rivista anarchica
anno 34 n. 303
novembre 2004


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Pierrot contro i mostri
(il rigore e la tenerezza di Pierre Perret)

No, non son mai stato un “tipo a posto”
E non sto sempre sul chi vive
Ma ho sempre avuto buone spalle
Sono l’incudine e non il martello,
Non sono che un prigioniero trascinato fra due gendarmi
Non sono che un rifugiato
Davanti al sorriso del mercante d’armi.
(Je suis le vent)

Pierre Perret è un goloso maneggiatore della lingua, in quarant’anni di carriera si è affermato, al di là di ogni moda, al di là di ogni modo, come un punto fisso nella cultura francese.
Personaggio adorabile, dal fisico boccoluto e rotondo di angioletto troppo cresciuto, ma, per contrasto, malizioso e con la voce simpaticissima di un bambino rauco. La sua cifra stilistica è profondamente debitrice del sottile rigore formale di Georges Brassens, un rigore in realtà raggiunto attraverso uno straordinario lavoro di controllo e di affinamento, che lo ha innalzato dagli esordi, un po’ troppo improntati alla facile goliardia dei temi, allo status di poeta raffinato e sensuale, di critico implacabile di una società che nasconde sotto la maschera del realismo “adulto” la sua brutalità.

Io sono il navigatore che non ha scoperto l’America
Io sono un obiettore che non ha l’istinto patriottico
Di chi vuol finire in bellezza bruciando sull’altare della patria
D’altronde, trovatemi un solo prete
Che abbia fretta di andare in paradiso.
(Je suis le vent)

Il tono delle sue canzoni (chiamiamole così) di protesta è uno dei miracoli della poesia moderna: a un rigore di pensiero assoluto, a una posizione assunta sempre in favore dei più deboli, degli indifesi, delle vittime della storia, corrisponde, anche quando vengono affrontate le situazioni più crude, una totale mancanza di quel livore sordo, di quella ringhiosità che macchia tanta parte della canzone sociale.
E, lo dico per inciso, bisognerebbe capire perchè tanti artisti pieni di cuore ritengono di dover appesantire le loro opere di dichiarazioni di guerra, di recriminazioni e minacce, di ultimatum risibili e inconsistenti; Pierre Perret è agli antipodi di tutto ciò, l’odio non lo tocca. Liberatore perché già libero di per sé. Vero spirito popolare e generoso, buon mangiatore, buon bevitore, gaudente e sensuale, vorrebbe tutto il mondo, a cominciare dai bambini e dalle donne dei peggiori posti del mondo, alla sua tavola. La sua rivolta è l’atto d’amore di chi non si rassegna al realismo cornuto dei massacratori in guanti bianchi. Perret non accetta e non dichiara nessun atto di guerra, e ciò non di meno la sua condanna della società attuale è radicale e senza compromessi.

La piccola kurda
Bambina se sei kurda ascoltami
Devi partire, lasciare casa tua
Conosco il tuo destino, conosco la tua morte:
Nessuno ha mai ragione contro un soldato.

“Erano cento intorno a casa mia
Sul muro c’erano aglio e peperoni
Il giorno era così dolce, il cielo così chiaro
E mio padre cadde in un tuono.
Era un mattino calmo di settembre
Hanno portato mamma nella camera
Il nonno con la faccia fra le mani
Piangeva come un bambino
Da fuori si sentivano gli urli di mamma.

Mia nonna impastava il pane nella cucina
Ed affondò il naso nella farina
Sul suo cuore sbocciò il fiore di un geranio:
L’ultimo omaggio ricevuto da un uomo!

Mio nonno preso a calci nella schiena
Implorava la pietà dei suoi boia
Sentivo i soldati che tornavano soddisfatti
E mamma dal suo letto non gridava più.

Poi anche il sole inorridì
Le bombe scoppiavano come papaveri
La morte banchettava seduta nel mio giardino
In cui non crescevano più che orfani.
La pioggia che cuciva l’orizzonte
Faceva fumare le rovine di casa mia
E mentre mi allontanavo dal cielo di Babilonia
Capii che non avevo più nessuno.”

Non ascoltare i pazzi che hanno detto
“La libertà è sulla canna del fucile”
Chi ha credute queste cazzate è morto da cent’anni,
I mercanti d’armi hanno sempre bei bambini.

Piccola se sei kurda fuggi via
I bambini morti non possono più crescere
Andremo in Europa se è l’unica speranza
Laggiù non si uccide la gente che col lavoro.

L’attenzione, che sin dall’inizio della sua carriera lo ha contraddistinto, per il mondo dei bambini, la sua innata capacità di parlarvi assieme, senza ricorrere alle insulse scempiaggini dell’infantilismo di chi, da adulto, si ritiene in una posizione superiore, gli ha permesso di essere spesso utilizzato come autore di riferimento finanche nelle scuole elementari. Mal si calcola l’apporto di una canzone come Lily sulla coscienza degli antirazzisti francesi, chi potrà mai comprendere come, meglio di migliaia di pagine di articoli e saggi, tale canzone sia una barriera contro il dilagare dei fascisti del Front National di Le Pen (non a caso bersaglio favorito del nostro che gli ha dedicato recentemente la canzone la belva è ritornata).

Lily
C’è da dire che era proprio carina, Lily
Quando arrivò dalla Somalia
In una nave di immigrati
Venuti dal loro altopiano
Per vuotare le spazzature dei parigini
Credeva che fossimo tutti uguali
Nel paese di Voltaire e di Hugo
Ma per un Debussy all’assalto
Un nero vale solo la metà
Ed è una bella differenza

Amava tanto la libertà, Lily
Sognava di fraternità
Ma un albergatore di via Secrétan
Gli ha in fretta precisato
Che non affittava che ai bianchi

Così ha scaricato le cassette Lily
Ha fatto tutti i peggiori lavori
Ha gridato per vendere cavolfiori
Nella via i suoi fratelli di colore
L’accompagnavano col martello pneumatico

E quando la chiamavano “Biancaneve”, Lily
Non si lasciava prendere in trappola
Imparò a sorridere sempre
Anche se bisognava stringere i denti
Sarebbero stati troppo contenti

Amava un bel biondo riccioluto, Lily
Che era pronto a sposarla
Ma la “buona famiglia” disse di no
“Non siamo mica razzisti
Però non esageriamo”

Così scelse l’America
Questo grande paese democratico
Non avrebbe creduto senza vederlo
Che il colore della disperazione
Anche laggiù era il nero

E in un meeting a Memphis
Vide Angela Davis
Che gli disse “vieni sorellina
Unendoci avremo meno paura
Del lupo che guarda il gregge”

È fu per scongiurare la paura, Lily
Che alzò un pugno rabbioso
In mezzo a questi “Ragazzacci”
Che incendiano gli autobus
Proibiti a quelli di colore

Ma nella tua lotta quotidiana, Lily
Conoscerai uno per bene
E il bambino che nascerà un giorno
Avrà il colore dell’amore
Contro cui non si può fare niente.

Sarà la miliardesima volta che ascolto questo pezzo e sul finale non riesco mai a trattenere i brividi.
Proveniente da una famiglia proletaria, ma con qualche velleità artistica, di Castelsarrazin presso Tolosa, Pierre salì a Parigi nella prima metà degli anni cinquanta. Lì si legò d’amicizia a Gorges Brassens, le cui prime canzoni l’avevano folgorato, spingendolo a intraprendere anche lui il mestiere e intrattenne un sodalizio intellettuale con Paul Leauteaud, grandissimo scrittore libertario e animalista, rievocato nel bel libro dello stesso Perret Adieu monsieur Leauteaud.

Io sono il bambino cattivo
Chiuso in punizione nella stanza buia
Io sono il nonno fortunato sbattuto all’ospizio
Io sono il ramo innocente che regala ombra al boscaiolo
La cartuccia difettosa che disonora il plotone.
(Je suis le vent)

La sua carriera si costruì attraverso una gavetta durissima, osteggiato al principio per il tono grevemente rabelesiano dei testi, effettivamente poco più che bozzetti comici con osti scorreggioni e altre amenità al confine fra lo schifido e il surreale. Perret seppe in dieci anni, con un meraviglioso lavoro di lima, innalzare la sua scrittura a una ricchezza e a una forma così perfettamente compiuta, da essere oggi tenuto in considerazione come consulente per la riforma dell’ortografia francese. Di pari passo al lavoro di perfezionamento del linguaggio, andava in lui maturando un ampliamento dei temi: sulla barzelletta ruffiana andava prendendo piede il tema della tenerezza, che ora umoristica, ora pensosa, ha trovato nel nostro uno dei suoi massimi cantori.
Tale tenerezza gli permette di affrontare a un livello altissimo canzoni poetiche per bambini e sui bambini, canzoni d’amore di un erotismo anche molto esplicito (Celui d’Alice, Mon Chibre, Ouvre,…), temi dolorosi e delicati quali lo stupro di una ragazzina in Mon p’tit loup o la lunga degenza in ospedale di vecchi e bambini, o ancora la noia mortale dei forzati del nostro mondo opulento.

Questa hall di stazione tappezzata
Di rossetto e di lotterie
In cui batte il cuore delle periferie
Non mi ha mai fatto prigioniero
Questa hall di albergo tappezzata
Di solitudine senza sconti
E di marche di aperitivi
E di felicità sintetiche
Non mi ha mai fatto prigioniero(…)
I fine mese i riposi andati a male
Davanti ai televisori
I telegiornali cloroformizzati
E le pubblicità di schiume da barba.
Di quest’aria di robot contento
Di questa corsa con il tempo
Di questi amori puntinati
Che muoion prima d’esser nati
Io me ne sono s-prigionato
Segnatevi il mio nuovo indirizzo
Vivo nel vento inzuccherato
Delle isole di madreperla.
(Ma nouvelle adresse)

In Perret, alla fine, coesistono perfettamente il compagnone di taverna i cui versi popolari, facilmente memorizzabili, vengono ripresi dal coro (dal cuore) di tutto il pubblico durante i concerti, e il poeta dalla penna incantata che sa raccontarci la favola dei nostri giorni e sa guardare in faccia all’orco, senza paura e con la chiave dell’oscura segreta, in cui siamo costretti, in mano. La sua vita e il suo sguardo sul mondo sono il monumento a un ottimismo pensoso, al rispetto della vita, alla meraviglia che s’intuisce oltre il carico gravoso delle nuvole.

Conosci la versione stereofonica
Dell’ultimo successo di Malher?
O i piantatori della Virginia
A cui bisogna spiegare cos’è l’inverno…
Ne abbiamo di cose da vedere
Fino alla Louisiana in festa
Dove c’è gente che ogni sera
Riempie di disperazione la tromba.
(Mon P’tit Loup)

Pierre Perret

Negli ultimi tempi Perret ha rarefatto gli impegni canori, anche perché si è trovato sempre più assorbito dall’interesse per la scrittura che lo ha portato a pubblicare in pochi anni un’enorme antologia della poesia erotica francese, due libri di ricette, un’edizione per bambini delle favole di La Fontaine, un dizionario di argot, un grande libro (assolutamente imperdibile!) di memorie. La sua produzione discografica ha però approfondito ulteriormente i temi dell’ecologia e della globalizzazione, rivelando una coscienza sempre sveglia e critica, pronto a cogliere, dove sorge, l’urgenza e l’appello di una resistenza assurta al basilare compito di suonare a stormo le campane della vita contro la morte per tutto l’esistente.

Io sono il toro bastardo che incorna il valoroso torero
Sono il pollo a cui avete torto il collo e che vi lascia un osso in gola
Sono il bouquet di rovi che graffia il piede al cacciatore
Sono colui che rinuncia alle vostre battaglie, al vostro onore.
Io sono il tallone d’ Achille e l’occhio che guardava Caino
E la pelle del coccodrillo che portate ai piedi
Io sono il minatore che piange il sole dalla miniera
Io sono solo una canzone lanciata contro un missile pershing
(Je suis le vent).

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it