rivista anarchica
anno 36 n. 314
febbraio 2006


poesia&musica

Il sogno gemello
di Mauro Macario

 

Festival Ferré e Club Tenco, 2005: due appuntamenti di grande spessore.

 

“Un uomo senza sogni è una specie di cinghiale laureato in matematica pura”.
Così Fabrizio De André, lapidario e ironico, rispose a una domanda di Vincenzo Mollica che lo interrogava su una tipologia subumana che sta a un poeta come un prodotto OGM a un’erboristeria.
Ma poiché un artista – un artista etico come lo intendeva Faber – non vive solo entroflesso in un chiuso intimismo solipsistico ma, al contrario, si espande come un alato incursore critico in una visione globale del proprio tempo storico-sociale sovente con veggenze profetiche di stampo pasoliniano, chissà se allora l’autore ligure si rese conto di aver espresso non solo un’opinione soggettiva circoscritta ai rapporti interpersonali di corta gittata ma, alzando il tiro, di aver centrato con una freccia al curaro (che vola di bocca in bocca) il fenomeno collettivo epocale che è la perdita del sogno, la sua disidratazione, la sottrazione progressiva dei suoi addendi onirici e lirici, la persecuzione programmata. Si dice che il sogno sia nato con l’uomo eppure sono gli uomini a fare di tutto per sopprimerlo fin nel suo embrione, questo sì dovrebbe indignare i sostenitori del movimento per la vita, questo sì è genocidio invisibile. Smascheriamo i cinghiali e ci conteremo sulle dita. Forse tutto questo sta accadendo su scala mondiale perché è il sogno la fonte energetica alternativa che non costa niente, non produce ricchezza tangibile e lucrosa alle multinazionali, non spinge nessuno a diventare complice o paggio presso le loro caste e castelli.
E, ultima ipotesi, perché ci contagia della sindrome di Spartacus, malattia genetica per fortuna senza vaccino malgrado le sperimentazioni invasive che vanno dalle percosse di tipo artigianale (vedi G8 di Genova), ad ampie strategie transnazionali (vedi piazza Fontana), e infine approdano alla più sottile e non meno feroce manipolazione mediatica atta a creare una società di mutanti rimodellati da un’encefalite letargica con diritto di voto pilotato. In questa metamorfosi indotta dall’ipercapitalismo selvaggio c’è un’asportazione ancora più profonda e inquietante: il senso del sogno prima del sogno mirato. Una procedura di disinnesco eseguita da artificieri di regime.

In un tempo relativamente lontano, prima il movimento beat, poi il Sessantotto proponevano, con coinvolgente aggregazione delle giovani generazioni, aspirazioni, rivendicazioni, lotte condivise: la guerra nel Vietnam, il disarmo nucleare, la condizione operaia, la riforma della cultura, la redistribuzione dei beni secondo un’ottica socialista, l’aborto, il divorzio, e via di questo passo all’insegna di una ridisegnazione globale dei sistemi politici. Quello che invece il nostro attuale sistema planetario vuole sradicare dall’individuo è lo stadio precedente al sogno,il suo senso primordiale come attività equiparabile alle altre funzioni biologiche,cioè la pulsione e la propulsione che anima “l’uomo sensibile” rispetto “all’uomo meccanico” e che lo conduce alla speranza.
Ci stanno amputando la speranza sostituendola con protesi deperibili nel tempo fatte di materiale illusionistico e drogante, scambiando i soggetti per oggetti in un rapporto unidirezionale di acquisto e vendita. Un mondo che si regge su queste basi non può che implodere. Il sogno, scippato alla sua radice, chiude lo scorcio sull’immaginario, deride la chimera, e alla mancanza di alternativa reale di un progetto d’insieme aggiunge la mancanza di un’alternativa sognatrice individuale,quella che Rimbaud definiva “l’altra vita”, un luogo esistente nell’altrove. Non ci vogliono dare “l’altra vita”, dobbiamo forgiarla come un manufatto.
Leò Ferré diceva: la felicità è una rapina. Assaltiamo dunque la prigione dei sogni rinchiusi nel braccio della morte e liberiamoli nell’auditorio poetico delle strade. Il sogno, qualunque sogno, ci collega direttamente e per via viscerale alla poesia (non si sa chi dei due abbia generato l’altro) ma questa duplice soppressione bio-culturale deferisce il potere, qualunque potere, a una seconda Norimberga per rispondere di crimini contro l’umanità e contro l’umanesimo. Un paese di apparenza democratica dovrebbe almeno adempiere a tre elementi primari della vita sociale: il lavoro, la sanità, la cultura. La cultura oggi è sopportata con fastidio, come un’appendice inutile, un dovere istituzionale ma non un diritto popolare. La cultura autonoma e qualitativa vive di volontariato e martiri.
Un governo che concettualmente preferisce le palestre del corpo alle palestre della mente persegue un fine di asservimento attraverso l’ignoranza d’allevamento che troppo spesso, alla fine, bussa alla sua porta per essere assunta a tempo indeterminato, unico contratto non flessibile che fa comodo. Non far sì che cliccando l’icona dell’utopia debba aprirsi ancora una volta quella finestra del quarto piano dalla quale potresti volare spinto da un “malore attivo” ma soprattutto da un hacker statale di buona volontà. Quell’hacker cancellerà te e la finestra.

Leò Ferré

Arma di ricostruzione di massa

La traccia, a dispetto di tutti, la lasceranno i poeti, quelli si amati dalla gente, e ci restituiranno il sogno e i suoi derivati. Il potere non crede che la poesia è l’arma di ricostruzione di massa negli arsenali del sogno, carichi d’amore micidiale, perché il canto è l’esperanto dei popoli che si identificano in un comune sentire, in un solo destino di autodeterminazione, in quel linguaggio sotterraneo che sostituisce la lingua codificata entro i confini in un vasto processo di anelito in espansione e se il sogno è un luogo invisibile, oggi ancor più occultato, ci sarà pure da qualche parte, magari imbavagliato, mimetizzato, in ostaggio, con l’orecchio mozzato. Ma sarà sempre l’orecchio di Van Gogh piuttosto che quello di Getty.
L’origine più remota, arcaica, della poesia, è cantata, unita alla musica e alla voce, in un rapporto gemellare tra parola e suono. Una poesia a tutti appartenente, interpretata e divulgata all’aperto e che va dal canto epico a quello elegiaco, dalla satira giullaresca ai cantastorie di strada, giù, giù, fino ai più recenti canti di lavoro e di lotta. Ma nel corso dei secoli questo cordone ombelicale è stato reciso, forse dall’avvento della carta stampata, sicuramente dagli accademici più ottusi e retrivi di ceppo catto-borghese che hanno sostenuto solo la musica colta ritenendo quella popolare, frivola e incatalogabile ai criteri di merito e di qualità all’interno delle sue molteplici diversificazioni e livelli creativi. Questa frattura, non più risaldata, è come una linea di terra spaccata da un terremoto quando le due incrostazioni si separano.
La spaccatura ha provocato un assesto classista delle discipline artistiche dividendole in compartimenti stagni e incomunicanti tra loro. La cultura ufficiale dispiega le sue forze critiche in senso euclideo.
La stessa poesia letteraria, in questi ultimi vent’anni, ha perso la sua carica eversiva, la sua etica situazionista, l’indignazione civile, la pulsione utopica, e soprattutto non ha più rispecchiato l’anima di un popolo e le sue vicende, ritirandosi aristocraticamente in astrattismi ermetici e enigmatici nella forma e nel contenuto, e disgiungendosi così dal contesto sociale che la scavalcava in attesa di una nuova genia di aedi.

I cantautori, grandi poeti del nostro tempo, hanno riconquistato il posto vacante, la piazza, il racconto orale cantato, hanno colmato un bisogno onirico multigenerazionale, hanno riconfigurato, interpretandolo, l’immaginario collettivo. E, forse senza saperlo, hanno riportato tra le folle un dimenticato senso di fraternità. Per contrastare l’embargo del sogno, dobbiamo andare in vacanza premio su due isole salvifiche, vere beauty-farm dell’anima a prezzo politico che resistono ai marosi del cretinismo nazional-popolare: la Rassegna del Tenco e il Festival Ferré. Manifestazioni contrassegnate dall’autodeterminazione, dal volontariato, e dall’assoluta indipendenza dal mercato discografico.
Quest’anno il Tenco ha festeggiato il 30° e per il sottoscritto da poco entrato in quella comunità che in tre giorni (e tre notti) ti disintossica dagli avvelenamenti mediatici quotidiani, dalla bassa qualità umanistica del presente epocale, dalla disgregazione alienante di una solitudine collettiva, è stata un’avventura di viaggio, un safari nella canzone d’autore internazionale attraverso mostre e documenti che narrano la storia di un miracolo laico, di un’ottica nuova nel modo di far cultura, dell’armonia ancora insita in una dimensione tribale.

Ecco dunque sfilarmi davanti la magica mestizia di De André, la furia anarchica di Ferré, l’intimismo commovente di Paoli, il Canzoniere plurigenerazionale di Guccini il Grande, la nobile delicatezza di Endrigo, il romanticismo incompreso di Bindi, l’asciutta disperazione esistenziale di Ciampi, l’anima insurrezionale e dolente di Mercedes Sosa, l’inedito stupefacente Virgilio Savona, l’eroica e discreta Giovanna Marini, l’impeto dirompente della libertaria Gianna Nannini, il pentagramma per arpa e sogno di Roberto Vecchioni, lo zanni post-moderno Giorgio Gaber, l’immaginario anomalo tra arcaismo e futuribile di Franco Battiato, e l’estremo saluto di Charles Trenet. Senza dimenticare il compagno perduto che da il suo nome all’evento annuale, senza dimenticare il più pavesiano tra gli autori-interpreti che voltando pagina ha scritto il nuovo capitolo della poesia in musica in Italia: Luigi Tenco, l’insostituibile. Questi e altri innumerevoli artisti li si ritrovano nel libro edito dalla Rizzoli e curato da Enrico de Angelis, massimo saggista italiano della canzone d’autore, Quelle facce un po’ così... veri ritratti, colti nell’istante più significativo di un’interpretazione, dal cuore ottico di Roberto Coggiola, in bilico tra impressionismo e espressionismo in un assolo d’immagini d’una classicità figurativa che pare scolpita su lastre di marmo.
Unito al volume c’è un cd registrato dal vivo che contiene brani cantati da G. Paoli, R. Vecchioni, F. Guccini, E. Jannacci, A. Branduardi, B. Lauzi, G. Conte, O. Vanoni. All’interno è possibile ripercorrere la storia e lo spirito del Tenco attraverso i testi di Enrico de Angelis, Riccardo Bertoncelli, Michele Serra, Vincenzo Mollica, Sergio Secondiano Sacchi, Antonio Silva, Roberto Vecchioni. Il libro si apre con una dedica al fondatore del Tenco, l’indimenticabile Amilcare Rambaldi, vero partigiano del sogno.

Luigi Tenco (grazie per la foto a Enrico De Angelis)

Ogni autore con il proprio intervento lo ricorda secondo una sensibilità personale ma comune a tutti è l’afflato di gratitudine, la devozione inalterata, la fedeltà ai suoi criteri di scelta. Inoltre è da ricordare come la Rassegna abbia costantemente promosso gruppi e cantautori esordienti o in sala d’attesa che altrove non avrebbero goduto di una vetrina così attenta e solidale. Ultimi esempi: i raffinati Têtes de Bois e il nostro intenso Alessio Lega. Certo, le tre serate celebrative hanno offerto le performance di alcuni giganti della poesia cantata: Guccini, Vecchioni, Conte oltre ad ospiti di grande valore che hanno completato questa edizione ma voglio sottolineare anche, al di fuori dei recital, l’iniziativa degli incontri mattutini con interpreti, autori, saggisti. Su tutti quest’anno svetta l’acclamata partecipazione di Fernanda Pivano, traduttrice e saggista antiaccademica (spesso osteggiata in suolo patrio) che prima di chiunque altro amò e divulgò in Italia i protagonisti della gloriosa, immortale epopea beat, quei Kerouac, Ginsberg, Corso, Ferlinghetti e tanti altri che sempre batteranno nel nostro cuore. Nanda poi ha presentato il documentario A farewell to beat di Luca Facchini, pura poesia “on the road” con lei sulle tombe degli amici perduti. Se questo film si proiettasse nelle scuole l’approccio alla poesia da parte dei giovani sarebbe diverso.
Bisogna proporlo alla Moratti. Quando di sera, sul palco dell’Ariston, Nanda è stata premiata, il pubblico, tutto in piedi, le ha decretato un’autentica “standing ovation” di grande commozione. Il suo rapporto d’amore con i poeti in musica è notorio. Fabrizio De André, Bob Dylan, Lou Reed, e altri ancora sono passati per il suo pentagramma lessicale. I miei amici cantautori è infatti il titolo del suo ultimo libro. Ma, per concludere, il Tenco è anche il modo di stare insieme dopo i concerti quando tutti si sale a cena ai piani superiori dove la notte si snoda intrecciando nuove conoscenze,ritorni inaspettati, confidenze alcoliche, sfoghi esistenziali, comprensioni istintive, sintonie critiche. Èallora che ricordo quando con Faber si parlava delle microcomunità indiane dove la frantumazione dei piccoli numeri che formavano la tribù forse ci segnalano l’unico modo possibile di una maggior armonia socio-esistenziale in seno al consorzio umano. Un po’ come in quelle notti al Tenco, non lontano dalla riserva di Pine Ridge. Tutto sta a uscire dalla riserva e fare del sogno una nuova Little Big Horn.

Nella cartolina augurale per il 2006 realizzata dalla vedova di Leo Ferré, Maria, è riportata (illeggibile nella nostra riproduzione) la seguente frase di Leo: L’anarchia è una malattia rara, chi ce l’ha se la tiene volentieri
(foto Hubert Graoteclas)

Un mare diverso

Dunque, da questo mar ligure, così a lungo osservato in silenzio da Bindi per scrivere Io e il mare, da Paoli per farne una perla con Sassi, da De André per allargarlo a lidi lontani con Creuza de mä, da Tenco per navigarlo con gli occhi con Un giorno dopo l’altro, ecco che quella nave che sembra un punto lontano giunge a un mare diverso, dall’altra parte della sponda italica, nelle Marche, nel segno di un comune sguardo poetico.
Un mare amniotico che crea fraternità lirica come La mémoire et la mer à l’île du Guesclin in Bretagna... Leò... Leò... Leò...
Storia più recente ma parallela alla Rassegna di Sanremo per spirito, intenti, passione, e scelte propositive è il Festival Ferré che da 11 anni onora e dispiega la figura geniale e irripetibile del poeta, compositore, interprete, romanziere, saggista, filosofo anarchico, direttore d’orchestra di risonanza millenaria Leo Ferré. Innovatore radicale, provocatore viscerale, padre punto sorgivo di tutti i cantautori (e lo conoscono in pochi qui da noi) fondando la chanson di Saint Germain segnò in Europa il ritorno della poesia in musica elevando la canzone ai massimi livelli di raffinata nobiltà creativa. Inoltre (sempre lo ricordo) realizzò un progetto ritenuto impossibile: musicare e cantare i poeti “maledetti” Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e altri ancora come Aragon, Apollinaire, Angiolieri, Baër, Caussimon, Villon, e il nostro adorato Pavese. A San Benedetto del Tronto un professore di francese, amico del Maestro, Giuseppe Gennari, portatore sano di una follia altrettanto benefica e rigeneratrice, organizza tra difficoltà e fatiche inenarrabili e scandalose l’unica rassegna di canzone d’autore che predilige e intensifica la conoscenza dell’asse poetico-musicale italo-francese, in un interscambio culturale che difende l’identità europea (quando l’Europa non era un “kamikaze”del capitalismo americano. Gennari, sostenuto da uno sparuto gruppuscolo di assaltatori del sogno (Gino Troli, Maurizio Silvestri, Pierluigi Gennari) ha portato nella sua terra poco attenta e dal punto di vista delle autorità istituzionali, ingenerosa o apertamente ostile, la proiezione astrale della Parigi storica, quella degli chansonniers, dei bistrots, degli amori notturni e delle notturne barricate di maggio. L’immaginazione al potere? Sì, certo, domani mattina. L’altra vita? Sì, certo, qui e subito. La musica nelle strade? Sì, certo, per sempre e con tutti. È un mago Gennari? Sì, è un mago. Ma deve fare attenzione, il potere oggi ha il prurito agli accendini come l’Inquisizione con Giordano Bruno. Noi però abbiamo la sindrome di Spartacus in questa stagione di Basso Impero.

Nel frattempo dal suo cappello conico intarsiato di stelline azzurre continua a far scendere: sul palcoscenico del teatro Calabresi una pioggia di stelle di prima grandezza: Juliette Greco, Georges Moustaki, Jean Ferrat, Paco Ibanez, Dee Dee Bridgwater, Jane Birkin, Ann Gaytan, Reneé Claude, Nicolas Reggiani, Isabelle Aubret. Anche un Guccini “voce recitante” e non “cantante” che legge Les anarchistes e altri testi di Leo suscitando un entusiasmo pari ai suoi concerti. D’altra parte Francesco mostra sempre di più la sua appartenenza al mondo della parola attraverso i suoi bei libri,una specie di “recherche” contemporanea che a noi della sua generazione coinvolge con particolare emozione. Un altro episodio riguarda Gino Paoli e fa luce definitiva sulla sua toccante umanità a volte ancora in penombra come giustamente da discrezione caratteriale. Era l’anno in cui doveva venire al Festival Umberto Bindi a ritirare la targa Ferré e a esibirsi nel recital istituzionale dei premiati. Bindi muore cinque giorni prima e, oltre al dolore per una perdita così preziosa, il Festival cade nel caos.
Incontro Gino, casualmente, in un autogrill delle Marche mentre sto dirigendomi a San Benedetto e gli racconto la situazione in cui ci troviamo. Senza esitare un istante, mi dice: “Vengo io a cantare le canzoni di Umberto, ma non annunciatelo al pubblico, aprite il sipario e basta”. La sera canta Arrivederci e Il nostro concerto. Un’apoteosi. Non solo è salvo il Festival, ma è il primo omaggio di un amico vero al grande compositore da poco scomparso. Questo è Gino e chi lo conosce ne rimane legato come ad un’ancora affettiva. Perché tutto questo è la fraternità del Ferré, del Tenco e di coloro che vivono dentro a dimensioni che ruotano intorno al sogno ritrovato. Poi anche noi abbiamo il nostro “dopocena” che si svolge nella parte vecchia di San Benedetto, al “Caffè dei poeti”, fino all’alba. Altra microcomunità a confronto: cheyenne e apache non vendono Madre Terra e, soprattutto, non tradiscono il sogno perché – come gridava Ferré – “Alla scuola della poesia e della musica non s’impara: ci si batte!”.

Mauro Macario