rivista anarchica
anno 35 n. 313
dicembre 2005 - gennaio 2006


società

Comunicare o apparire
di Francesco Codello

 

La nostra società è in una fase di acuta e drammatica implosione. Urge una presa di coscienza individuale.


È forse una società autistica la nostra? È una domanda ricorrente nei miei pensieri in questi ultimi tempi a cui vorrei dare una risposta.
Naturalmente rispondere significa per me spiegare e descrivere, ma anche essere convinto che sia un problema che può interessare molti di noi, poiché non è ininfluente capire esattamente qual è la qualità dei rapporti umani nelle nostre società.
L’autismo è quel disturbo, frequente nella schizofrenia, caratterizzato dalla perdita di interesse per il mondo esterno, con una forte chiusura in sé stessi e, talvolta, anche con una produzione cospicua di fantasie, allucinazioni, deliri.
Come si può capire subito, l’autismo è un disturbo individuale che attiene all’essere nel suo relazionarsi col mondo. Quindi sembra contraddittorio attribuirlo ad una società, ad un gruppo, ad un insieme, ad una entità non individuale. Ma in questo caso penso proprio che sia una definizione corretta e cercherò di spiegarmi meglio.
Il comportamento autistico, uscendo dall’uso e dall’abuso culturale della psicologia e della psichiatria, può apparire come una risposta automatica di resistenza all’intromissione massiccia e soffocante dell’insieme sul e nel singolo. Quando ci sentiamo oppressi nella nostra esistenza, invasi nella nostra intimità, occupati nello spazio e nel tempo, tutti (molti) diventano autistici. Voglio anzi sostenere che questo atteggiamento di ribellione viscerale alla limitazione stressante della propria individualità è indispensabile per sostenere e garantire lo spazio autonomo di ognuno di noi.
Ma, nella sua accezione patologica, l’autismo è un ripiegamento implosivo, un ostentato e quasi masochistico rifiuto di stare con gli altri, o meglio, di riconoscere gli altri.
In ogni caso l’autismo, quando non è imposto dalle allucinazioni e dai deliri di un mondo di relazioni drogate e autoritarie, può essere il tentativo di resistere e di rispondere, cercando in sé stessi la via di fuga alle soffocanti maglie del dominio.

Eccesso di comunicazione

Ma quando questa incomunicabilità esistenziale ed essenziale si estende ad un gruppo sociale, ad un’intera società, diventa un fenomeno molto, molto preoccupante. La mia preoccupazione, si badi bene, non è quella del sociologo asettico che descrive i fenomeni, ma quella piuttosto di chi sente addosso questa realtà di isolamento e di sofferenza.
Una delle poche certezze che ho conservato nel tempo è quella della naturale socialità degli esseri umani, del bisogno vitale di stare insieme all’altro, non solo per la sopravvivenza ma soprattutto perché non è possibile alcuna libertà, nessuna autonomia, senza anche quella di chi ti è prossimo; anzi, oggi più che mai, abbiamo capito tutti che le condizioni di coloro che pure ci sono lontani (geograficamente e culturalmente) sono determinanti per definire le nostre.
Allora la riflessione, quando si ha la percezione che la società nella quale si vive, e questa nel suo rapporto con altre più lontane, sia in una fase di acuta e drammatica implosione, diventa drammatica e significativa per ognuno di noi.
Ma come, potreste obiettare, nella società fondata sulla comunicazione, dove tutto, ma proprio tutto, è soggetto alle regole della comunicazione, dove il trionfo di tutto ciò che è hi-tech è finalizzato a mettere in relazione comunicativa gli individui, dove la ricerca scientifica è un business mediatico prima che sostanziale, dove il terrorismo di stato o fondamentalista cura, in maniera ossessiva e perfezionista, all’estremo, proprio e soprattutto il comunicare, dove molti seguaci dell’alternativismo e dello scontro politico cercano ossessivamente l’apparenza e la visibilità che diventa poi il vero scopo e il vero obiettivo (in mancanza evidentemente di più sostanziali idee), dove abbiamo appena celebrato la potenza comunicativa delle varie religioni, dove ogni cosa, ogni respiro, ogni esistenza trovano il loro senso nell’essere comunicate e raccontate (pensate a chi ormai si esibisce in TV anche quando sta al cesso, in isole più o meno famose), dove tutto insomma è apparenza condivisa e sostenuta, in questa società noi potremmo descrivere l’autismo sociale?
Penso proprio di sì, penso anzi che questo eccesso di comunicazione drogata, questo bisogno sfrenato di mettere a conoscenza di tutti ogni pensiero, ogni sentimento, ogni azione, ogni fremito individuale, dimostri drammaticamente che non esiste alcuna comunicazione vera, che la solitudine forzata, il ripiegamento su sé stessi, costituisce la realtà.
Tutto ciò potrebbe anche essere un bene se fosse una libera scelta, consapevole, di ritirarsi e di resistere all’invasione barbarica della società di massa, ma solo pochi sono consapevoli di ciò che stiamo vivendo, troppo pochi sono in grado di sviluppare comportamenti alternativi, sani, semplici, immediati, liberi, autonomi.

Disegno di Franklin Hammond

Confini inviolabili

Per la maggioranza di noi, esseri umani mai così piccini e limitati come oggi, apparire in questa orgia mediatica e comunicativa, diventa uno dei nuovi bisogni indotti, una delle ragioni di autostima e di autoconsiderazione.
La comunicazione, così connaturata all’essere umano, è in questo mondo completamente saltata, non c’è più, non esiste. Possiamo trovare tutto ciò che ho sommariamente e schematicamente descritto prima, ma la comunicazione vera non alberga più nelle relazioni umane. Basta stare in macchina ad un semaforo, ascoltare i commenti in una fila davanti ad un ufficio qualsiasi, aspettare il proprio turno alla cassa di un supermercato, osservare degli adolescenti (ma non solo) quando si misurano con una play station o quando sono in un qualsiasi ritrovo, per capire che quello che sto sostenendo è più di un pericolo, ma è, piuttosto, una disarmante realtà. Allora l’autismo non ci apparirà più come una patologia individuale, non ci preoccuperà più in quanto reazione personale esasperata tendente al ripiegamento estremo in sé stessi, ma si paleserà come una caratteristica fondante di questa società di massa.
La via d’uscita è innanzitutto una presa di coscienza individuale, un lavoro faticoso e continuo in noi stessi, un rifiuto di queste logiche dell’apparenza e della comunicazione totalizzante e forzata. Ma non basta. La potenza suadente della comunicazione mediatica e delle sue logiche è veramente forte, invasiva, ammagliante, subdola. Neanche l’estremizzazione dell’alternativismo, della ostentazione supponente e saccente, dunque autoritaria, della propria presunta diversità, mi pare utile alla causa.
La cosa più difficile e anche più utile è quella di tracciare sistematicamente dei limiti del proprio essere nei confronti delle cose e degli altri, non rifiutare queste cose o questi esseri umani. Sono tutto ciò che garantisce anche a noi una esistenza degna di essere vissuta. Ma tracciare il limite oltre il quale non andare, segnare i confini inviolabili della propria dignità, libertà, autonomia, è indispensabile, oggi più che mai. È difficile, tremendamente difficile e faticoso. Ma è l’unica cosa concreta, sistematica, quotidiana, che possiamo fare per garantire ai nostri sogni di essere ancora appetibili per i nostri figli.
Comunicare è essenziale per la nostra vita, esprimere noi stessi, ciò che siamo veramente, è il senso forse più vero di un progetto di società che esploda ogni giorno in una nuova, libera, significante, comunità nella quale, ancora una volta, ricordiamolo, ciò che esalta l’individuo e lo rende degno di considerarsi tale, è il riconoscersi nell’altro senza vergognarsi di appartenere al genere umano.

Francesco Codello