Pensatore e
militante
Indubbiamente Luigi Fabbri ha dato molto all'anarchismo. In quasi quarant'anni di attività nel movimento anarchico, l'elenco dei suoi articoli e interventi, come si sa, è lunghissimo, e non ci fu, ai suoi tempi, periodico anarchico nazionale o internazionale, di tendenza sociale e organizzatrice, che non lo abbia visto fra i collaboratori. E da questa produzione intellettuale che Fabbri, con intelligenza e lucidità, mise a disposizione di un movimento spesso attraversato da confuse fughe in avanti o da drammatiche incertezze, viene fuori una figura di pensatore e di militante che ha pochi riscontri nell'intero movimento anarchico internazionale.
Ma questo Fabbri, in fondo, già lo conoscevamo e ancor più ne abbiamo potuto apprezzare l'apporto all'anarchismo e al pensiero libertario, nel recente convegno internazionale a lui dedicato, tenutosi a Fabriano nel dicembre scorso. Ora, a integrare questa conoscenza patrimonio degli storici che ne hanno studiato l'opera e dei militanti che cercano di continuare, sulle stesse posizioni, la sua lotta per la libertà, si viene ad aggiungere il preziosissimo Epistolario ai corrispondenti italiani ed esteri (1900-1935), (pp. 528, 20,00 euro) magistralmente curato da Roberto Giulianelli e pubblicato dalla Biblioteca Franco Serantini di Pisa con il contributo del Comune di Fabriano. Si potrebbe azzardare che questo ponderoso volume di oltre 500 pagine, presentato ancora fresco di stampa da Maurizio Antonioli e dal curatore in apertura del convegno fabrianese, lasci intuire, già al tatto, la sua importanza. E non solo perchè aggiunge un altro tassello agli studi sull'anarchismo dei primi decenni del novecento, ma perché permette anche di accostarsi alle dinamiche culturali che resero vivaci e interessanti quegli anni.
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Luigi Fabbri |
Trecentocinquantasette, indirizzate ad oltre settanta corrispondenti, sono le lettere raccolte fra i vari archivi e puntualmente annotate da Giulianelli. E fra i destinatari, accanto ai grandi nomi dell'anarchismo che non potevano mancare – da Malatesta a Guillaume, da Bertoni a Berneri, da Borghi ad Abad de Santillan, da Berkman a Nettlau e Tresca – compaiono anche alcune delle intelligenze più acute degli ambienti laici e progressisti, spesso compagni di strada del pensiero libertario. Ecco quindi le lettere ai fratelli Rosselli, ad Arcangelo Ghisleri, a Oliviero Zuccarini, ad Angelo Tasca, a Jacques Mesnil, a Roberto Michels e a tanti altri, a dimostrazione di quanto Luigi Fabbri fosse sempre attento a cogliere, e a interloquire con i fermenti intellettuali del suo tempo.
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Errico Malatesta |
Come si diceva, è un altro ritratto di Fabbri, quello che emerge da questa raccolta. Davvero impagabile, perché ci permette di conoscere non solo l'uomo pubblico o il raffinato intellettuale che sappiamo, ma anche, come è frequente quando ci si imbatte in questo “genere” letterario, i suoi tratti più intimi e privati: il padre e il marito affettuoso, l'amico ancor più che il compagno degli anarchici a lui vicini, il collezionista di opuscoli e vecchi giornali, il curatore degli scritti di Malatesta, l'editore attento e pignolo, il “consulente” a cui lo studioso si rivolge per notizie e precisazioni. È poi interessante notare, anche se non deve sorprendere, che in queste pagine mai la penna di Fabbri cede all'invettiva o al disprezzo. E che nemmeno quando scrive a compagni distanti, se non addirittura avversari, quanto a concezione organizzativa e sociale della lotta, si lascia andare a considerazioni sgradevoli od offensive, mantenendo sempre, al contrario, una impostazione dialettica supportata dall'affetto istintivo per il compagno di fede. E questo, in anni nei quali non era purtroppo raro che le polemiche trascendessero con facilità, spiega perché sia sempre stato circondato dalla stima di tutti gli anarchici.
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Luigi Bertoni |
Naturalmente, conoscendo l'affetto filiale che Fabbri portò a Malatesta, è all'anarchico campano che sono indirizzate molte delle lettere qui raccolte. Più che a chiunque altro. E in quelle che lui ed Errico si scambieranno negli ultimi anni, traspare indelebile la profonda tristezza causata non solo dalla lontananza imposta loro dal fascismo, ma anche dalla sconsolata analisi su una situazione sociale che sembra non lasciare speranze. E pensare che solo un anno – Fabbri muore nel 1935 – impedirà a questa esistenza, completamente dedicata alla edificazione del progetto anarchico, di vederne la piena realizzazione nella entusiasmante Spagna rivoluzionaria del 1936!
Massimo Ortalli
Il lavoro
rende uomini
La storia delle Umap cubane è poco e mal conosciuta. Le “Unità mobili di aiuto alla produzione” ebbero una vita breve, pochi anni a metà dei Sessanta: erano dei campi di concentramento per omosessuali e “refrattari” d'ogni tipo, dal dissidente politico al seguace degli hippies. Félix Luis Veira, scrittore cubano oggi residente in Messico, vi trascorse otto mesi. All'epoca aveva vent'anni e finì nel mirino del regime, su segnalazione del “Comitato di difesa della rivoluzione” del villaggio in cui abitava, per il suo stile di vita “scandaloso”: capelli lunghi, parecchio gusto per il divertimento, una passione proibita per i Beatles e scarso interesse per il lavoro e le conquiste del socialismo. Era un diverso, uno stravagante e fu inghiottito dall'ansia di omologazione della revolucion castrista. Si ritrovò nella disabitata provincia di Camaguey in un campo di prigionia costruito ai margini di una piantagione di canna da zucchero. Più di trent'anni dopo Veira ha scritto un romanzo vigoroso e commovente – Il lavoro vi farà uomini, Cargo 2005, 271 pagine, 14,00 euro – che ruota attorno alla figura di Armandito Valdivieso, alter ego dell'autore. Il viaggio di Armandito nel gulag cubano rievoca l'orrore della repressione di regime in tutti i suoi aspetti: il “processo” celebrato nel villaggio da parenti e amici di Armandito, le sofferenze inflitte ai prigionieri, lo sprezzante “machismo-leninismo” dei carcerieri, l'assoluta incertezza sui tempi di detenzione e sull'esito finale della prigionia.
Certe pagine sulla vita all'interno dei campi ricordano inevitabilmente le testimonianze dei reduci dai lager nazisti: le angherie dei militari, gli insopportabili ritmi di lavoro, la tenace resistenza passiva dei testimoni di Geova. Guido Vitiello, autore della postfazione, racconta in poche pagine la breve ma intensa storia delle Umap, rimaste in piedi circa cinque anni e chiuse in fretta, una volta “scoperte”, per lo scandalo suscitato in tutto il mondo anche fra i sostenitori del castrismo. Vitiello spiega anche l'origine del titolo scelto per l'edizione italiana (quello spagnolo è Un ciervo herido): Il lavoro vi farà uomini era la scritta che compariva su un grande cartello all'ingresso di uno dei campi, secondo la testimonianza del poeta José Mario, che fu internato nelle Umap per otto mesi nel 1966. Quella scritta era una tremenda citazione de “Il lavoro rende liberi” che accoglieva i prigionieri sul portone d'ingresso di Auschwitz. Le Umap non erano campi di sterminio, ma l'evocazione dei lager dà la misura di quel che bolliva in seno alla rivoluzione cubana. Sembra che l'idea di istituire le Umap venne a Raul Castro, ministro delle forze armate, quando fu deciso di istituire la leva obbligatoria: per evitare che “diversi” e irregolari entrassero nell'esercito, si pensò di creare dei campi di lavoro, dove impiegare gli indesiderati e rimetterli sulla “retta via”.
Dai fatti descritti da Viera sono passati quarant'anni e – come Reinaldo Arenas, celebre scrittore dissidente autore di Prima che sia notte, fa dire a uno dei suoi personaggi nel quarto o quinto anniversario dell'ascesa al potere dei “barbudos” – “FidelCastro è ancora al potere, chi l'avrebbe mai detto?”. In effetti, chi l'avrebbe mai detto? Il fatto è che Castro si è dimostrato più abile e pragmatico di quanto supponessero i suoi avversari e detrattori. Pareva destinato a una breve carriera da capo di stato e più volte è stato dato per spacciato, specie dopo il crollo del sistema sovietico, ma oggi solo la sua morte naturale – la cosiddetta “soluzione biologica”– sembra in grado di mettere in discussione la stabilità di un regime che in quasi cinquant'anni non ha avuto alcun riguardo nell'usare tutti i possibili strumenti di censura e repressione, ma al tempo stesso è riuscito a crearsi una solida base di consenso attraverso le sue politiche sociali.
Nemmeno nell'autunno della sua vita Fidel Castro – che in estate compirà ottant'anni – ha voluto fare i conti con i capitoli più oscuri della storia della revolucion. Le Umap, tuttora, sono argomento tabù, nonostante la denuncia dell'omofobia del regime sia uscita dalla clandestinità, grazie in particolare alla “nuova cinematografia” fiorita in tempi recenti nell'isola. Né il regime, né i tanti sostenitori internazionali del castrismo sembrano però disposti a fare i conti con i tanti buchi neri del castrismo. A Cuba non si parla delle Umap, non si affronta la questione razziale, si sorvola sulla condizione della donna, e allo stesso modo si evita di mettere a fuoco il ribollente universo giovanile della Cuba degli anni Duemila. Oggi a L'Avana e dintorni buona parte dei giovani aspira probabilmente a lasciare il paese, attratto dalle libertà e dai consumi possibili in occidente, ma vi è anche un brulicante movimento “dissidente” che è certo stanco di Fidel Castro e dell'asfissiante regime governato dal partito comunista, ma al tempo stesso non è convinto di dover correre verso il fatale abbraccio con il capitalismo neoliberista e lo strapotere del vicino nordamericano a stelle e strisce.
Questo movimento si esprime sia dentro sia ai margini del “sistema”: fra i giovani intellettuali, in alcuni circoli informali, e soprattutto nel mondo della musica. Innumerevoli gruppi rap, in particolare, stanno creando nuovi linguaggi e nuovi spazi di libertà lontano dalle istituzioni ufficiali, coagulando l'insofferenza e la voglia di ribellione che cova nelle nuove generazioni. Ogni concerto, a Cuba, è vissuto da migliaia di ragazzi come un evento liberatorio, come un passo verso una società diversa. È grazie a queste energie che Cuba può sperare in un dopo-Castro felice.
Nessuno oggi può dire che cosa accadrà al momento della “soluzione biologica”. Fidel Castro non ha preparato una reale transizione che possa colmare il vuoto dovuto alla sua uscita di scena, visto che ha designato il fratello, di appena cinque anni più giovane, come successore. I gruppi di opposizione, sia in patria che all'estero, sono numerosi ma frammentati, e su tutto grava l'incombente presenza dei potenti fuorusciti installati a Miami, pronti a “invadere” l'isola con l'obiettivo di riportare le lancette della storia al 1959. Un'uscita “da sinistra” dalla rivoluzione castrista è certo difficile, diciamo pure improbabile, ma diventa impossibile se dentro e fuori dell'isola non si comincia a lavorare a un progetto di “nuova rivoluzione” che consideri il libro di Viera e quelli usciti nel corso degli anni ad opera di tanti scrittori cubani (da Cabrera Infante ad Arenas), come strumenti di conoscenza e di lavoro culturale, prima ancora che politico. Che futuro potrebbe avere un paese che rifiutasse di conoscere – e riconoscere – il lato più triste e più odioso del suo recente passato? In questo senso Il lavoro vi farà uomini può essere anche una finestra sul futuro dell'isola.
Lorenzo Guadagnucci |