rivista anarchica
anno 36 n. 315
marzo 2006


musica

Deflagrazioni sonore
di Mauro Macario

 

Ascoltando l'ultimo CD de Les Anarchistes.

Il mio sogno del tutto personale,
non è propriamente quello di costruire
bombe, poiché non mi piace uccidere la gente.
Vorrei piuttosto scrivere dei libri
che fossero come bombe, vale a dire
dei libri che venissero utilizzati
nel momento esatto in cui vengono scritti
o vengono letti da qualcuno.
Dopodiché dovrebbero scomparire.
Libri, insomma, destinati a scomparire
poco tempo dopo essere stati letti o utilizzati.
I libri dovrebbero essere delle bombe,
e nient'altro.


Michel Foucault
(dal libretto unito al CD La musica nelle strade!)

Anche i dischi (li chiamo ancora così, è più tecnoromantico) dovrebbero deflagrare e spandere migliaia di frammenti sonori lungo una traiettoria speleologica tra l'orecchio emotivo e la coscienza critica.
“Les anarchistes” è un gruppo di fuoco sonoro e colpisce al cuore dello stato discografico, lo ha già fatto con l'album precedente Figli di origine oscura (titolo tratto da un verso di Leo Ferré) e lo fa ancor di più ora piazzando le cariche poetiche-rivendicative di questo secondo straordinario lavoro d'equipe La musica nelle strade! (ancora una volta tratto da un verso del Maestro) rigorosamente coerente con la linea utopica abbracciata ma in netto superamento evolutivo, sebbene la riproposta della canzone anarchica storica opportunamente rivisitata in una veste musicale contemporanea fosse già fin dall'esordio, originale, coinvolgente, catartica.
L'ascolto di questo album dovrebbe destabilizzare le frivole e quanto mai discutibili certezze commerciali dei discografici che se assistessero almeno una volta a un concerto di questa band si renderebbero conto che anima libera e libertaria aleggia e soffia nei cuori, tra il palco e la piazza, che entusiasmo suscita il virtuosismo musicale di ciascun elemento ben delineato nel suo apporto sia esso centrale o complementare, comunque esclusivo.
Dovrebbero sentire le voci di Alessandro Danelli e Marco Rovelli così fraternamente assemblate nell'armonia e nella potenza, nella rabbia e nell'indignazione, negli aneliti e nella speranza. Ma c'è un'altra voce, di fondo, un'onda lunga, un fruscio di risacca, un libeccio sferzante, una culla amniotica: l'anarchia anatemica...
Allora vedrebbero che non esiste solo una gioventù discotecara o qualunquistica, di cultrici di gossip, di bulimici divoratori di quiz, di giovani “forzisti” carrieristi, di fanatici tecnocrati, di lolite cattoliche sotto il balcone papale, ma anche un'etnia a parte, i figli di origine oscura appunto, una razza marchiata dall'oltraggio, una razza millenaria, una razza emergente, per ora sotterranea, per ora a margine di ogni decisionalità, che cerca nella poesia, nella protesta insurrezionale, nella cultura alternativa e provocatrice, di porsi e di opporsi al pragmatismo insolente del profitto, alle coercizioni sempre più limitative di questo nostro casereccio, patetico, “american dream”, alle repressioni selvagge che vanno dal G8 alla TAV della Val di Susa, a questa metamorfosi in atto che intende eviscerare l'umanesimo dei suoi organi vitali e sostituirli con programmi didattici precodificati di stampo scientifico e economico finalizzati all'asservimento della “new digital generation” presso i potentati planetari.
Un disco come questo serve anche a delegittimare, in ambito settoriale, la sottocultura canora nazional-popolare che snatura nel ridicolo melò gli autentici climi intimisti e scavalca, con cecità inammissibile, le problematiche sociali che devastano la nostra epoca.

La band di Les Anarchistes

Analogie interattive

Il libretto, a cura di Marco Rovelli, che accompagna l'ascolto (o il pre-ascolto) in modo itinerante ed esaustivo, è da considerarsi veramente un libretto, un libretto d'opera, tali e tante sono le colleganze trasversali, le analogie interattive, la contrapposizione tra vittime eroiche e vili usurpatori, le trame venefiche del potere, i depistaggi mediatici, la fantasia repressiva, per cui asserire che i brani sono tutti separati e autonomi è tecnicamente esatto ma narrativamente sbagliato perché il senso di continuità, proprio dei concept album, è qui presente al di là della struttura leggibile, come una storia a senso unico (fino a oggi), come una buona novella rinviata, come un cantore solitario nella terra del fuoco.
Sottotitolo del libretto, una frase misteriosa: Canti della libertà nell'era biopolitica. Rovelli parla della “necessità di guardare al mondo da una prospettiva biopolitica: per comprendere la natura della politica contemporanea, per saper decifrare il potere così come si esplica nei suoi molteplici fenomeni.
Perché solo decifrando il potere per quello che è realmente, solo sapendo riconoscere la logica che lo guida, è possibile contrastarlo efficacemente. Occorre conoscere il nemico per combatterlo.
E conoscere il nemico significa sapere come si muove, e dove egli sia localizzato. O, eventualmente, dove non lo sia”.

Nel capitoletto La società disciplinare i concetti si trasformano in luoghi figurati in relazione diretta con episodi storici passati o presenti, tutti timbrati dalla coercizione, la reclusione, la proprietà dei corpi da parte del potere.
Poche pagine illuminanti che bisognerebbe distribuire agli studenti fin dalla più tenera età. Scorrono come in una tragica passerella le ancor più tragiche scenografie delle detenzioni e dei massacri: il carcere, la clinica, i campi di concentramento, di sterminio, di lavoro, Guantanamo, Belgrado, la guerra di Spagna, il gulag, l'emigrazione, la telesocietà dello spettacolo.
Personaggi che ormai appartengono al nostro immaginario quotidiano, in fondo a un'affettività segreta, attraversano e timbrano queste storie gridate: Sacco e Vanzetti, Sante Caserio, Oberdan, Pedro Benje, e altri ancora.
Il valore musicale, testuale e interpretativo di questa “opera”, l'omogeneità stilistica e tematica, rende ardua la sintesi critica e non giustificherebbe la sottolineatura di alcuni brani e il silenzio su altri, ma oltre alle voci omeriche di Alessandro Danelli e Marco Rovelli (Inno a Oberdan/A las barricadas/Il bagno alla bianca/Il maggio di Belgrado), voglio ricordare, tra gli ospiti esterni (Il Parto delle Nuvole Pesanti, Erri De Luca, Mathias Schubert, Piero Milesi, Peter Rail, Marco Cattani, Raul Colosimo, Pietro Bertilorenzo, Hyperion Ensemble) il lamento straziato di Moni Ovadia nel canto Pishkuli che veniva intonato dai khassidim prima di entrare nelle camere a gas, l'eroica e discreta Giovanna Marini nella Ballata dell'Emigrazione, la commovente e sublime Petra Magoni in una versione della Ballata di Sacco e Vanzetti che non ci fa rimpiangere Joan Baez, anzi.
Un grazie infinito a Cristina Alioto e Claudia Guarducci per l'emozione che ci donano in Pedro Benje, come a Steve Conte per la canzone X-Ray Sun.
Les Anarchistes agli strumenti musicali sono: Nicola Toscano, chitarra transnazionale, Max Guerrero, prog, key, grooves, synth e altre guerre stellari, Mauro Avanzini, lavico sax e gentile flauto, Lauro Rossi trombone da eclettici, raffinati blitz, Gianfranco Antuono basso d'attacco per Oberdan e A las barricadas, Mirko Sabatini, stile e furia umana alla batteria solitaria.

Voci aspre, voci accorate

Si potrebbe definire “una storia a parte”, invece è il risultato dimostrativo della teoria che si fa pratica, la realizzazione collettiva del “recitativo” di Leo Ferré Muss es sein? Es muss sein! magistralmente interpretato da un gruppo di detenuti del carcere di Volterra radunati nella Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo, assistente Sabino Mongelli, autore e interprete della bella, mesta canzone Nel giardino incolto. Nicola Toscano ha diretto invece il Coro degli attori-detenuti della Fortezza. L'organico è formato da: Bekir Ben Mahmoud, Ceka Gentian, Idris Wadda, Jamel Soltani, Erzen Kasa, Michele Tancredi, Santino Matrone, Pasquale Cavallaro, Mario Zidda, Aniello Arena, Nicola Camarda, Sebastiano Minichino, Prince Onyera. Le voci recitanti sono Antonino Mammino, Alì Mimoun Barouni, e Adamo Salatino.
Voci aspre, voci accorate, voci che raccontano più di quello che cantano, impeti viscerali, gole rauche di quercia. Ero lì con loro, a Volterra, la scorsa estate, in piazza, all'aperto, di sera. Dal buio delle quinte dove mi trovavo per ascoltare l'esecuzione di questo brano, potevo vedere su quei volti appassionati di gente libera nella poesia, le stradine assolate dei loro paesi d'origine, la loro infanzia spesso difficile, la speranza un lusso. C'era anche Maria Ferré, moglie del poeta, che a fatica ha trattenuto la sua commozione, soprattutto quando alcuni di loro l'hanno avvicinata per conoscerla. Nessuna canzone può restituire quei momenti in cui un microcosmo diventa un macrocosmo. O forse una sola: A las barricadas! A las barricadas!

Mauro Macario

Fuochi di parole

La società dello spettacolo è la società del linguaggio alienato. Ciò che viene messo sul rogo è ogni capacità critica, si incenerisce sul nascere ogni forma di dissenso: come una volta si bruciavano eretici e streghe, oggi si fanno roghi di parole, private di ogni senso, di ogni verità.
Vi è la necessità, dunque, di riappropriarsi delle parole – del linguaggio. Come ci si riappropria delle parole? Solo nella pratica.
I banditi (coloro che soggiacciono allo stato di eccezione permanente) non hanno voce: essi, come osserva Hannah Arendt, non hanno più linguaggio (inteso, sulla scorta di Aristotele, come specificità dell'uomo in quanto essere dotato del potere di pensare e parlare, ovvero di regolare la convivenza – dunque di far politica – con la parola). Sono schiavi (che infatti Aristotele non annoverava fra gli umani).
Nell'analisi di Guy Debord, la società dello spettacolo (della quale l'apparato dei mass-media non è che l'icona) è la società del trionfo delle merci (del feticismo della merce, secondo la classica analisi marxiana) e dell'alienazione umana. Ma se lo spettacolo è la comunicatività umana (se esso riguarda l'essere linguistico dell'uomo), allora l'alienazione non consiste solo nell'espropriazione dell'attività produttiva dell'uomo (come nell'analisi classica marxiana), ma anche nell'alienazione del linguaggio stesso. L'uomo non crea più nulla. Si limita a subire. Noi viviamo nell'Impero della passività.
In questo senso siamo tutti banditi.
E nostro compito è riprenderci la parola.

Sulle pire accese bruciano le streghe
I loro corpi d'estasi ribelli a ogni potere

Bruciano i matti Bruciano i profeti
Barbari inquisiti da giudici e da preti

Bruciano gli eretici Brucia fra' Dolcino
Che sui monti prese le armi su consiglio divino
E poi bruciano i libri che sono armi puntate
Da chi si riprende le parole contro chi se l'era rubate

A parole fuochi di parole
A parole oltre le parole
A parole dentro le parole
A parole armati di parole

Si fondono nel fuoco in quel santo campo
Le parole nere e il loro fondo bianco

E si fanno cenere di cui cospargersi il capo
Per poi chinarlo muto ai piedi di chi ha giudicato

Che non siano cenere ma polvere da sparo
Quando il capo è tagliato tutto è molto più chiaro

E che ogni lettera si faccia capitale
Centro infinito finito e decentrato di un ordine innaturale!

Les Anarchistes