rivista anarchica
anno 37 n. 326
maggio 2007


dibattito

Quel “lontano” ’77
di Enzo Macaluso

 

Sono trascorsi trent’anni. Il dibattito è sempre aperto.

 

Non ci si sottrae agli anniversari. Soprattutto quando parlano di noi. Il ’77 allora, sintesi troppo forzata di eventi che stanno prima o dopo a seconda delle localizzazioni, occorre dispiegarlo del tutto perché possa darci ancora qualche frutto maturo. Perché lì si condensa una vicenda che ci parla ancora oggi, di cui non si sono comprese del tutto le ricche implicazioni. Occupiamoci qui solo di questo, della disamina storica e dei relativi giudizi se ne occuperanno certamente altri accentuando il carattere mediatico insito in ogni celebrazione. Innanzitutto l’aspetto doppio del ’77: ultimo grido di un movimento di massa che chiude un ciclo decennale, evento che squaderna, ancora in modo ambiguo e in controluce, tensioni e tendenze nelle quali siamo ancora immersi. A prendere più seriamente e con maggiori capacità previsionali, alcuni elementi allora emersi, forse oggi saremmo meno in affanno. Avviene in definitiva che il processo di ristrutturazione del capitale avviato alcuni anni prima dopo la crisi del petrolio, mostra i suoi primi segni inequivocabili e si porta dietro una mutata composizione di classe.
Allora pochi lessero la crisi come conseguenza di quella mutazione, si pensava piuttosto ad un inceppamento dello sviluppo economico e soprattutto pochi capirono che la mutata composizione produceva comportamenti oppositivi rinnovati in parte fuori dalla tradizione del movimento operaio classico. Perno di questi atteggiamenti è lo sguardo rinnovato nei riguardi del lavoro e nel contempo l’emergenza di quell’esercito di lavoratori che rifiutando la operosità manuale mettono al lavoro il proprio cervello. Questi processi che proprio nel ’77 trovarono un’ immediata opposizione sono stati in seguito governati in toto dal capitale. In questi termini si misura la nostra epocale sconfitta. Non essere riusciti ad elaborare quel grumo che lì si presentava per la prima volta diventa termine imprescindibile della nostra perdita di parola. Così, tra l’altro, siamo costretti a subire l’interpretazione interessata e ignorante di chi associa meccanicamente gli anni ’70 con la violenza, come se non vi fosse stato nient’altro, compiendo così una delle più impressionanti operazioni di riduzione della complessità in un unico imbuto interpretativo: la violenza appunto.
Si diceva prima della doppiezza del ’77 e non di ambiguità. Perché i processi quando insorgono si presentano almeno doppi e dispiegano il terreno della lotta dove si esce battuti o in grado di un esercizio di egemonia. Cosa è la tematica della flessibilità, che ancora ci inchioda, se non uno di questi termini? La fabbrica perde la sua essenza di mito fondativo, l’identità viene frazionata e non più racchiusa nella sfera totalizzante del lavoro. Ciò che venne definito come “non garantito” non sembrò soltanto una perdita, il lavoro si torceva alle esigenze individuali e non viceversa. Questo è il vero discrimine con il movimento operaio organizzato, altro che la violenza. L’incomprensione radicale e la frattura avviene su concetti come sviluppo, responsabilità, sacrifici. Questo il santino Berlinguer non coglie e da buon stalinista bolla tutto il movimento come “untorelli”. Lì inizia anche lo scivolamento semantico del termine “sinistra” che non rappresenterà più quanto di buono e progressivo emerge nella società ma si caratterizzerà sempre più come conservativo dello status quo fino alle miserie del presente.

Arese (Mi), 1975. Assemblea generale dei lavoratori dell’Alfa Romeo

Ribaltamento della dualità struttura-sovrastruttura

C’è un altro aspetto che vale la pena accennare, anche questo sintomatico dell’importanza della partita che allora si giocò. Riguarda l’ampio spazio della comunicazione e il ribaltamento della dualità struttura-sovrastruttura. I protagonisti del movimento si rivelano nipotini attenti e coscienti del Debord della Società dello spettacolo lì dove assumono lo spettacolo non come prodotto culturale ma come modello produttivo, quindi luogo principe dello scontro con il potere. Ciò si sostanzia nel mutamento della funzione del linguaggio che da rappresentazione diviene pratica della lotta fra le classi e si sminuirebbe assai il valore di questa istanza se si limitassero gli effetti soltanto alla cosiddetta ala creativa del movimento. Non è patrimonio degli indiani metropolitani che in effetti mettono in scena se stessi, è l’intero movimento che comprende l’enorme importanza che da lì assumeranno i mezzi di comunicazione non più e soltanto strumenti della formazione bensì spazio della materialità della lotta e dei rapporti di potere.
Il movimento arrivò per primo su questo terreno ma venne spodestato anche dalla concezione infarcita di moralismo e statalista della sinistra ufficiale. Questo ci dice l’invenzione delle radio libere che non producono informazione ma la ricevono e la diffondono. Il tutto ebbe il fragore dell’aria fresca nel mondo paludato dell’informazione di stato, ma venne bloccato con le incursioni della polizia e da nessuno difeso a dovere. Il risultato è stato Berlusconi. Pochi compresero la portata della questione, l’aggressione ad un ordine infinitamente più importante di quello dettato dagli equilibri del quadro politico, quell’ordine del discorso che Foucault ci aveva squadernato, dove si annidano rapporti di potere che il politico difficilmente riesce a toccare. Cade per un attimo la distinzione afasica fra cultura alta e cultura di massa, la pratica del movimento consente di appropriarsi di un linguaggio che nelle varie forme era stato fino ad allora di pertinenza delle avanguardie partendo dalle canzoni pop, scritte murali, fumetto, etc.
Il pensiero più avvertito scende per strada, Deleuze, Guattari, Foucault vengono consumati nelle assemblee, come per altro loro stessi auspicavano. D’altra parte si sa, i movimenti eversivi travolgono, anche solo per poco tempo, gerarchie e significati e questo è il loro aspetto più interessante, al di là degli sbocchi politici e degli equilibri raggiunti. È il divenire che importa non il divenuto. In fondo l’occhio dell’oggi dovrebbe indagare questi aspetti e non soffermarsi esclusivamente sull’occasione perduta.
Rimangono fuori da queste note tante, troppe cose che sarebbe il caso di riprendere in seguito, ma era interessante, per me, rilevare una certa dinamica multipla del movimento che si rispecchiava nella relazione essendo in modo esasperante individualista, creativo fino all’irrisione e nichilista fino all’autodissoluzione, politico fino al midollo pur rifiutando violentemente gli strumenti che la politica gli metteva a disposizione. Gli studi sui movimenti sociali nell’Italia del dopoguerra profondono a larghe mani sul ’68 e i suoi sviluppi, per trovare qualcosa sul ’77, a parte la memorialistica dei protagonisti, occorre cercare sotto la voce “anni di piombo”. Non c’è da stupirsi, è frutto di rapporti di forza, come sempre è la ricostruzione storica. Ma è anche il segno di un rimosso. La portata di quel movimento è stata dirimente, la sua sconfitta ha aperto le porte a ciò che è avvenuto dagli anni ’80 fino ad oggi. Il liberalismo ha trionfato portando a compimento elementi che lì si presentarono spogliandoli della loro carica antagonista. Ecco perché rappresenta un rimosso e si delinea così come vera emergenza evenenziale: niente prima e niente dopo, desiderio allo stato puro, orgasmo sociale.

Enzo Macaluso