rivista anarchica
anno 35 n. 309
giugno 2005


anarchici

 

Una storia confusa

Non è certo la confusione che manca nelle pagine di questo romanzo breve appena uscito per i tipi dell’Einaudi (Franco Bernini, La prima volta, Torino, 2005, 12,00 euro). L’impressione è che l’autore, affermato regista e sceneggiatore, abbia voluto rimescolare situazioni e personaggi difficilmente accostabili, e che quindi la carne al fuoco sia diventata troppa. E proprio la presenza degli elementi che avrebbero dovuto rendere più convincente la trama, ossia gli anarchici attentatori e i moti popolari del 1898, appare come una pretestuosa forzatura, sostanzialmente estranea all’economia del racconto. Ma andiamo per ordine.
Siamo nel 1898. Esattamente l’8 maggio 1898, il giorno in cui l’esercito sabaudo prende a cannonate la folla affamata a Milano mentre a Torino, fra mattina e pomeriggio, si disputa il primo campionato di calcio italiano. Da una parte il popolo che, nel chiedere pane e migliori condizioni di vita, vede centinaia dei suoi figli trucidati dalle truppe regie, dall’altra quattro aristocratiche squadre di football, tre torinesi e una genovese, impegnate a disputarsi il primo scudetto con foga e spirito cavalleresco. Per legare fra loro questi due argomenti e rendere così più interessante il racconto, Bernini non ha trovato di meglio che ricorrere alla curiosa invenzione di due anarchici, quello buono, il giovane poeta e calciatore animato da nobili ideali e quello cattivo, il maturo mestatore spinto alla vendetta dall’odio e dal rancore. Insomma, i soliti banali stereotipi nazional-popolari che caratterizzano la figura dell’anarchico: di qua il generoso utopista, di là il tenebroso assetato di sangue. Già che c’eravamo, si sarebbe potuto fare di meglio.
La storia non è particolarmente complicata, anche perchè, come detto, si svolge nell’arco di una sola giornata. In un velodromo torinese si affrontano il Genoa Cricket and Athletic Club, il Football Club Torinese, l’International F.C. e la Società Ginnastica. In campo signorotti e professionisti inglesi, marinai genovesi, la buona borghesia torinese e qualche nobile in vena di stravaganze. Fra questi, a duellare sul tappeto erboso e nella vita, Jason Brandi, giovane anarchico e poeta, e l’onorevole Teodorico Venaria, già di simpatie socialiste ma ora, da quel politicante spregiudicato che non nasconde di essere, passato armi e bagagli alla reazione. E mentre le quattro formazioni si affrontano spensieratamente sul terreno di gioco, su un altro terreno, drammaticamente, cadono a centinaia i proletari milanesi e la dimostrazione pacifica di un popolo spinto dalla crisi, diventa una carneficina insensata. Nel rispetto degli ordini ricevuti, Bava Beccaris, il generale di pessima fama che legherà il proprio nome a uno dei periodi più bui della storia italiana, ordina alle disciplinatissime truppe di soffocare nel sangue la protesta popolare. Come la storia ricorda, il Bava, in segno di gratitudine per la lezione inflitta al proletariato, vedrà appuntarsi sul petto, per mano reale, la massima onorificenza aurea; ma quel metallo si trasformerà in piombo, allorché Gaetano Bresci, “l’anarchico venuto dall’America” metterà ben altra medaglia sull’augusto petto di Umberto I.
Comunque sia, le drammatiche notizie che giungono da Milano, pur gettando lo sconcerto fra i giocatori, non riusciranno a fermare il gioco (guai fin da allora a mettere in discussione la funzione “conciliatrice” e metapolitica della passione sportiva!) e le squadre continuano così la loro signorile sfida di fronte alle poche decine di persone che assistono allo spettacolo. Fra questi, tre poliziotti giunti per sorvegliare quegli strani signori che si affrontano in mutandoni (e il delegato intuisce che la vita dell’onorevole è in pericolo), alcune giovani signore e signorine attratte dal nuovo sport, una famigliola capitata non si sa come. E poi il cattivo di cui si parlava prima, l’anarchico Elias, disinteressato al football e lì solo per istigare il suggestionabile David Jason a sparare all’odiato deputato in nome dei morti milanesi. Va da sé che il vigliacco cercherà in tutti i modi, usando il suo ascendente sul giovane, di armarne la mano senza farsi coinvolgere nel criminoso progetto. Però, per una serie di fortuite circostanze, l’attentato non si compie, anzi, dei due è il giovane idealista che ha la peggio quando subisce a freddo un brutto, scorrettissimo fallo ad opera di Venaria. Si vendicherà, però, facendo innamorare la figlia del padrone delle ferriere di turno e sottraendola alle voglie del deputato, mentre una baronessina resa incinta da quel malvagio, dopo un provvidenziale aborto spontaneo, troverà l’amore nel referee, un distinto e galante notaio. E, perché ci sia giustizia, i cattivi avranno quello che meritano. Venaria morirà, di lì a poco, in un incidente automobilistico, mentre Elias, dopo aver tentato di sottrarsi all’arresto colpendo alcuni poliziotti, sconterà qualche anno di galera, anche se poi questo “incidente del mestiere” gli procurerà quell’agognata aureola di martirio, che gli “permetterà di fare carriera in mezzo ai suoi sodali”.

Sceneggiatura per fiction TV
Come dicevamo, la confusione non è poca. E l’attenzione e la competenza con le quali sono descritte le varie fasi della partita fanno pensare che tutto il resto non sia che un contorno pretestuoso e superficiale. Ma, se proviamo a immaginare che La prima volta non volesse essere un romanzo quanto la traccia della sceneggiatura di una fiction televisiva, allora la prospettiva del giudizio cambierà radicalmente.
Vediamo, infatti, che le insipide storie d’amore si prestano “televisivamente” a ricchi colpi di scena e che il tratteggio di una “questione sociale” inopinatamente scaraventata nel testo come un sacco di patate, potrebbe rendere più interessanti e diversificate le varie puntate, alleggerendo una narrazione che rischierebbe, se si parlasse solo di calcio, di annoiare il telespettatore. Così allora si può capire meglio la leggerezza e la superficialità con le quali si affrontano temi altrimenti interessanti come i moti sociali di fine ottocento o la fase “regicida” dell’anarchismo. E perché tale superficialità si trasforma, anche se forse involontariamente, in aperta denigrazione laddove tratteggia la figura di un anarchico uso a strumentalizzare i compagni soggiogati dal rapporto di sudditanza imposto dalla sua autorevolezza. In pratica, il classico fellone: pronto a lanciare il sasso della rivolta sociale ma a nascondere la mano di fronte alla repressione.
Nella mia più che trentennale frequentazione del movimento anarchico, credo di non avere mai incontrato un compagno dedito a nascondersi, dopo averli istigati, dietro gli atti altrui, o ad approfittare di una pretesa autorità nei confronti di compagni disposti a riconoscerla. Avremo mille difetti, ma non di accettare passivamente l’autorità, massime quando ad esercitarla vorrebbe essere uno di noi. Del resto, come è noto, gli attentatori ottocenteschi ai quali si richiama Bernini agirono di propria iniziativa e furono sempre disposti a pagare, anche duramente, di persona. Credo che, al di là di una qualsiasi valutazione dei loro gesti, vadano loro riconosciuti coraggio e dedizione. E anche i gruppi e i movimenti che lottarono per la libertà contrastando la reazione, crispina o giolittiana che fosse, lo fecero a viso aperto e nelle piazze e non strumentalizzando l’idealismo di giovani adepti generosi e inconsapevoli. Ma qui c’era la necessità di introdurre la figura di un cattivo, perché uno sceneggiato (mi scusi Bernini, ma non riesco a togliermi questa fissazione) senza un cattivo non avrà mai successo. Secondo me, di personaggi negativi ce ne era già uno, il deputato-calciatore, e bastava, ma a quanto pare, per poter dare un colpo al cerchio (la reazione e le cannonate) e uno alla botte (gli anarchici vendicatori), di cattivi l’autore doveva crearne due. E così ha fatto!
Ah, dimenticavo. Il primo scudetto andò alla squadra genovese del poeta che batté in finale, per 2 a 1, quella torinese dell’onorevole.

Massimo Ortalli

Meglio stupido che sanguinario
di Paolo Valera

Se dicendo che voi vi siete inebriato della polvere delle vostre armi da fuoco e che la montura che avete appeso fra i ricordi militari nella vostra villa di Monforte, in Fossano, è inzuppata del sangue di cento e più morti e di migliaia e migliaia di feriti sorpresi e massacrati per il gusto di massacrare, vi calunniamo, trascinateci al tribunale dell’opinione pubblica come mentitori, se sapete maneggiare la penna, o al tribunale giudiziario, volete farci espiare la colpa, di aver fatto di voi un uomo infame. Fatelo generale: fatelo, se volete tramandare ai vostri figli un nome che non faccia rabbrividire le generazioni come quelli di Hainau e di Radetzky. Dal primo o dal secondo uscirete, generale, tutto in frantumi, perché noi vi inseguiremo con un’artiglieria, più formidabile della vostra del ‘98. Ma la vostra coscienza potrà essere alleggerita dai delitti dei vostri complici e la storia potrà mitigarne il giudizio. Documenterete che è in voi un zinzino di coraggio civico. Sissignore, per un uomo che rinsavisce deve essere una consolazione confessare i proprii delitti: e quegli degli altri. È una espiazione che non umilia che i pusilli e i pitocchi di cuore. Su, purgatevi, mondatevi, sbrattatevi del sangue di cui siete tutto incrostato. Voi avete delle scuse. Il soldato ha l’occhio nella schiena e non conosce che la disciplina. Borioso, furioso, altezzoso non avete ascoltato che il sentimento omicidiario. La vostra conoscenza della capitale lombarda si riduceva alla miseria topografica. Siete venuto fra noi come uno straniero che ha tutto da imparare. Gli avvenimenti non ve ne hanno dato il tempo. Incalzato dai telegrammi ministeriali, circondato dai fanatici della moderateria milanese, capitanata dai Negri e dai Vigoni, avete bevuto alla sorgente del loro livore e avete creduto a una preparazione insurrezionale, ad una esplosione popolare. Dichiarate davanti ai giudici che l’atmosfera infuocata vi ha dato il capogiro, che la perturbazione degli altri vi ha messo sotto sopra, che la paura di tutti vi ha fatto carnefice. Accusate, accusate anche voi, generale. Confessate che durante il terrore non c’erano giornali che vi informassero, che vi illuminassero, che vi facessero da lanterna lungo le vie delle stragi. Dite che non c’era che una stampa canagliesca che applaudiva il gaglioffo che l’aveva incatenata, una stampaccia che si compiaceva del bavaglio che le avevate inflitto, una stampa delittuosa che aveva rinnegata la tradizione della solidarietà professionale, una stampa iniqua, cortigiana, vile, idrofoba che vi aizzava e vi indemoniava a traverso i guazzi del sangue che avevate fatto spargere e forse farete breccia nell’animo di coloro che vi devono giudicare e forse placherete l’opinione pubblica che vi vorrebbe appeso al gancio del linciaggio e vi lascerà passare nella storia come imbecille. State seduto, generale, non impermalitevi. Meglio essere stupido che sanguinario: i primi sono compassionati e dimenticati: i secondi sono esecrati e inchiodati alle muraglie della vergogna eterna. Coraggio, rivelate tutto come se foste arrivato alla fine dei vostri giorni.

Brano tratto da: Paolo Valera, Le terribili giornate del Maggio ’98, La Folla, Milano, s.d.

Milano, maggio 1898. Bersaglieri all'attacco in Largo La Foppa. Sulla destra si intravede il Caffè Aurora sul cui sito si trova, attualmente, la libreria Utopia

 

Più crudeli degli anarchici
di Leone Tolstoj

L’uccisione di un re, quella di Umberto per esempio, non è tuttavia un atto di crudeltà particolarmente ripugnante. Molte misure ordinate dai re e dagli imperatori – nel passato la strage di S. Bartolomeo, i massacri per ragioni religiose, la repressione dei contadini ribelli, le uccisioni di Versailles; oggi ancora i supplizi, l’imprigionamento, l’impiccagione, le fucilate, le guerre sanguinose – sono incomparabilmente più crudeli degli omicidi commessi dagli anarchici. Non si può dire che questi omicidi siano particolarmente orribili perchè non sono giustificati.
Se Alessandro II e Umberto non meritavano la morte, le migliaia e migliaia di Russi uccisi sotto Plewna (episodio della guerra russo-turca del 1877-78. N.d.R.) e gli Italiani caduti in Abissinia la meritavano molto meno ancora. Gli attentati contro i sovrani sono orribili, è vero; ma non tanto per la loro crudeltà e per mancanza di motivi, quanto per la follia dei loro autori.

Brano tratto da: Leone Tolstoj, Per l’uccisione di re Umberto, Casa Editrice Abruzzese, Rocca S. Giovanni, 1913.

 


Giornali monarchici e stupidità umana
di Amilcare Cipriani

I giornali monarchici e la stupidità umana ripetono che la morte di Umberto ha dolorosamente colpito al cuore tutti gli italiani.
Non è vero; eccone la prova.
Il giorno dopo la morte di re Umberto i due deputati eletti in Italia furono dei socialisti. I loro avversari elettorali dimostrarono invano che la idea della trasformazione economica, propugnata dai collettivisti, i comunisti e gli anarchici, aveva convinto Bresci dell’urgenza del regicidio. Il popolo votò pei rappresentanti i principi rivoluzionari a costo di dare ancora ragione a dei fanatici di abbattere idoli umani.
Come i martiri cristiani rischiavano la morte nel circo, per rovesciare i falsi dei, così i ribelli contemporanei rischiano la morte del patibolo o quella generata dalle malattie nei reclusori per precipitare i re nell’abisso della morte: i due atti sono identici.
In seguito, ciò che fu sintomatico fu quanto si produsse in Roma durante i funerali di re Umberto: i principi che seguivano il feretro del re, spaventati, ad un dato momento, sguainarono le spade per proteggere il loro sovrano.
Da ciò non si può concludere che una rivoluzione che cambi il regime politico della penisola, sia imminente pel fatto che, contrariamente a ciò che si è detto, la morte del re non ha incontrato l’universale riprovazione e perché il regime attuale è ridotto a repressioni violente: in questo – sia detto fra parentesi – il governo non fa che seguire una tradizione che esiste di già nel paese.
Perciò bisogna stare in guardia da profetizzare qualche cosa di importante da questi incidenti. Tuttavia si può fare osservare che un cambiamento di regime nell’Italia contemporanea non sarebbe cosa nuova: vi sono dei precedenti.

Brano tratto da: Amilcare Cipriani, Il regicidio, Libreria Sociologica, Buenos Aires, 1901.

 

 

Due amici che parlano di football
di Franco Bernini

David Jason, più sobrio, tracanna una limonata e, gustando il piacere di quel fresco, chiude gli occhi mentre offre il volto al sole che cuoce. Immagina godendo il gioco che lo aspetta.
Quando riapre le palpebre, vede poco più in là un trentenne bruno, snello, naso grifagno, occhi accesi, aria energica, vestito coi colori di moda, vinaccia e noisette, che scavalca disinvolto la corda tesa tra il pubblico e il buffet e gli sorride aprendo le braccia mentre viene verso di lui.
– Ciao, David Jason.
– Elias... ciao.
Un abbraccio.
– Sei stato bravo.
– Mi hai visto segnare?
– No, sono arrivato da poco.
Parole innocenti, che si muovono però in una strana, sospesa tensione.
Elias afferra un panino imbottito. – Posso?
– Credo che sia riservato ai footballers, ma ormai l’hai preso...
Un morso dato di gusto, un sorriso soddisfatto, come se Elias fosse orgoglioso del suo gesto da discolo che comunque, nel grande viavai, nessuno ha notato.
– Quanto avete di pausa?
– Pochi minuti ancora.
– Non ho capito bene qualche aspetto del gioco, puoi chiarirmelo? – con gli occhi, di colpo seri, Elias indica il campo, in quel momento deserto.
I due si muovono.
– Vincerete la partita, David Jason?
– Pensavo che avessimo buone possibilità, però è tutto ancora da dire.
Due amici che parlano di football. Così appaiono all’agente Fernando Nisticò che, fermo vicino al palo di una porta, li scruta mentre gli sfilano davanti.
– Adesso possiamo parlare, siamo lontani abbastanza da tutti.
Sono arrivati undici passi più in là, la distanza di un rigore
Elias dà le spalle a Nisticò, lo indica con un piccolo movimento della testa a David Jason.
– Continua a guardarci?
– Chi?
– Quello accanto al palo. È uno sbirro. Ce n’è un altro fisso all’ingresso. E forse altri ancora.
– No, ora è girato. Nessuno ci guarda.
Elias annuisce, inspira.
– Non abbiamo molto tempo, sono arrivato stanotte da Milano, – espira in un fiato.
– Eri lì?
Elias chiude gli occhi, per un lungo istante. Li riapre, fissa David Jason. Racconta.

 

L’altruismo sostituirà l’egoismo
di Franco Bernini

Uguaglianza e libertà, questa è l’anarchia per il ragazzo. Un mondo di fratelli che ha già sperimentato: il calcio è per lui l’anarchia felice e concreta. Ognuno corre per il suo piacere, ma collabora con gli altri per un fine comune. Non contano le differenze di classe ma soltanto la bravura, ed anche chi è meno capace un posto lo trova. Regole e sanzioni sono condivise da tutti. Nessuno comanda.
Crede che questo possa funzionare per l’intera società, che gli uomini abbiano nell’animo lo stesso rispetto per gli altri che prova lui.
Il lavoro è una gioia e nessuno vorrà privarsene. L’altruismo sostituirà l’egoismo. Si arriverà alla libertà per mezzo della libertà.
Questo crede.
– David Jason, spareremo a Venaria.
Il respiro si ferma.
– Cosa?
– Lo uccideremo, noi due. Ho con me le rivoltelle.
Io, uccidere? Uccidere? Questo no, mai, pensa David Jason. Glielo dico.
– Cosa c’entra Venaria con Milano? – dice invece.
– È un deputato del Regno, un simbolo.
– Un simbolo? Lui? È un mercenario. Adesso è di destra, ma prima era di sinistra, e domani chissà...
– Fa parte del governo.
– È soltanto un sottosegretario.
– Al ministero della Guerra, e la guerra la stanno facendo a noi! È un cocco del re! Che lo ha fatto pure cavaliere!
– Ne abbiamo parlato tante volte... la violenza soltanto per difesa e...
– Non ti basta quello che è successo?
– Elias...
– Hai paura, farò da solo. Peccato, perché mi prenderanno, mentre se agissimo in due...
Paura? Sì, ce l’ho.
Quel bambino ridotto ad un grumo di sangue. Quanti ne ammazzeranno oggi?

– In due, cosa cambia?
– Uno di noi spara, l’altro gli copre la fuga. Li prendiamo di sorpresa, prima che reagiscano siamo lontani. Basta che usciamo e andiamo verso la stazione, è il tragitto che hai fatto per arrivare qui... Te lo ricordi il cavalcavia che passa sopra i binari?
– Il cavalcavia? Sì.
– Lì vicino c’è una casa sicura, c’è una carrozza che ci aspetta per portarci fuori dalla città.
– Non so...
– In carrozza da qui a Marsiglia, e poi in nave fino agli Stati Uniti, dove ci sono molti compagni che… Tra l’altro tu parli inglese, saresti come un pesce nell’acqua…
Gli Stati Uniti. Ma sparare su un uomo indifeso…
– Non possiamo sfidarlo a duello?
– Un duello?
Elias, in un altro momento, riderebbe.
– Un duello, sì. Armi pari.
– Cosa siamo? Damerini?
– Io, così a sangue freddo. Non me la sento.
– Va bene. Io però lo faccio.
Lo prendono, lo ammazzano di botte. Peggio per lui, io cosa c’entro?
– Ti aiuto, – si sente dire.
– Davvero, David Jason?
– Sì.
Digli di no, sei ancora in tempo.
– Non mi ero sbagliato su di te.
Diglielo!
– Io però, Elias… ti copro mentre spari.
– No, devi pensare tu a Venaria. Sei un atleta, di te non sospettano, io avrei problemi ad avvicinarmi.
Ma come? Sei arrivato al buffet e nessuno ti ha detto nulla.
– David Jason, mi ascolti?
– Sì…
– Hai capito? Devi essere tu a colpire.
– Non ho mai sparato.
– È facile. Ti do la pistola carica. Basta premere il grilletto. Avvicinati il più possibile e mira alla pancia.
– Ma quando?
– Trovalo tu il momento adatto.
Il ragazzo lo guarda. E prende su di sé colpe non sue, il dolore degli altri. Se solo potesse fare finta di non sentirlo. Ma non può.
– Va bene. Però sparerò quando sarà solo. Non voglio colpire chi non c’entra. Noi non siamo come loro
– D’accordo. Ora vai, David Jason, i tuoi compagni di squadra ti stanno cercando. Nasconderò la tua pistola in un posto sicuro. Alla fine della partita ti dirò dove.

Un bel congegno
di Franco Bernini

Elias ha passato la trentina, la rivoluzione è la sua donna, lo ha fatto innamorare ma non gli si concede, almeno non come lui vorrebbe. Ha carisma, lo seguono in molti, ma non quanti sperava. Gli è mancata un’occasione per mettersi bene in luce, per affascinare.
E se l’occasione non capita, bisogna crearla.
Lui è certo, da ex studente di fisica, che la rivoluzione sia non soltanto inarrestabile ma anche alle porte, questione di mesi, al massimo di anni, non più di un lustro in ogni caso. Il 1903, non oltre.
Ha studiato a lungo, con pazienza, i fenomeni della vita sociale, inclusi i problemi economici, politici e morali, le mozioni e le passioni delle masse. Tutto si riduce a dinamiche limpide, perfettamente analizzabili.
Meccanica. Cinetica. Null’altro.
Questione di rapporti di forza.
Una leva può sollevare il mondo.
Per questo ha pensato a Venaria. E a David Jason. L’attentato avrà eco in tutta Europa e nelle Americhe. Sarà d’esempio.
E lui, Elias, ne coglierà i frutti stando al sicuro in Svizzera, dove conta di essere tra qualche ora. Da li spargerà la voce che lui c’era, ha pensato ed eseguito quel gesto risoluto con la complicità del poeta; dirà che purtroppo il ragazzo non ce l’ha fatta a fuggire, mentre lui si è sottratto per puro caso alla cattura.
Comunque vada, ne trarrà fama. Se il deputato morrà, per ogni ribelle a giustiziarlo sarà stato anche lui. Se non morrà, avrà comunque il merito di aver tentato.
Se anche lo dovessero arrestare prima che raggiunga il confine (ma ci crede poco), non ci sarebbero prove a sufficienza contro di lui. Rimarrebbe il sospetto, altro motivo di fama. E dal processo non ricaverebbe che ulteriore notorietà. Ha ideato un bel congegno.
David Jason, forse, lo prenderanno vivo. Parlerà di lui? Per come lo conosce, pensa di no. E se anche fosse, il ragazzo farebbe la figura del traditore. Elias potrebbe smentirlo, in tribunale. O altrimenti accusarlo di essere un Giuda, dalla Svizzera. In ogni caso non ne avrebbe danno.
E poi David Jason quasi certamente lo uccideranno, per fermarlo o per rabbia nei momenti convulsi del dopo. Ad Elias dispiace per lui, gli dispiace davvero, lo ha in simpatia. Non lo manderebbe così allo sbaraglio se l’occasione non lo meritasse. Ma di ragazzi generosi e avventati come il poeta ne verranno tanti, magari proprio perché attratti da quell’atto di giustizia che si sta per compiere. Di capi come lui invece ce ne sono pochi. Sono sacrifici necessari, soprattutto se a farli sono altri. Proprio un bel congegno. Meccanico. Cinetico.

Brani tratti da: Franco Bernini, La prima volta, Einaudi, Torino, 2005.