L’obiettivo era la ripresa del suo posto nella società, dal quale era stato estromesso dal fascismo. Insieme quindi l’impegno antistragista e contro la repressione, l’entusiasmo e l’energia della militanza volta a creare un mondo migliore. Furono anche rivolti a temi specifici.
A Roma il punto di aggregazione era in quell’epoca la redazione di “Umanità Nova”, in via dei Taurini: un piccolo appartamento nello stabile in cui venivano stampati “Paese Sera” e “l’Unità”. Per la sede del mitico giornale fondato da Malatesta passavano torrenti di compagni e compagne e vi era un continuo ricircolo di idee e di discussioni, nonché di tentativi di analisi volti al superamento della fase involutiva che era iniziata con la strage del ’69.
Una sera tra il ’71 ed il ’72 il compagno Luigi Carlizza venne ad una seduta della redazione collegiale. Saputo che egli era il medico/compagno con il quale volevo iniziare un discorso per affrontare in modo anarchico la medicina, gli chiesi di partecipare al gruppo che si impegnava all’Acquedotto Felice e di installare un ambulatorio medico. Noi eravamo un piccolo gruppo di studenti anarchici di Medicina, in progressiva espulsione da parte del collettivo di Medicina del Manifesto. Con i suoi occhi pieni di bonomia e di serietà Carlizza ci parlò con scetticismo, sostenendo che non era quello il modo di militare, che invece avremmo dovuto trasformare la Medicina dall’interno, relazionandoci alla riforma sanitaria per la quale i lavoratori più avvertiti si battevano da tempo in una ottica di larghe masse. Naturalmente le parole non furono queste, ma sicuramente il concetto.
Esauritasi la fase del collettivo il Manifesto, nel quale non c’era ovviamente posto per gli anarchici e terminata la fase del volontarismo presso l’Acquedotto Felice (che non è da sottovalutare perché rappresentò un embrione di intervento popolare), iniziò un dialogo con Luigi per “rivitalizzare” (così ci si esprimeva allora) l’anarchismo attraverso lo studio del sistema sanitario , la pubblicazione di articoli sul tema e la formulazione di proposte da portare nei gruppi della FAI per l’azione militante.
Tra chi si batteva da anni per la riforma sanitaria e per il superamento del sistema mutualistico e chi invece voleva far incidere le sue idee anche nella futura professione, si sviluppò un impegnativo dibattito i cui risultati apparenti furono davvero pochini, se si fa riferimento a qualche articolo comparso su “Umanità Nova” e su altra stampa, ma la cui sostanza fu davvero fondamentale.
Forse neppure se ne rendeva conto, tanto era il suo rigore, che si faceva scudo di una certa ritrosia di carattere e che lo faceva ripetere di scrivere chiaro, semplice come Malatesta aveva scritto Al Caffè. Obiettivo abbastanza difficile sia per la assoluta sproporzione tra il Maestro e noi giovani militanti sia perché allora imperava il sinistrese, dal quale tutti (chi più chi meno) eravamo affetti. Ne conseguivano stroncature terrificanti agli articoli che gli proponevo e continue riscritture e rielaborazione dei concetti per raggiungere quella massima chiarezza e limpidezza che era il suo ideale di pubblicistica anarchica.
Ma insieme alle discussioni sui temi sanitari si parlava del gradualismo malatestiano, quale originale tentativo di “tenere assieme” la tensione rivoluzionaria con una pratica non ingessata dall’ideologia; del Congresso di Carrara del 1965, che aveva portato alla scissione dalla Federazione Anarchica Italiana (FAI) dei Gruppi d’Iniziativa Anarchica (GIA) che ne contestavano le scelte organizzative); dell’esperienza “neomarxista” dei Gruppi Anarchici d’Azione Proletaria (GAAP) alla quale aveva partecipato quasi una ventina di anni prima.
Mi ricordo che Luigi mi regalò l’opuscolo degli atti del Congresso di Pontedecimo. quello che nel 1951 aveva segnato il passaggio dai Gruppi Anarchici di Azione Proletaria al leninismo di Lotta Comunista).
Sull’opera costruttiva della Rivoluzione Spagnola era uscito in quei tempi il libro di Gaston Leval, che trattava anche delle straordinarie esperienze degli anarcosindacalisti spagnoli nel campo della sanità. Io ne fui entusiasta, Luigi meno, perché probabilmente le riteneva improponibili in Italia in quell’epoca storica. Io e la mia compagna abbiamo avuto l’inestimabile esperienza di percepire dall’interno l’esperienza ed il vissuto di tanti anni di anarchismo dal secondo dopoguerra in avanti.
Una sola volta lo vidi veramente abbattuto e profondamente arrabbiato e fu quando ci giunse la notizia che il nostro compagno Franco Serantini era stato barbaramente ucciso, a Pisa. Era l’inizio di maggio del 1972. Sapeva tuttavia nascondere la sofferenza ed il dolore e, a parte quella sera terribile e tenebrosa, non ne parlò più.
Luigi non credeva che il fascismo fosse il principale problema, temeva molto di più l’avvento ed il consolidamento della tecnoburocrazia rossa. Perciò stimava molto i compagni di Milano raccolti intorno ad “A” (e successivamente anche al Centro studi libertari “Pinelli”) che per primi avevano iniziato ad affrontare lo studio di questa nuova classe a partire dalle geniali diagnosi e profezie bakuniniane. Luigi mi prestava da leggere il Bipartitismo imperfetto di Giorgio Galli, un libro sul socialismo libertario di Andrea Caffi edito da Azione Comune, testi sulla riforma sanitaria e sulla mortalità infantile. A testimonianza di quanto fosse vasto e innovatore il suo pensiero.
Fui accolto con cordialità e con affetto nella sua famiglia e vidi crescere i suoi figli in quel profondo calore che si irradiava da una vita malatestianamente vissuta, un valore che si è sedimentato negli anni e che ha dato i suoi frutti di resistenza quando il declino sociale degli anni ’80 sembrava negare qualsiasi possibilità di rinascita dell’anarchismo sociale.
Un calore umano ed una profonda umanità la sua, una spontaneità vivacissima dei suoi figli, una cordialità profonda dei suoi famigliari, che nel ricordo assumono i caratteri mitici di un’epoca nella quale stava rinascendo l’anarchismo politico ed umano come testimonianza di vita.
Oggi che l’anarchismo ha conquistato nella società riconoscimento culturale e politico, che viene considerato come uno dei tanti filoni del movimento operaio e popolare del 900, che non lascia indifferenti e che non suscita più diffidenza o superficiale antipatia, è difficile ritornare con la mente a quei tempi e capire come allora l’anarchismo non disponesse che di pochi militanti seri e consapevoli che avevano ben chiare le differenze ontologiche con il marxismo, come non attraesse gli intellettuali, come in una parola si fosse suo malgrado allontanato dalla società.
Forse per questo Luigi ci teneva a dire che ci si batteva per la rivoluzione sociale attraverso il gradualismo, che per lui implicava la partecipazione alla nascita ed allo sviluppo della riforma sanitaria.

Luigi Carlizza, “ammanettato” al figlio Francesco “Fricche”

Per quanto riguarda il dibattito teorico all’interno del movimento anarchico, Luigi – che aveva vissuto in prima persona e con passione l’esperienza “marxista” e ultra-organizzatrice dei GAAP vent’anni prima – era fortemente polemico con l’archinovismo e il piattaformismo, cioè con quella tendenza verso un movimento tendenzialmente omogeneo e rigidamente strutturato.
Proprio in quegli anni Luigi tornò alla militanza attiva, attraverso la creazione e lo sviluppo con altri compagni (alcuni della sua età) del gruppo Roma Centro, attraverso la comunanza ideale con alcuni suoi compagni di gioventù (come Pier Carlo Masini).
Alcune sere d’estate, quando la canicola scemava temporaneamente, ci vedevamo talvolta con Luigi e con Ugo Scattoni, il fratello di Umberto Scattoni (compagno di Bandiera Rossa trucidato alle Fosse Ardeatine); discutevamo con molta partecipazione emotiva e con impegno della Spagna, del sindacalismo, del movimento anarchico del dopoguerra, dell’esperienza neomarxista dei GAAP cui avevano dato origine Luigi, Ugo Scattoni, Pier Carlo Masini ed altri ancora.
Furono anni di intensi confronti tra la sua critica radicale al piattaformismo e la mia maggiore attenzione nel cogliere le ragioni di fondo del piattaformismo, quale risposta al fallimento dell’anarchismo in Russia, pur senza aderirvi. Convenimmo che il Programma dell’Unione Anarchica Italiana scritto da Malatesta nel 1920 fosse il migliore e che dovesse essere calato nella concretezza della realtà, che certo non presentava il momento rivoluzionario nel cui contesto quel Programma era nato.
Questo impegno noi lo cercammo, come dicevo, anche nella ricerca della definizione di un’organizzazione sanitaria popolare, da dibattere all’interno del movimento e da portare avanti come tesi e proposte operative nei gruppi. Frequentavo almeno una volta alla settimana la sua famiglia e ho visto crescere i suoi figli. Ricordo che durante il movimento del ’77 raccomandai ad uno di loro di stare attento ai pericoli insiti in un impegno personale troppo intenso: temevo per la sua stessa vita.
Questo impegno Luigi lo cercò nel gruppo Roma Centro ed a quell’epoca, negli anni ’80, il nostro sodalizio politico, salvo che per qualche incontro, si interruppe, mentre non si interruppe il senso della nostra profonda amicizia. La ricerca del lavoro e il lavoro in quanto tale mi presero molto e quando mi giunse la notizia della sua morte provai un grande dolore: dolore che in parte fu attenuato successivamente dalla lettura degli articoli su “Umanità Nova” di suo figlio Francesco (noto come “Fricche”), nei quali ho ritrovato l’ironia di Luigi. È comparso anche un bellissimo articolo su Luigi nel volume che venne pubblicato a Carrara in occasione del monumento a Bresci e riscontrai con piacere che a Luigi venivano attribuite quelle qualità che io avevo rilevato.

Enrico Calandri