rivista anarchica
anno 37 n. 325
aprile 2007


Messico

Oaxaca la tragedia continua
di Claudio Albertani

 

Dopo la feroce repressione di fine 2006, la situazione di Oaxaca è scomparsa dai mass-media. Invece ci sono stati sviluppi. Tutt’altro che positivi.

 

Il Messico, si sa, è un paese dove i governi non si fanno troppi scrupoli sui metodi da usare per reprimere i movimenti sociali. Ciò che succede a Oaxaca, è però, in gran parte, inedito. Dopo la feroce repressione di fine anno, da settimane, i giornali e le televisioni di regime fanno di tutto per presentare una realtà idilliaca tuttavia, sotto le ceneri di una pace imposta a ferro e fuoco, covano più braci.
Il conflitto, infatti, presenta aspetti molteplici. Vi è, in primo luogo, l’odiato Ulises Ruiz Ortiz, il governatore del PRI, il quale negli ultimi nove mesi ha scatenato il terrore contro la Asamblea Popular del los Pueblos de Oaxaca (APPO).
Come l’attuale presidente messicano, Felipe Calderón, Ruiz è prodotto di una colossale frode elettorale. Nel 2004, appena “eletto”, Ruiz – un politico veramente fuori serie, allo stesso tempo debole, autoritario e psicopatico – dichiarò guerra al quotidiano indipendente Noticias, mandando a bruciare i chioschi dove era in vendita ed occupando militarmente la sua sede, senza tuttavia riuscire a farlo tacere.
Poi venne il turno della Sezione 22 del sindacato degli insegnanti elementari – 70.000 aderenti –, un organismo indipendente con una lunga tradizione di lotta. Nella realtà di miseria rurale che prevale a Oaxaca, la funzione del maestro come fattore di coscienza sociale, è molto importante.

Oaxaca, 14 giugno 2006

Le carovane della morte

Il 14 giugno 2006, Ruiz scatenò il finimondo contro gli insegnanti che avevano occupato il centro della città per ottenere miglioramenti salariali. Come risposta, la popolazione insorse spontaneamente ed il 23, circa 400 organizzazioni sociali dettero vita alla APPO – Asamblea Popular del Pueblo de Oaxaca –, foro permanente ed organo decisionale del movimento. Significativamente, la voce Pueblo fu poi trasformata in Pueblos, per indicare la pluralità dei partecipanti e l’esplicita esclusione dei partiti politici. Il movimento si unì intorno ad una sola domanda: la cacciata di Ruiz. Venne istituita una commissione formata da delegati revocabili con il compito di portare avanti le trattative con il governo federale. Di fronte all’assenza di una risposta chiara, la APPO rispose occupando gli uffici di governo, la procura della repubblica ed il parlamento locale. Ruiz si ritrovò nell’insolita situazione di dover operare in una situazione di semiclandestinità.
Le elezioni del 2 luglio ed il subbuglio che ne seguì fecero passare in secondo piano la situazione di Oaxaca. Ruiz pensò che era giunto il momento di passare al contrattacco. Organizzò allora le infauste “carovane della morte”, ovvero gruppi di assassini che, a bordo di furgoni e motociclette senza targa, commettevano crimini efferati nella più totale impunità. In risposta, la APPO innalzò centinaia barricate in centro e nei quartieri periferici proclamandosi l’unico governo legittimo di Oaxaca.
Il primo agosto, di fronte alla persistente manipolazione dell’informazione, circa 2000 donne in gran parte casalinghe, insegnanti e studentesse, presero possesso delle radio e della televisione di governo trasformandole in strumenti di comunicazione alternativa aperti a tutti i settori sociali.
La lista dei morti aumentava, ma invece di retrocedere, il movimento si appropriava di spazi strategici diventando una minaccia non solo locale, ma anche nazionale. Si cominciò a parlare della “comune di Oaxaca”. Le cose precipitarono venerdì 27 ottobre quando fu ucciso Brad Will, giornalista indipendente di Indymedia e due militanti della APPO, nel villaggio di Santa Lucia del Camino. Il colpevole, un impiegato di Ruiz visto e filmato nel momento di sparare, venne rapidamente scarcerato. A tutt’oggi la versione ufficiale è che Brad è stato ucciso dai suoi compagni per “beghe personali”.
Nello stesso momento, qualche chilometro più in là, a Santa María Coyotepec (sede del governo di Ruiz), la polizia massacrava un numero indeterminato di militanti della APPO. Ciò fa pensare ad una fredda pianificazione di entrambi i crimini.
Si sa che nel tempo degli assassini le vittime sono sempre colpevoli. Non deve quindi stupire se i crimini di Ruiz siano poi stati addotti dal governo federale per giustificare l’irruzione della Policia Federal Preventiva (PFP), un corpo specializzato in operazioni contro-insurrezionali, già intervenuto ad Atenco. Il 28, l’allora ministro degli interni, Carlos Abascal, lanciò un ultimatum: la APPO doveva sgomberare le barricate, consegnare il centro storico, ed abbandonare gli uffici del governo entro 24 ore. Domenica 29, 4.000 agenti appoggiati da elicotteri e blindati marciarono sulla città, mentre 5000 soldati prendevano posizione nei punti nevralgici delle regioni circostanti. Vi fu molta resistenza, tuttavia, verso le 19, la PFP riuscì a sgomberare lo zocalo (piazza principale) e a riprendere possesso delle radio controllate dalla APPO, salvo Radio Universidad, ultimo bastione della comunicazione indipendente. La città sembrava un campo di battaglia: veicoli in fiamme, case distrutte, strade solcate da trincee. Inoltre, vi erano 60 detenuti, due vittime riconosciute ed un numero indeterminato di desaparecidos.
Giovedì 2 novembre, giorno dei morti, la PFP fallì il tentativo di occupare Ciudad Universitaria e la vicina barricata della Piazza Cinco Señores, roccaforte della APPO. Era una clamorosa vittoria del movimento ottenuta, in gran parte, grazie alla creatività dei giovani del quartiere che si difesero dai blindati, armati di bottiglie molotov, fionde ed improvvisati bazooka di plastica.
L’occasione della rivincita si presentò qualche settimana dopo, il 25 di novembre, quando la PFP attaccò una manifestazione pacifica della APPO. Bilancio: 141 arresti – in gran parte venditori ambulanti e passanti del tutto estranei ai fatti – ed un numero imprecisato di morti non dichiarate.
Il lettore si chiederà: perché a Oaxaca non si denunciano le vittime della violenza poliziesca? La risposta è semplice: i parenti non osano sporgere denuncia. Per i detenuti cominciò una storia kafkiana: minacce, intimidazioni, torture fisiche, e psicologiche, violazioni sessuali (agli uomini, ancora più che alle donne). A ciò bisogna aggiungere il trasferimento – illegale – presso il carcere di sicurezza di Nayarit, situato ad oltre mille chilometri da Oaxaca.

Continuità perversa

Sebbene la gran parte dei detenuti sia stata poi rispedita a Oaxaca, rimangono in carcere 62 persone. Gli uni e gli altri sono imputati degli stessi crimini (sedizione, incendio, violazione della proprietà privata, ecc), il che la dice lunga sul modo di procedere della giustizia messicana.
Oggi Oaxaca vive uno stato d’assedio camuffato, ma la resistenza continua. Le carceri clandestine, l’impunità, il terrore ed i rapimenti fanno ricordare gli anni oscuri delle dittature militari sudamericane. Con una novità inquietante: a differenza dei gruppi armati del passato, la APPO è un movimento sostanzialmente pacifico. Le 23 persone assassinate (più un centinaio di desaparecidos) stanno da una parte sola: quella del movimento. E le autorità si guardano bene dall’arrestare i colpevoli.
Tutto ciò ed altro ancora, è descritto fin nei minimi dettagli nell’agghiacciante Informe sobre los hechos de Oaxaca a cura della Comisión Civil Internacional de Observación por los Derechos humanos (CCIODH), organismo internazionale che ha visitato Oaxaca tra il 20 dicembre 2006 ed il 20 gennaio 2007. Corredato da circa 400 testimonianze, decine di fotografie e documenti ed un video, il testo è disponibile in rete (http://cciodh.pangea.org/).
Leggerlo fa pensare ad una continuità perversa con i fatti di Atenco del maggio 2006. In entrambi i casi i poteri locali hanno agito in complicità con quelli federali e viceversa. Ciò significa che la responsabilità di quanto succede a Oaxaca non è unicamente dello psicopatico Ruiz, ma anche del governo federale. Siamo di fronte ad un esperimento di ingegneria sociale: di fronte all’insorgere della protesta, il governo “studia” fino a che punto può battere la strada della repressione violenta. Solo la risposta combattiva della società civile può fermare un gioco così perverso ed irresponsabile.

Claudio Albertani