rivista anarchica
anno 35 n. 313
dicembre 2005 - gennaio 2006


Pinelli Piazza Fontana

Assassinio? No: malore attivo
degli avvocati Marcello Gentili, Bianca Guidetti Serra e Carlo Smuraglia

 

Né suicidio né omicidio. Così sentenziò, nel 1975, il giudice istruttore D’Ambrosio, coniando una nuova fattispecie: il malore attivo.


Né suicidio, né omicidio. Pinelli morì per malore.
Questo, in sostanza, il succo della sentenza con cui il giudice D’Ambrosio scrisse la parola “fine” alle indagini della magistratura sul caso Pinelli. Era il 1975, erano passati quasi 6 anni da quella notte del 15 dicembre ’69.
“Un malore per il compromesso storico” titolavamo su “A” 43 (dicembre ’75/gennaio ’76) il redazionale di commento a quella sentenza. Una sentenza importante, perché sancì la “verità di Stato” sulla morte del nostro compagno.
Qualche mese prima, mentre ancora D’Ambrosio stava valutando se archiviare il caso (come appunto poi decise) oppure se procedere contro i presunti responsabili della morte di Pinelli, sul suo tavolo erano arrivate due memorie, siglate rispettivamente dagli avvocati Marcello Gentili e Bianca Guidetti Serra (difensori di Pio Baldelli, direttore responsabile di “Lotta Continua”, nel processo contro di lui intentato da Calabresi in seguito alla campagna di stampa portata avanti da quel giornale contro di lui, indicato appunto come principale responsabile dell’assassinio di Pinelli) e dall’avvocato Carlo Smuraglia (rappresentante la vedova Pinelli, costituitasi parte civile contro gli assassini di suo marito). In queste due memorie si confutavano le “prove” dei sostenitori della tesi del suicidio di Pinelli e dell’innocenza dei rappresentanti delle forze dell’ordine presenti nella stanza dalla cui finestra l’anarchico “volò”.
Un lavoro meticoloso, una ricostruzione il più possibile precisa, un costrutto logico più che convincente. Ma del tutto inutile. Lo stato non poteva condannare i suoi fedeli servitori, non poteva incolpare se stesso. Come previsto, li assolse in istruttoria, autoassolvendosi.

Giuseppe Pinelli

Aspetti sconcertanti

Il primo fondamentale aspetto sconcertante, per paradossale che possa sembrare dopo anni di apparente istruttoria di cui veniva data qualche esteriore notizia all’opinione pubblica comprensibilmente ansiosa di conoscere come muore a Milano nell’ufficio politico della Questura un cittadino onesto e scagionato da tutti, è che non è stata fatta tanto l’istruttoria sulla morte di Giuseppe Pinelli quanto una tenace e quasi univoca indagine sulle sue eventuali responsabilità.
Questo, a parte la colossale perizia sui poveri resti ormai scarsamente significativi e alcuni esperimenti grossolanamente riproducenti i fatti: esperimenti certo importanti e del resto richiesti dalla difesa della parte civile, ma per loro natura irreparabilmente insufficienti.
Non è stata fatta, perché si è ignorata l’esigenza fondamentale di porre sotto inchiesta il comportamento del dirigente e dei componenti dell’ufficio politico della Questura di Milano, interrogando in modo analitico e rigoroso prima di tutto i protagonisti e poi i testimoni, che nell’istruttoria originale e nel dibattimento del processo a carico di Baldelli avevano cominciato a indicare delle vie di indagini (…).
Ebbene, rispetto a tutti questi fatti, è stato accertato che Giuseppe Pinelli e in genere gli anarchici che avevano collegamenti politici con lui erano estranei. Per le bombe del 25 aprile, la cosa è ormai acquisita da tempo; per quelle sui treni dell’8 e 9 agosto l’estraneità di Pinelli è stata confermata anche dal rapporto della Pubblica Sicurezza presso le Ferrovie dello Stato di Milano; per la strage, la mancanza totale di qualunque elemento di sospetto, o di dubbio non può certo trovare qualche limite nella ormai svalutata accusa contro Valpreda, né nella artificiosa e forzata discussione sull’alibi di Pinelli né nelle ricerche dei primi mesi dell’istruttoria sulle quali si faranno alcune osservazioni. (…).

Agosto 1969 – Bombe sui treni

Più in particolare, non si è indagato sulle minacce fatte a Pinelli alcuni mesi e perfino pochi giorni prima della strage, attraverso i testi già uditi nel dibattimento del processo contro Baldelli e gli altri più volte indicati, e richiesti dallo stesso Procuratore Generale il 10 gennaio 1973. Si è giunti all’assurdo di ascoltare due volte come teste Ivan Guarneri: colui che aveva riferito della minaccia a Giuseppe Pinelli di “incastrarlo per bene, una volta per sempre”, rivoltagli pochi giorni prima del 12 dicembre dal dirigente dell’ufficio politico, quasi che questi fosse a conoscenza di quanto stava avvenendo. Sentendolo non su questo punto, ma sull’alibi di Pinelli. E così si sono disattese le nostre istanze, da quella del 2 novembre 1971 all’ultima del 6 dicembre 1974. (…).
Insomma, di fronte all’“errore” dell’incontrollata accusa agli anarchici e a Pinelli, i cittadini italiani avevano e hanno diritto di sapere se si è trattato di incompetenza, oppure di complicità con gli autori della strage, o almeno di vedere verificata da parte dell’autorità giudiziaria la prima delle due ipotesi.
Di fronte alla morte di una persona onesta in Questura alla fine di 3 giorni di interrogatori, avevano e hanno diritto di sapere se c’è stata imprudenza e spietata insensibilità resa più traumatizzante da qualche pesante espediente poliziesco: oppure se si è giunti alla conclusione di una lunga e pervicace persecuzione di lui e dei suoi compagni, che lo avrebbe portato a un gesto disperato; oppure se altro c’è stato e perfino un omicidio.
L’indagine, per quanto imposta dalla evidenza dei fatti, è stata oggettivamente elusa. Prima con la sentenza di proscioglimento dei dirigenti degli uffici politici di Milano e di Roma e dell’Ufficio affari riservati del Ministero dell’Interno senza alcuna specifica indagine (e con qualche irrilevante rilievo critico, che ha portato all’applicazione dell’amnistia per una imputazione); poi, o meglio contestualmente, con l’eliminazione dal processo per la morte di Giuseppe Pinelli di ogni inchiesta sui funzionari dell’ufficio dal quale è precipitato, come se questo fosse avvenuto altrove. (…).
Ma l’aspetto più sconcertante dell’istruttoria è ancora un altro. Ed è che l’esame critico delle contraddittorie e inverosimili versioni dei funzionari di polizia non avviene mai, nonostante le richieste continue e sempre più allarmanti che noi difensori abbiamo reiterato. Soltanto nel terzo anno di istruttoria, prima di chiuderla definitivamente, gli indiziati vengono sentiti. Non viene fatta loro nessuna contestazione, e ci si limita ad acquisire la versione dei fatti già data. Ne sono prova i verbali di questi formali atti, così come quello della generica deposizione del questore Guida.

Quanto agli avvisi di reato, una posizione privilegiata ha poi assunto inspiegabilmente il dirigente dell’ufficio politico Allegra. Questi, pur denunziato come gli altri funzionari per lo stesso contesto di fatti, ha avuto comunicazione solo per il reato previsto dall’art. 606 c.p., amnistiabile e amnistiato, nonché scollegato dalle modalità specifiche con cui è stato trattato ed è morto Giuseppe Pinelli. (…).
La requisitoria del Procuratore Generale impone qualche osservazione specifica, a parte tutto quanto abbiamo scritto o scriveremo in questa memoria.
La prima osservazione è che questo atto, malgrado le sue dimensioni e la chiara strutturazione del discorso, esclude qualunque problema e ogni ricerca di verità su un caso così inquietante e complesso come la morte dell’anarchico.
Il Procuratore Generale che non solo difende gli imputati in un modo che meglio si attribuirebbe a un avvocato che ne tuteli gli interessi e la reputazione, ma scrive come se avesse personalmente assistito agli interrogatori del fermato e, non avendo dubbi sulle frasi pronunziate e sugli atteggiamenti tenuti dai funzionari di polizia, ne constatasse l’assoluta correttezza. Quando si leggono i giudizi positivi sulle frasi che gli indiziati hanno riferito di aver detto a Giuseppe Pinelli e sugli espedienti che hanno raccontato di aver usato, si ha la netta impressione che il Procuratore generale non si ponga neppure il problema che i fatti possano essere stati diversi o anche di poco peggiori. (…).

Milano, 25 aprile 1969 – Bomba alla Fiera campionaria

Le ipotesi astratte di questa precipitazione si sono sempre limitate alle seguenti:

  1. Ipotesi del malore e della precipitazione accidentale. Pinelli, sentendosi male durante l’interrogatorio, chiede e ottiene di recarsi alla finestra per prendere aria e quivi, colto da malore, è inopinatamente scivolato fuori dalla ringhiera cadendo nel cortile.
  2. Ipotesi del suicidio. Pinelli, sconvolto per quello che ha udito, pur essendo estraneo alla strage, riesce a scavalcare la ringhiera e a lanciarsi nel cortile.
  3. Ipotesi dell’omicidio preterintenzionale. Pinelli colpito violentemente nel vano della finestra, precipita in modo fortuito.
  4. Ipotesi dell’omicidio a mezzo della defenestrazione per occultare precedenti lesioni o perché lo si ritiene in imminente pericolo di vita. È quanto avviene all’anarchico Frezzi precipitato durante un interrogatorio della polizia, in circostanze analoghe a quelle di Pinelli (si ricorda un precedente lontano, ma è pur vero che non si ha notizia di vicende analoghe e tanto meno alla Questura di Milano, dovute a suicidio).
  5. Ipotesi dell’omicidio mediante defenestrazione. È questa l’ipotesi più tragica e suggestiva, che non farebbe che aggiungere un altro morto ai tanti possibili testi della strage, eliminati anche in modo analogo, talvolta con apparente precipitazione suicidiaria: Muraro e Ambrosini.
Scartata la prima ipotesi perché poco verosimile ed esclusa dai periti e dai consulenti tecnici, non resta che scegliere fra le altre.
Ebbene, contro il suicidio stanno il carattere di Pinelli, la sua passione politica, le sue convinzioni, il suo amore per la famiglia e la vita, il suo stato d’animo di quel giorno, la difficoltà fisica, in una stanza come quella e in presenza di tanti funzionari, di raggiungere e scavalcare la ringhiera e parte la sua estraneità a qualunque fatto delittuoso. Insomma, praticamente tutto quello che si conosce di Pinelli ed è stato accertato. (…).

Avv. Marcello Gentili
Avv. Bianca Guidetti Serra

L’avvocato Marcello Gentili

Una menzogna allegra

(…). Ma il fatto è che una serie di considerazioni del P. G. si distruggono da sole e non hanno bisogno di confutazione. Ci limiteremo a rilevare come nella requisitoria si segua pedissequamente l’impostazione difensiva del principale difensore degli imputati e, talvolta, lo stesso contenuto dei rapporti giudiziari redatti dal Dott. Allegra. E già questo è rivelatore di una presa di posizione apodittica, prima ancora che ancorata a dati obiettivi ed a sicure emergenze processuali.
Né ci soffermeremo sul fatto che per il P. G. le deposizioni di alcuni testi sono sospette solo perché si tratta di anarchici, mentre si dà pieno credito a coloro il cui interesse nel processo – per essere indiziati o imputati – è più che evidente, tanto che perfino le loro contraddizioni vengono addotte a prova di spontaneità!
La presa di posizione di partenza del P. G. è tale che egli ammette che ci sono imprecisioni, discordanze, contraddizioni, che il rapporto iniziale fu superficiale e leggero (da notare che c’era di mezzo un morto e in quali circostanze!), che ci furono errori ed illegalità per quanto riguarda il fermo di Pinelli, ma da tutto questo che cosa deriva? Neppure l’ombra del sospetto, neppure un indizio, nulla, anzi la prova della buona fede dei prevenuti.
Su queste basi, non c’è contraddittorio, non può esservi confronto e dibattito di idee. C’è solo una tesi cui si vuol credere a tutti i costi e che da tutti viene avallata, perfino dagli argomenti decisamente contrari.
Ci sono obiezioni di illustri consulenti di parte? Non se ne tiene conto, perché si tratta di persone rose dal tarlo della politica o dedite alle esercitazioni accademiche.
Si parla di minacce al Pinelli? E che rilievo possono avere, se si tratta solo di – più o meno amichevoli – “esortazioni”?
Pinelli fu fermato illegalmente? Ma che diamine, c’erano elementi fortemente indizianti e perfino una notizia confidenziale che lo dava per implicato in traffici di esplosivi.
Le norme sul fermo non furono applicate rigorosamente? Ma anche questo si spiega con l’eccezionalità della situazione, con l’avallo dei superiori e nientemeno – col consenso delle persone fermate, tutte pronte a collaborare nelle indagini.
Fu fatta un’irregolare e illegittima contestazione al Pinelli? Sciocchezze, piccoli trucchi di mestiere inammissibili per un Magistrato, ma spiegabili e pensabili per un funzionario di pubblica sicurezza. (…).

Avv. Carlo Smuraglia


Le edizioni francese, tedesca e italiana del libro di Luciano Lanza. È prevista a breve una edizione inglese


Bombe
e segreti

È appena uscita, per i tipi di Elèuthera, la ristampa del volume “Bombe e segreti” di Luciano Lanza. Compagno di Pinelli nel circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa, Lanza ha partecipato a tutte le fasi della mobilitazione sulla Strage di Stato. Nel ’71 è stato tra i fondatori di questa rivista. Attualmente è direttore della rivista trimestrale “Libertaria”. Ecco la sua premessa alla seconda edizione del libro.

La strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969, segna un punto fondamentale della storia italiana del dopoguerra. Quel giorno si materializza la criminalità di una classe politica che, per conservare il potere di fronte all’avanzata del «comunismo», è pronta a tutto. Anche a lasciare morti sul suo percorso pur di non veder messa in discussione la sua leadership. Quella strage non è una pagina oscura, non è la «notte della repubblica», è un capitolo chiaro, preciso: meglio i morti che un cambiamento. E di morti, negli anni successivi, ce ne sono stati molti. Per mano soprattutto della destra, ma anche della sinistra. Un gioco perverso: la destra aveva attaccato, la sinistra doveva rispondere. Anzi, doveva innalzare il «livello di scontro».
Una logica assurda che ha messo in crisi quasi tutte le proposte di cambiamento radicale della società italiana. In questa ottica la bomba di piazza Fontana ha segnato e scritto la storia. Che è anche una storia infinita. Dagli anarchici «pazzi criminali» si passa ai nazisti e fascisti colpevoli. Accomunati sul banco degli imputati, verranno assolti tutti. E i colpevoli? Non esistono. Poi rispuntano responsabilità dei nazi-fascisti quando i principali colpevoli non possono essere più condannati. Infine altri te processi che un’altra volta mandano tutti assolti. Una vera commedia all’italiana, se non fosse una tragedia.
Una tragedia che vede negli attentati del dicembre 1969 il momento centrale di una strategia che doveva portare, nelle intenzioni degli esecutori, a un regime autoritario, ma che è stata gestita dai più alti organi dello Stato per mettere fuori gioco gli avversari politici e per creare un clima di paura che perpetuasse la centralità della Democrazia cristiana e dei suoi alleati. In questo senso la bomba di piazza Fontana è l’analizzatore della società italiana: mette a nudo il ruolo di ministri, servizi segreti italiani ed esteri, magistrati, forze di polizia. Tutti coinvolti in un progetto criminale. È l’unica definizione possibile.
Ricostruire quell’avvenimento, che vede le sue premesse nelle bombe del 25 aprile e del 9 agosto 1969, significa dunque individuare l’essenza nascosta dello Stato italiano. Perché non si è di fronte a organismi deviati dai loro compiti. Questa è una grande favola che i mezzi d’informazione hanno cercato di raccontare quando le responsabilità dei «servitori dello Stato» non erano più occultabili. La realtà, infatti, è molto più semplice e sconcertante: «La presenza di settori degli apparati dello Stato nello sviluppo del terrorismo di destra, non può essere considerata ‘deviazione’, ma normale esercizio di una funzione istituzionale», scrive il giudice Guido Salvini, titolare dell’ultima indagine su piazza Fontana. Allora si comprende come il termine «strage di Stato» assuma una valenza che va al di là dello slogan politico, perché individua invece una verità inconfutabile, nonostante le sentenze di assoluzione.
Infine una precisazione. Questo libro è di parte, ma non partigiano. Nel senso che io, l’autore, ho vissuto molte di quelle vicende come anarchico del Circolo Ponte della Ghisolfa. Ho condiviso la mia attività politica (fino al 15 dicembre 1969, giorno della sua morte) con Giuseppe Pinelli e ho partecipato attivamente alla campagna per la liberazione di Pietro Valpreda. Sono quindi coinvolto, anche sul piano emozionale. Ma ho cercato, grazie anche ai quasi quattro decenni trascorsi, di pormi un traguardo: raggiungere il massimo di obiettività possibile.

Luciano Lanza