Un figlio
della notte
Antoine Gimenez, l'autore di questo interessante volume in lingua francese (Antoine Gimenez & Les Giménologues, Les Fils de la nuit. Souvenirs de la guerre d'Espagne, Editions Les Giménologues et L'Insomniaque, Marseille-Montreuil, 2006, 560 pp., 16,00 €), in realtà si chiamava Bruno Salvadori ed era nato il 14 novembre 1910 a Chianni, in provincia di Pisa. Trasferitosi a Livorno, dodicenne mentre va a scuola con un gruppo di altri ragazzi, viene picchiato da un gruppo di scolari fascisti in camicia nera. Soccorso amorevolmente da due donne, qualche istante dopo essersi ripreso vede entrare in quella casa un uomo di una certa età con la barba, che guarda sorpreso. Era Errico Malatesta, l'apostolo dell'Anarchia, che aveva già visto qualche mese prima con dei professori della sua scuola. Erano stati dunque gli anarchici a sottrarlo all'aggressione fascista e quando Francesca, una giovane anarchica, lo accompagna dalla madre le dice: “Signora, può essere fiera di suo figlio”. La sua vita cambia, frequenta la famiglia di Francesca, e passa il suo tempo a leggere libri ed opuscoli che portavano i nomi di Malatesta, Gori, Bakunin, Proudhon, Kropotkin, Reclus, oltre a dei giornali. Così a poco a poco l'ideale anarchico dell'amore e della libertà, della fine dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo entra a far parte della sua vita. Un altro giorno un professore della sua scuola lo invita a casa sua e gli mostra la foto del fratello socialista ucciso dai fascisti a Milano.
Rimane in Italia fino a quando agli inizi del 1930 si rifugia a Marsiglia per sfuggire alle persecuzioni fasciste, ma dopo pochi mesi viene espulso perché in Italia deve assolvere gli obblighi di leva. Ritorna nuovamente in Francia nel 1933, l'anno dopo per violenza viene arrestato a Perpignan – dove lavora come contrabbandiere con la Spagna – ed è condannato a quattro mesi di carcere. Subisce un nuovo arresto nel 1935 e una condanna a sei mesi per non aver rispettato il decreto d'espulsione. La polizia italiana lo dichiara disertore e antifascista.
Nello stesso anno viene arrestato anche a Barcellona e viene espulso in Portogallo. Nel febbraio 1936 è arrestato nuovamente a Barcellona e viene rinchiuso nel carcere Modelo e quando è scarcerato Bruno Salvadori viene espulso in Francia. Più o meno in questo periodo entra in possesso di un documento della CNT intestato ad Antoine Gimenez e la polizia fascista italiana perde definitivamente le sue tracce. Antoine Gimenez rientra in Spagna dove lavora nella proprietà agricola di Vallmanya e, allo scoppio della guerra civile spagnola, fa parte del Gruppo internazionale della Colonna Durruti. Lascia la Spagna nel febbraio 1939. Nell'agosto dello stesso anno il ministero dell'Interno italiano lo registra con il nome di Antonio Gimene (senza alcun collegamento alla vera e originaria identità di Bruno Salvadori) come internato nel campo di concentramento francese di Argelès sur mer, facente parte del gruppo Libertà o morte composto da centosettanta militanti anarchici.
In seguito Antoine Gimenez vive in Francia, dove svolge vari lavori e si unisce con Antonia Mateo Clavel. Tra il 1974 e il 1976, per soddisfare la curiosità della nipote Vivianne, scrive i suoi ricordi della guerra di Spagna, Souvenir de la guerra de Espagne, e nel 1976, sempre su richiesta della nipote Vivianne, riprende i contatti con il movimento anarchico francese e in particolare con il gruppo di Marsiglia. Invia il manoscritto a diversi editori, senza successo.
Antonio Gimenez non rientra mai in Italia. Muore di cancro il 26 dicembre 1982 e il decesso viene registrato sotto la sua falsa identità di Antonio Gimenez.
Ora i suoi ricordi sulla Spagna – arricchiti e integrati da una straordinaria ricerca archivistica, da notizie riprese dalla pubblicistica del tempo e da alcune foto – vengono pubblicati a trent'anni dalla loro stesura col titolo Les fils de la nuit a cura del gruppo anarchico marsigliese Les Giménologues, del quale fanno parte anche i discendenti di Antonio Gimenez, ovvero dell'anarchico italiano Bruno Salvadori, che è riuscito a far perdere le sue tracce e a far credere alla polizia fascista italiana di essere scomparso, mentre è vissuto per tutta la vita ed è morto sotto falso nome, beffando nel corso della sua vita la polizia italiana, la spagnola e la francese.
I suoi ricordi, scritti con grande semplicità e partecipazione, sono un'ulteriore testimonianza sulla partecipazione italiana alla lotta del popolo spagnolo contro Franco.
Dopo aver percorso tutta l'esperienza spagnola, Bruno Salvadori, alias Antoine Gimenez, riandando all'esperienza giovanile scrive di se: “Credevo di essere un anarchico. In realtà ero un rivoltoso” e conclude affermando che “solo una società anarchica può salvare gli uomini e il mondo”.
Giuseppe Galzerano
Le persone interessate all'acquisto del volume di Antoine Gimenez Les fils de la nuit possono richiederlo a Giuseppe Galzerano – 84040 Casalvelino Scalo (Sa) tel. e fax 0974 62028 email: giuseppe.galzerano@tiscalinet.it o versando l'importo di 16.00 € sul conto corrente postale n. 16551798.
Medicina popolare
in Sicilia
Nella nostra società globalizzata, sottoposta alla dittatura del denaro e alla mercificazione delle relazioni sociali, della cultura, della politica, sopravvivono forme di autodifesa popolare che hanno accompagnato i mutamenti sociali senza essere state cancellate.
Una fra esse è la medicina popolare, ovvero il sistema di cure tradizionali in uso per secoli, ed emarginato ma non sconfitto, dall'insorgere della medicina moderna.
È questo l'argomento del libro di Letizia Giarratana Nescia lu malu e trasa la buntà. La medicina popolare nella società iblea, edito da Sicilia Punto L (Ragusa 2005, pp. 112, € 6,00) che, se dispiega la sua analisi a partire da un determinato territorio – la società iblea – coincidente con l'attuale provincia di Ragusa e parte di quelle di Siracusa e Catania, di fatto non solo riguarda la Sicilia e il Mezzogiorno, ma nelle sue pieghe generali, concerne tutto il mondo popolare che ancora largamente utilizza la medicina popolare.
Come spiega bene l'autrice, che intervista solo guaritrici, la persistenza di un sistema di cura radicato e diffuso sul territorio, non riconosciuto ufficialmente, è il rilevatore di una identità culturale fatta di relazioni, conoscenze, saperi, complicità, linguaggi, memorie e trasmissioni, a tratti adattatasi al moderno, ma ancora fortemente ancorata al passato. In pratica, questa ricerca prova a dimostrare come questi sistemi di cura convivano e a volte vengano privilegiati rispetto ad altri, perché nascono all'interno della cultura di cui fanno parte e di conseguenza risultano organicamente più efficaci, almeno a certi livelli. E qui certo si apre una pagina del tutto nuova rispetto all'economia del lavoro che stiamo analizzando, le cui linee di fondo l'autrice ha comunque tracciato, ed è la pagina dell'identità femminile; le conoscenze mediche ruotavano, in genere, attorno a figure di donne, e sicuramente traevano origine dal culto della dea madre (di cui la Sicilia conserva ancora notevoli tracce), eterno nemico del potere maschile, che le società autoritarie e maschiliste hanno cercato da sempre di sradicare. Nella medicina popolare che ancora sussiste e resiste si può leggere anche questa costante sottrazione di influenza alle donne, questa espropriazione di saperi e di ruolo.
Il lavoro della Giarratana rappresenta un approccio in chiave antropologica al tema della medicina popolare e, infatti, attraverso la disamina dei riti e dei processi relazionali, permette di cogliere alcune delle caratteristiche forme identitarie assunte ancora oggi dalla cultura delle classi subalterne.
Pina Iudice
Per richieste: Sicilia Punto L edizioni, vico L. Imposa, 4 – 97100 Ragusa; ccp. n.° 10167971 intestato a: Giuseppe Gurrieri – Ragusa. Email: si_lib@hotmail.com.
Tre belle
conferenze
Davvero opportuna, e benvenuta, la pubblicazione di questo opuscolo, l'omaggio che l'Istituto di Studi Storici “Gaetano Salvemini” e la Biblioteca di Studi Sociali “Pietro Gori” di Messina dedicano al vecchio e stimato compagno avvocato Placido La Torre, storico e anziano militante della Fai, da ben sessanta anni presente sulla scena del movimento anarchico italiano (Placido La Torre, Pagine d'anarchia. Tre conferenze, Messina, Istituto di Studi Storici “G. Salvemini”, 2005).
Curate da Carmelo Ferrara e arricchite dalla bella presentazione di Santi Fedele, che ricorda quando, ancora studente liceale, ne frequentava lo studio, vengono qui riproposte tre fra le numerose conferenze che La Torre tenne un po' in tutta Italia, durante gli anni della sua lunga militanza. Tre conferenze che, nella diversità degli argomenti trattati, rendono pienamente conto di quanto vasti ed eterogenei siano stati gli interessi di La Torre, che dal pensiero e dalla storia dell'anarchismo seppe sempre trarre spunti per una riflessione approfondita sulla ricchezza teorica e umana del nostro movimento. E difatti, grazie alla felice scelta dei curatori, il volume permette di comprendere l'importanza che il pensiero e la parola di La Torre ebbero per la ripresa e il consolidamento del movimento nei difficili anni del dopoguerra, non solo a Messina e in Sicilia ma in tutto il paese.
Nella prima delle tre conferenze pubblicate, Società senza Stato, tenuta a Messina il 18 gennaio 1947, emerge la complessità e la solidità del pensiero di La Torre, quando affronta uno dei punti nodali del pensiero libertario e antiautoritario, vale a dire l'analisi del sorgere del libero vivere civile ed associato e lo sviluppo di un sistema coercitivo che, sostituendosi al primo, genera inevitabilmente l'oppressione statale. L'inconciliabilità delle due opzioni viene descritta con felice chiarezza espositiva, sostenuta dagli strumenti e dal linguaggio della dottrina e della filosofia politica. L'esito autoritario del processo storico che descrive, conseguenza dell'affermarsi della teoria della forza statale, diventa il convincente bersaglio polemico dell'oratore.
Di tutt'altro carattere la seconda conferenza, L'arte e la poesia di Pietro Gori, anche questa svolta a Messina il 23 marzo del 1947. Qui emerge un altro degli aspetti del carattere e del profondo umanesimo di La Torre, ossia l'interpretazione dell'anarchismo non solo come lucida teoria sociale ma anche come insieme di sentimenti vissuti con passione e partecipazione. E infatti, come scrive Fedele, “La Torre dimostra come in Pietro Gori l'intransigente difesa dei propri ideali e la lotta appassionata per il loro trionfo si coniugano e si intrecciano con sentimenti umanissimi quale l'amore filiale verso la madre in ansia per il figlio carcerato e la nostalgia per la natia Messina, trasfigurata nel ricordo del suo figlio lontano”.
Di particolare importanza, poi, la terza conferenza qui riproposta, Errico Malatesta nel 50° anniversario della sua morte, che La Torre tenne il 17 luglio 1982 nell'affollatissima Aula consigliare della provincia di Ancona, la città-simbolo della vita e dell'azione del grande rivoluzionario campano. E mi è ancora più gradita ritrovarla, e rileggerla oggi, perché anche io quel giorno partecipai all'evento, assieme ad altri compagni imolesi. Tra questi, e lo ricordo con caro affetto, Spartaco Borghi, che non aveva voluto mancare all'appuntamento, proprio per incontrare e ascoltare ancora una volta il quasi coetaneo compagno siciliano. Fu quella una densa lezione di storia, nel corso della quale l'oratore ripercorse l'avventura rivoluzionaria di Malatesta, descrivendone le tappe in relazione alla progressiva evoluzione del suo pensiero. Quello stesso pensiero, ormai fattosi solido e maturo, diventato patrimonio ideologico e morale tanto dell'oratore quanto dei compagni presenti in sala.
Ancora una volta La Torre – e mi pare sia stata la sua ultima “uscita” nel continente – seppe trasmettere i principi chiave dell'anarchismo sociale ed organizzatore e mi piace concludere questo mio breve omaggio riportando proprio le parole con le quali terminò la conferenza: “La libertà, l'eguaglianza e la fratellanza (o, meglio, quest'ultimo termine, da loro chiamato solidarietà) sono tre valori di cui l'uno è inconcepibile e senza significato in mancanza degli altri due. Anzi, i tre termini si riducono ad uno soltanto, dal momento che nessuno dei tre può trovare attuazione e realizzazione se non assieme agli altri due. E tale attuazione e realizzazione è possibile soltanto attraverso la pratica dell'anarchismo per l'anarchia, la quale ultima è, per l'appunto, la società degli uomini uguali, liberamente affratellati e uniti dal sentimento della solidarietà”.
Massimo Ortalli
Voglio aggiungere due righe di saluto personale al caro compagno Placido, da lungo tempo costretto, nella sua Messina, a combattere con problemi di salute. È ormai un ventennio che Placido ha dovuto ritirarsi dal suo multiforme impegno pubblico, che spaziava da un’efficace opera di conferenziere (ricordo, bellissima nella sua chiarezza, una conferenza su “Marxismo e anarchismo” tenuta a Livorno, di cui sentii la registrazione) a quella di avvocato (uno degli ultimi suoi impegni è stato quello a favore di Monica Giorgi, quando da Livorno fu trasferita nel carcere di Messina).
All'interno del movimento anarchico, Placido ha rappresentato sempre un punto di buon senso, di equilibrio. Aderente alla Federazione Anarchica Italiana, ne ha difeso le scelte organizzative nell'acceso dibattito degli anni Sessanta e Settanta, sempre mantenendosi su di un piano alto – quello del confronto delle idee e delle esperienze – senza cedere (come molti, troppi fecero) alle asprezze e anche alle bassezze di uno scontro tra compagni.
Convinto sostenitore di un anarchismo sociale e socialista, nel solco della lezione malatestiana, ricordo che definì il Patto Associativo della FAI “il massimo che si poteva concedere ad una visione organizzata dell'anarchismo”, come a sottolineare – in polemica con le tendenze ultra-organizzatrici e quasi “partitiche”, che non si dovevano e non si devono mai dimenticare le peculiarità filosofiche e storiche dell'anarchismo pur in una concezione saldamente organizzata del nostro movimento.
Sarebbe cosa utile, non solo per la ricostruzione storica, se gli scritti, le conferenze, gli interventi processuali di Placido potessero confluire in un bel libro, allargando significativamente la prospettiva aperta da questa prima raccolta che l'amico Ortalli qui ha segnalato.
Sarebbe, certo, un ulteriore omaggio a un uomo della statura e della tempra del nostro Placido. Ma ancor più sarebbe una nuova fonte a cui potrebbero abbeverarsi anche quei giovani che, al contrario di noi un po' più attempati, non hanno avuto la fortuna di conoscerlo – uomo e compagno – nel pieno della sua attività.
Paolo Finzi
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