rivista anarchica
anno 35 n. 308
maggio 2005



a cura di Marco Pandin

 

Lupi

Rieccole, le musiche a cui non si sa dare un nome. Quelle intrappolate nei cd che non si sa dove mettere (troppo strano per chiamarlo rock, troppo sperimentale per essere jazz...). Sono musiche che raccontano storie, storie strane.
I “Lupi” di Claudio Lodati e Marco Giaccaria hanno gli stessi occhi di fuoco dei lupi bianchi dentro a “Black flag”, vecchio romanzo tenebroso di Valerio Evangelisti. Sanno aspettare, i lupi. Ti guardano da lontano, ma la lontananza non significa salvezza, perché i lupi hanno il dono del silenzio e della sorpresa quando mirano alla gola.
Nel cd i lupi prendono la forma sfuggente di frammenti sonori improvvisati, mescolanze sempre diverse delle chitarre di Claudio e dei trattamenti elettronici di Marco. Musica nata da improvvisazioni, però chiamarla musica per caso non va bene: la casualità non è solo un altro modo di chiamare con superficialità le perle gettate ai porci. Questi lupi sono musica che è frutto di ragionamenti, complotti, premeditazione. Claudio offre chitarre che sotto la maschera della riconoscibilità sfidano pareti verticali intrascrivibili. Marco sgrana come rosari sequenze subdole e ingannatrici: basta grattare appena appena sotto la superficie di certi loop “carini” giusti giusti per un jingle per sorprendersi di unghie affilate, basta avere il coraggio di strappare un angolo di certa tappezzeria computerizzata per svelare le crepe cattive che corrono attraverso questi muri.

Quello di Claudio e Marco è un disco di una bellezza magnetica e oscura, attraente come un gorgo, dove l’unica rassicurazione viene dalle note poste all’interno di copertina, che descrivono la collocazione spaziale stereofonica delle chitarre e la presenza e grosso modo il tipo degli interventi artificiali. Ci sono anche due piccole foto, i ritratti dei due autori/esecutori accanto alle proprie armi, che non promettono niente di buono. Il resto è vertigine, inquietudine, temporale nero che si avvicina e nasconde il cielo.
Introvabile nei negozi. Cercatelo sul web su www.marcogiaccaria.it e www.lodati.com.

Obedience

La storia di questo cd degli americani Larval comincia con un inseguimento mozzafiato di chitarre elettriche gommose, ruota contro ruota senza tregua e senza paura di farsi male, il guard rail sfiorato di corsa come dentro a un videogioco.
Larval è un ectoplasma rocksperimentale messo in piedi da Bill Brovold, chitarrista visionario frequentatore di brutti giri tipo la Tzadik e la Knitting Factory. La formazione non è stabile: alcune cose funzionano solo per uno o due elementi, altre addirittura (nel secondo album del gruppo) sono partiture sovrapposte per 17 elementi. “Obedience” è il suo/loro terzo cd.
Bill sembra modellare la voce del suo strumento come un fan sballato ed ultraquarantenne del dinamico duo Fripp/Belew: corde e dita annodate in ore e ore di disciplina a cucinare lingue d’allodola in gelatina, negli occhi la polvere di follia di chi cerca l’intonazione giusta come si impegnasse in un duello laser a difendere il destino del mondo.
Immaginate l’inquietudine dei canadesi Godspeed gettata di peso sulle spalle della generazione precedente, come se certe pagine di oggi fossero state suonate con l’incoscienza psichedelica che faceva il nido nei solchi di trent’anni fa. Immaginate pezzi di circo equestre spogliati della spensieratezza acquarello della copertina di “Lizard” e rivestiti della notte più nera. Immaginate che il vento porti un refolo Van der Graaf, l’eco di un’arpa spettrale sopra alle macerie. Ma sopra a tutto immaginate una chitarra elettrica invadente e dirompente, grigia e inquietante come un fiume in aprile.
Il Bill suona come un re Cremisi avvelenato e con la bava alla bocca, come se invece di frequentare coscienziosamente i corsi vegani di guitar craft e la tisana della buonanotte avesse optato per serate d’alcool ed incubo metropolitano.
Il suono che si consuma qui dentro è ricco di riff contorti e ossessionanti, spesso e volentieri pesanti il giusto e con forte retrogusto progressive. Riff cattivi sì, ma non come quei certi ibridi punkmetal di periferia di oggi, tutto fumo ed effetti speciali ma niente ciccia: qui la cattiveria incombe geometrica ed obliqua come una punizione sognata cento notti di seguito.
I pezzi sono lunghi eterni come la sera delle prove generali di una sinfonia perduta e finalmente restituita. Non appena sembra di giungere da qualche parte, ecco che la musica perde i pezzi e ritorna il buio.

Il cd è pubblicato dall’americana Cuneiform, rintracciabile sul web cliccando su www.cuneiformrecords.com. Cuneiform ha anche pubblicato tra mille cose “156 Strings”, una raccolta curiosa e stuzzicante fatta di scampoli proposti da chitarristi contemporanei, tutti in cerca d’avventura tra le sei corde di una chitarra acustica. Il tutto è stato messo insieme da Henry Kaiser, rampollo di famiglia americana ricca nonché chitarrista fulminato da rara inventiva e dalla capacità camaleontica di ritagliarsi spazi gustosi non appena avvicina altri colleghi.
Sembra che Kaiser si sia preso l’impegno sovrumano di tracciare la cartografia della chitarra contemporanea: in questa raccolta mondi lontanissimi (vecchie glorie come Duck Baker, Richard Thompson e Peter Lang guancia a guancia con Steffen Basho Junghans e Fred Frith) si prendono per mano a formare una catena umana/chitarristica singolare. Impresa titanica e impossibile, d’accordo, ma questo cd è tutta roba buona da mangiare e si può descrivere solo con mugolii di piacere: l’ago del termometro è mediamente stabile nella zona rossa del godimento estremo, indeciso tra “stupefacente” e “bizzarro”, con punte frequenti oltre lo “sballato” e il “completamente fuori”.

Bella anche la copertina: un sorridente paesaggio montano tutt’attorno a un laghetto dalla cui superficie sbuca la testona di un dinosauro furbastro, intento a rosicchiare la sua merenda vegetariana. Dietro, a specchiarsi sulla superficie del lago è una formazione di dischi volanti. Da avere, da ascoltare e riascoltare rabbrividendo ogni volta di sorpresa ed entusiasmo.

Marco Pandin

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