Que viva Mexico
Non è un caso che un recente numero di «A» (il n. 323 del febbraio 2007) fosse dedicato, già dalla copertina, al Messico. E non è un caso che anche oggi, in questa rubrica, si torni a parlare di quel grande paese. E non certo per una questione di moda!
In questi ultimi anni, come è noto, è soprattutto nel Messico che sono nati e si sono sviluppati vivaci movimenti di opposizione popolare, in grado, oltre che di mostrare una sorprendente vitalità e una indubbia efficacia nel contrastare i disegni del capitale internazionale e dei poteri locali, anche di proporsi come originali laboratori di creatività sovversiva ed emancipazione sociale. Laboratori che, come è noto, hanno richiamato l’attenzione e la solidarietà della sinistra del mondo intero, almeno di quella che intende mantenersi su un piano extra istituzionale. Insomma, oggi il Messico è sicuramente una fertile fucina di dissidenza diffusa, e quindi conviene tornare a parlarne.
Lo spunto, essendo questa una rubrica di libri, non poteva essere che un romanzo, quello con il quale l’autore ha dato seguito al suo precedente Il collare di fuoco. Stiamo parlando di Valerio Evangelisti e di Il collare spezzato (Mondadori, 2006, € 16,00) che narra l’epica saga degli anni tumultuosi della, o meglio, delle rivoluzioni messicane che per un cinquantennio videro i popoli di quel paese impegnati nel drammatico tentativo di sovvertire un mondo insopportabile per costruirne uno più giusto e umano opponendosi ai cacicchi locali e ai padroni nordamericani. Se infatti il collare di fuoco era quello imposto dal capitale statunitense tramite la classe dirigente locale, quello spezzato sta a simboleggiare il risultato del sottrarsi collettivo di un intero paese al giogo degli yankees. Anche se, come sappiamo, questo processo di emancipazione non avrà mai la linearità di intenti e risultati che sarebbe stata l’unica concreta prospettiva per la piena libertà.
Quello descritto da Evangelisti è un grande quadro d’insieme, che parte dagli ultimi decenni dell’800 per approdare ai primi anni trenta del ’900. Un quadro percorso però non come tracciato unitario, perché tale, in effetti, non fu, ma attraverso episodi e narrazioni apparentemente autonome l’una dall’altra, ma destinate a ricongiungersi nel grande fiume complessivo della vicenda rivoluzionaria messicana. Naturale, quindi, il presentarsi di innumerevoli personaggi in scansioni successive nello spazio e nel tempo, bambini o adolescenti che vediamo diventare adulti per occupare il loro posto nella storia del paese, adulti diventare vecchie cariatidi e tragiche caricature del proprio passato. In gran parte sono questi i veri protagonisti storici di quella temperie, ma anche altri, creati dalla fantasia dall’autore, non sono meno vivi e reali. Piccole esistenze quotidiane che aggiungono, con la loro biografia, qualcosa di altrettanto importante alla biografia ufficiale del paese.
E infatti attraverso loro e le loro storie pubbliche e private si sviluppa la lunga, decennale storia riformatrice e rivoluzionaria del Messico, caratterizzata da quella miriade di movimenti più o meno democratici, liberali o rivoluzionari che ne accesero le contrade scatenando il continuo succedersi di guerre, capovolgimenti di campo e lotte intestine, tanto fra ex alleati quanto fra nemici. In questa cavalcata, con una scrittura avvincente e a volte addirittura epica, comunque lontana da ogni retorica, Evangelisti riesce non solo a ricostruire con precisione la varietà delle forme che caratterizzarono l’avventura rivoluzionaria messicana, ma anche a fornire utili strumenti per meglio comprendere ciò che ancora oggi agita quel subcontinente caratterizzandone i fenomeni sociali, sia nella radicalità dei comportamenti sia nella fantasia delle “invenzioni” rivoluzionarie.
Ecco dunque, narrate attraverso vicissitudini individuali le emozionanti vicende collettive che si sviluppano capitolo dopo capitolo: le rivolte delle masse contadine affamate, le sollevazioni e la feroce repressione degli indios, l’espropriazione degli eijdos comunali da parte di latifondisti senza scrupoli appoggiati dal ceto politico corrotto, le lotte della nascente classe operaia nella capitale, le sommosse antistatunitensi nel nord del paese e la reazione dei grandi capitalisti e del popolaccio yankee, i linciaggi dei razzisti texani ai danni dei greaser messicani, gli avvicendamenti al potere dei vari “rivoluzionari di professione”, le epopee di Pancho Villa e di Emiliano Zapata. E, accanto a tutto questo, l’aspetto per noi più interessante è rappresentato dalla centralità delle figure dei fratelli anarchici Ricardo ed Enrique Flores Magón, per l’importanza che ebbero nell’elaborazione teorica e strategica delle forme di lotta, per l’influenza che esercitarono su tutto il movimento rivoluzionario del Messico. Che si trattasse di combattere il dittatore di turno o l’agrario nordamericano, il latifondista di Chihuaha o i famigerati rangers del Texas, le loro idee non mancarono mai di indirizzare l’azione dei ribelli. E Valerio Evangelisti, ben consapevole di questa verità storica, non manca di ricordarla.
I fratelli Magón, come ormai la storiografia contemporanea è portata ad ammettere, dopo anni di parziale e interessato oblio, rappresentarono senza dubbio l’elemento più originale e significativo del composito movimento popolare che agitò la società messicana nell’arco di tempo ripercorso da Evangelisti. Fosse riformatrice o rivoluzionaria, nessuna delle componenti protagoniste di quelle vicende, poté prescindere da quanto i Magón andavano diffondendo attraverso il loro foglio Regeneración: il giornale continuamente chiuso, soppresso, boicottato, ma che solo la morte di Ricardo portò al silenzio. Coscienze critiche regolarmente attaccate da tutti i governi che si succedettero in quegli anni, osteggiate e incarcerate dagli stessi ex compagni di strada e di lotta, che avevano preso la deriva autoritaria da loro lucidamente prevista, fecero della parola d’ordine Tierra y Libertad quella, leggendaria e ormai universale, del popolo messicano, degli operai industriali, degli indios delle selve, dei contadini affamati di terra. Quella parola d’ordine, lanciata la prima volta dai magonisti, divenne infatti la bandiera sotto la quale si combatté la guerra contro il collare di fuoco. Nemici del potere, e nemici irriducibili per il potere, passarono anni e anni nelle carceri del Messico e del Texas, ma anche in quelle celle disumane trovarono la forza per continuare la loro lotta sia contro i poteri costituiti sia contro quelli nascenti.
A mio parere il merito maggiore di questo bel libro sta proprio nell’aver saputo cogliere il senso della lotta condotta dai fratelli Magón, della lucidità di quel progetto tatticamente mascherato sotto le mentite spoglie del Partito Liberale Messicano, ma irriducibilmente anarchico (vedi il brano tratto da «L’Agitatore» riportato in appendice), il dramma di aver dovuto assistere al “tradimento”, più o meno opportunista o inconsapevole, di molti dei loro amici e discepoli, di quegli stessi che ne onorarono ufficialmente la morte dopo averne tormentato la vita. È magistrale, ad esempio, il capitolo nel quale una delegazione di questi ex compagni – e tra loro anche il fratello Jesus – si reca a trovarli nell’esilio statunitense per convincerli a venire a più “miti consigli”, sia nella scelta degli alleati, da trovare nella borghesia illuminata, sia nella formulazione di tattiche più moderate e “realiste”. E la sofferta durezza dettata dall’ideologia, con la quale i Magón sono costretti a ripudiare e scacciare queste sirene del riformismo (destinati a una brutta fine controrivoluzionaria) è resa con una chiarezza e una resa espositiva davvero esemplari. Come è altrettanto chiara la descrizione della deriva antipopolare e conservatrice che investirà molti, anche dei migliori fra quanti avevano abbracciato il sogno rivoluzionario. Altrettanto seducente il racconto dell’amara disillusione che coglierà, indistintamente, quanti avevano creduto che le indubbie qualità morali degli uomini che avevano raggiunto il potere combattendo le dittature, potessero impedirne il coinvolgimento nelle inevitabile nefandezze della politique politicienne. Storie collettive di affollate assemblee operaie e contadine, storie individuali di speranze infrante di fronte alla crudezza di nuove repressioni e nuove infamie.
È senza dubbio un grande merito, quello di Evangelisti, di aver saputo interpretare e rendere questi processi storici in modo avvincente e appassionante, portando il lettore a comprenderne le contraddizioni, le crudeltà e gli eroismi con una partecipazione che nel procedere della lettura si fa sempre più intensa. Il potere guasta, vuole ricordarci Evangelisti, e il lascito dei fratelli Magón è proprio questo: anche se si parte dalle migliori intenzioni, quando ci si fa sedurre dalle sirene dell’autorità inevitabilmente se ne viene posseduti facendo così violenza definitiva al proprio idealismo, anche quando questo era stato il più puro e sincero. Non credo che sia frutto solamente della mia sensibilità, ma quando nell’ultimo capitolo, a rivoluzione ormai “normalizzata”, si vede che la storia riparte, e che la volontà di lottare per la libertà è ancora viva e presente, le note e le parole di Hijo del pueblo scelte come coinvolgente colonna sonora dell’ultimo episodio di ribellione comunicano un’emozione di cui siamo grati a Valerio Evangelisti.
Massimo Ortalli
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Città del Messico (?), 6 dicembre 1914. Villa e Zapata con altri generali sfilano lungo la Avenida Plateros |
La Rivoluzione
Messicana
di Roberto D’Angiò
I quotidiani hanno annunciato che un altro Diaz ha mosso guerra a Madero, colui che dopo aver fatto credere al popolo messicano che voleva seriamente liberarlo dal giogo di don Porfirio dandogli terra e libertà, quando capitò la buona occasione fece un bel voltafaccia, si lasciò eleggere presidente, s’installò alla greppia dello Stato per ricuperare i milioni spesi per arrivare al potere, e dimenticò ogni promessa, come un buon candidato a qualsiasi stallo politico dopo aver ottenuto l’intento.
Da Regeneración – il foglio ribelle che avrebbe meritato in Italia una larga diffusione per la campagna che esso mena in favore dei peones e dei contadini messicani – non possiamo ancora apprender nulla intorno al moto rivoluzionario di Diaz contro Madero. Senza dubbio esso non può aver niente a che fare coi moti insurrezionali di quelle plebi le quali, guidate da non pochi nostri compagni, combattono la bella battaglia col fatidico grido sulle labbra: Terra e Libertà. […]
È evidente che in quel lontano paese la propaganda anarchica è stata iniziata dal fatto economico. Se è vero che fra quei peones le nostre teorie non possono essere penetrate d’un colpo, non è meno vero che il contadino che si vede spogliato e trova subito al suo fianco chi gliene spiega alla buona le ragioni non può non sentire anarchicamente. […]
Noi non dobbiamo andare troppo a cercare se nei cervelli dei ribelli sono interamente penetrate le teorie di Proudhon o di Kropotkin: quello che ci interessa è di sapere che le hanno intuite senza averle mai apprese. […] Gli insorti, i rivoluzionari messicani – parlo sempre di quelli alla cui testa sono i nostri compagni – portano una bandiera rossa sulla quale è scritto: Terra e Libertà. […] Terra e libertà non può essere che un desiderio anarchico, uno dei più genuini gridi di ribellione: la terra a tutti perché sparisca la proprietà, la libertà a tutti perché sia abolita l’autorità. I nostri fratelli messicani non possono voler altro anche se, supponiamo, nelle loro rosse menti l’anarchismo teorico è appena in embrione, appunto perché essi partono dal fatto nel quale in principio sono stati colpiti […].
Brano tratto da: «L’Agitatore», periodico settimanale anarchico. Numero 8 del 1913.
“Regeneración”
di Valerio Evangelisti
Ricardo Flores Magón quasi strappò da sotto il torchio una copia del giornale “Regeneración”, e la mostrò al fratello Enrique.
«Che ne dici? Non è bellissimo?»
«Sì, ma stai attento. L’inchiostro è fresco, ti stai macchiando le dita.»
Ricardo alzò le spalle. «Non mi interessa. È bello o no?»
«Sì è bello» rispose Enrique con un sorriso.
In effetti “Regeneración”, nel numero iniziale della nuova serie, si presentava bene. Il titolo era a caratteri corsivi, insoliti per chiarezza e per modernità. Il sottotitolo, Periódico independiente de combate, colpiva in un’epoca nella quale anche il più fervente degli oppositori preferiva la cautela. L’editoriale era sistemato su sette colonne, forse un po’ troppo fitte.
L’entusiasmo di Ricardo era travolgente. Agitò in aria il foglio, senza badare al fatto che così si sporcava le nocche e il dorso della mano. Del resto, se nella tipografia male illuminata si respirava un odore di inchiostro quasi insopportabile, rimaneva del tutto indifferente.
«Segnati questa data, Enrique: 23 novembre 1900. Oggi inizia il cammino che condurrà alla ricostruzione del Partito liberale, e che ci sbarazzerà di Porfirio Díaz. Vuoi che ti rilegga la mia presentazione?»
«No, no!» Enrique, che continuava a sorridere, sporse avanti le mani aperte, come a sventare una minaccia. «Leggilo piuttosto ai compagni che ci aspettano di là. Sono venuti a Città del Messico da San Luis Potosí. Hanno diritto all’anteprima.»
«Hai ragione» ammise Ricardo. Lasciò cadere la copia di “Regeneración” che stringeva. Uno degli operai gliene porse un’altra, già asciutta. «Andiamo a portare ai nostri fratelli la buona notizia.»
La presa di Mexicali
di Valerio Evangelisti
Però i liberatori, inizialmente venti ma presto saliti a ottanta circa, erano gente strana.
A parte il capo, José María Leyva di Sinaloa, e il vicecomandante Simon Berthold, amico di Miguel e ben conosciuto a Mexicali, gli altri erano un assortimento di razze e di nazionalità. I luogotenenti dei due capi si chiamavano Stanley Williams, Jack Mosby e Sam Woods, militanti nel sindacato americano degli Industrial Workers of the World. Chi vi era affiliato era detto wobbly.
Nel centro cittadino e nei caffè circostanti si assiepavano gringos appartenenti alla stessa organizzazione; messicani che, reduci da un lungo esilio a El Paso, Los Angeles o Laredo, condivano il loro spagnolo di parole inglesi; attivisti della Casa del Obrero Mundial di Città del Messico, una confederazione sindacale libertaria fondata due anni prima, con il fazzoletto rosso-nero al collo. Inoltre socialisti e anarchici inglesi, francesi, tedeschi. Non mancava nemmeno una cospicua rappresentanza – “cospicua” in rapporto al numero esiguo dei combattenti – di indigeni Cucapás, federati chissà come al Partito liberale messicano.
Felipa raggiunse lo zócalo nella certezza di trovarvi il marito. Infatti Miguel era là, ritto sul padiglione riservato alle orchestre nei giorni di festa. Stava leggendo, a una trentina di abitanti di Mexicali, l’ormai famoso articolo di Ricardo Flores Magón A los proletarios, pubblicato su “Regeneración” qualche mese prima e diffuso in tutte le salse, assieme al successivo Tierra y libertad.
“Operai, amici! È indispensabile, è urgente che vi consacriate alla rivoluzione che si avvicina, alimentata dalla coscienza del momento storico! È indispensabile, è urgente che incarniate la lotta suprema di questo nuovo secolo e del suo spirito! In caso contrario, la rivoluzione che con piacere vediamo nascere non sarà differente dalle rivolte quasi dimenticate istigate dalla borghesia e dirette dai vertici militari, nelle quali non giocaste il ruolo di eroici propulsori, dotati di coscienza, bensì quello di pura carne da cannone!”
Miguel Arellano depose il giornale. Accanto a lui erano sul palco, adorno di festoni rosso-neri, alcuni degli autori della presa di Mexicali e della valle circostante. Erano il wobbly Stanley Williams, il socialista scozzese Caryl Pryce, comandante della cosiddetta Legione straniera, l’irlandese Steve “Shorty” O’Donnell, militante feniano. Più Esther Torres, giovane operaia tessile inviata lì dalla Casa del Obrero Mundial per rappresentarla. Appena un campione della straordinaria combriccola mandata da Flores Magón a impadronirsi – per il momento con successo – della Bassa California.
Acuto odor
d’inchiostro
di Valerio Evangelisti
Le narici di Felipa colsero, nell’atrio disadorno in cui furono introdotti, un acuto odore di inchiostro proveniente dalle altre stanze. La luce elettrica illuminava, sulla parete, una scritta dipinta a vernice rossa, a caratteri cubitali: Coloro che non credono nella bontà di governi paternalistici o nell’imparzialità delle leggi dettate dalla borghesia, coloro che sanno che l’emancipazione dei lavoratori dev’essere opera dei lavoratori stessi, coloro che credono nell’azione diretta e negano il diritto di proprietà, hanno oggi chi rappresenta tutti i rivoluzionari: la giunta organizzatrice del partito liberale messicano!
Felipa conosceva bene quelle frasi, dipinte sui muri prima di Mexicali e poi di Tijuana. Qualche volta era accompagnata dal nome dell’autore: Ricardo Flores Magón. Il pensiero che di lì a un istante l’avrebbe incontrato la costrinse a deglutire, e accelerò le sue palpitazioni cardiache.
Prima di arrivare al padrone di casa dovettero attraversare una sala non alta ma lunga, anche quella illuminata dalla luce elettrica (per Felipa una grande novità). Sul fondo dell’ambiente c’era una piccola macchina da stampa, al momento inattiva. Due tipografi, con grembiali azzurri, sistemavano su corde tese tra le pareti dei fogli freschi di inchiostro, come se fossero stati biancheria messa ad asciugare. Non si trattava di giornali, bensì di manifesti serigrafati.
I tipografi rivolsero ai nuovi venuti sguardi freddi, e continuarono il loro lavoro. Non fecero il minimo cenno di saluto: cosa normale per i gringos, ma piuttosto insolita tra messicani.
Ricardo ed Enrique Flores Magón erano in una stanza adiacente, con una scrivania, alcune sedie e molti scaffali. Con loro c’era una donna vestita con elegante semplicità, dai begli occhi azzurri ma dai lineamenti cavallini. Anche in questo caso, Felipa sapeva chi era, visto che era scesa a Mexicali quando la città pareva conquistata. Ethel Duffy Turner, la moglie di Kenneth Turner, autore di Messico barbaro: il libro che aveva fatto conoscere al mondo gli orrori della dittatura di Díaz. Ethel curava le pagine in inglese di “Regeneración”.
Ricardo Flores Magón sedeva dietro la scrivania, con il fratello Enrique in piedi al suo lato. Appena María introdusse gli ospiti si alzò. Ethel era ritta presso una bandiera inchiodata al muro. Rossa, recava la scritta, ricamata a lettere bianche, Tierra y Libertad: il motto lanciato da Ricardo su “Regeneración” il 19 novembre 1910, e ora ripetuto in tutto il Messico. Felipa aveva visto una bandiera identica sventolare sul palazzo municipale di Tijuana, al momento della presa della città. Forse vi era ancora appesa.
Fine di un’utopia
di Valerio Evangelisti
A Ignacia Torres la voce tremò, mentre leggeva ad alta voce il decreto ultimativo del Primer Jefe Venustiano Carranza, datato 1° agosto 1916: «Considerando che le disposizioni impartite dalle autorità costituzionali per migliorare la condizione economica delle classi lavoratrici, e l’aiuto concreto dato in un’infinità di casi, lungi dal persuaderle a cooperare con il governo per superare le difficoltà economiche, nella sua lotta per ristabilire la legalità, hanno fatto credere loro di essere il fulcro della società, tanto da potere imporre condizioni egoistiche contrastanti con gli interessi della collettività e da minare alla base l’azione governativa...».
A quel punto Ignacia arrestò la lettura e proruppe in singhiozzi irrefrenabili. Fra gli uomini e le donne assiepati nella sala prevalevano invece lo sconforto e la collera. Un tranviere, reduce dal Secondo battaglione rosso, sollevò una stampella e saltellò sull’unica gamba che gli era rimasta.
«Quel vecchio avvoltoio di Carranza si è già scordato che, se ha potuto vincere Villa e Zapata, lo deve solo a noi! Ai Battaglioni rossi degli operai di Città del Messico! Io sono rimasto mutilato a Celaya, dove abbiamo dato una lezione a Pancho Villa e alla sua masnada reazionaria. Non mi aspettavo onori, però nemmeno insulti!»
I reduci dal fronte erano i più indignati, all’interno della Casa del Obrero Mundial. Tra questi, le donne del Grupo Sanitario Acrata, semplici operaie che per un anno avevano prestato la loro opera di crocerossine, su tutti i campi di battaglia in cui i lavoratori aggregati all’esercito costituzionalista avevano dimostrato il loro valore.
Quegli uomini e quelle donne si aggregavano in un centinaio nell’atrio di un edificio in rovina, al numero 59 di Calle Bucarelli. Le vetrate rotte facevano uscire il fumo di sigari e sigarette. Lì era costretta a radunarsi segretamente la Casa del Obrero Mundial, struttura di coordinamento di decine di sindacati e di oltre 90.000 loro iscritti. Pareva lontanissimo il tempo in cui il generale Álvaro Obregón, presa la capitale, concedeva alla Casa il convento gesuita di Santa Brigida, e la chiesa adiacente, perché ne facesse la propria sede. Ancora più remoto, benché di fatto più recente, il dono ai sindacalisti del Palacio de los Azulejos. Una costruzione storica, piena di stanze.
In quel periodo, a Carranza serviva che i circoli anarco-sindacalisti si convertissero in centri di arruolamento per carne da cannone, da inviare, bandiere rosso-nere al vento, contro Villa, Zapata e le ultime schegge sparse della Convenzione Rivoluzionaria. Gli operai e le operaie di Città del Messico, al canto di Hijos del Pueblo e al prezzo di centinaia di caduti, avevano costretto villistas reazionari e zapatistas bigotti a ripiegare.
Solo che, poco dopo il rientro dei Battaglioni rossi, Carranza aveva brutalmente estromesso la Casa del Obrero Mundial dal Palacio de los Azulejos. Non sopportava che gli attivisti, ringalluzziti dalle vittorie militari, girassero il Messico quasi unificato a predicare eguaglianza sociale e lotta contro le autorità, quale che fosse il loro colore. Via via più provocatoria, l’ostilità del Primer Jefe era diventata furia al momento della proclamazione dello sciopero generale, il 30 luglio 1916.
Brani tratti da: Valerio Evangelisti, Il collare spezzato, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 2006. |