rivista anarchica
anno 37 n. 326
maggio 2007


internazionale

L’orgoglio americano
di Antonio Cardella

 

Gli USA non sanno come uscire dal pantano dell’Iraq e dell’Afghanistan.
Troppi gli interessi economici, politici, strategici.

 

Nell’articolo pubblicato nel precedente numero di questa Rivista sostenevo che, nelle questioni che investivano “l’orgoglio americano”, la democrazia realizzata, la supremazia militare, la superiorità dei modelli di sviluppo e via dicendo, il popolo americano, senza distinzioni significative tra progressisti e conservatori, è stato sempre pronto a ricompattarsi. Bush ha potuto puntellare il proprio ruolo alla Casa Bianca impegnando l’America in campagne militari certamente dissennate, ma tutte volte a realizzare disegni di supremazia rispetto al resto del mondo che l’opinione pubblica ha sempre finito per appoggiare.
Per la verità il progetto di consolidare nell’epoca contemporanea un impero che, nei fatti, si era realizzato dalla fine del secondo conflitto mondiale, non sembrava un progetto privo di suggestioni. Le nuove realtà emergenti negli assetti geopolitici del pianeta non consentivano immobilismi. Il confronto/scontro con il mondo asiatico, India e Cina in testa, ma anche quello con la Russia del nuovo corso, era messo in conto nella strategia di lungo periodo del Pentagono e reso ineludibile dalle difficoltà sempre crescenti dell’economia statunitense, prima fra tutte la fame di energia del sistema industriale. La necessità di imporre il dominio in un’area ricca di fonti energetiche era nella logica dei fatti ed era nella logica dei fatti anche la necessità di espandere i confini dell’impero, approssimandoli ai territori che, in prospettiva, si intuivano ostili. Il Medio Oriente rispondeva perfettamente al realizzarsi di questi obiettivi, anche perché alcuni Paesi dell’area, Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Kuwait, intrattenevano già buoni rapporti commerciali con gli Stati Uniti e comunque non sembravano in grado di opporsi ad un’ulteriore ingerenza americana nel complesso e conflittuale contesto mediorientale. Questo favorevole atteggiamento dei paesi ritenuti moderati si era già sperimentato in occasione dei conflitti che avevano opposto prima l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran di Khomeini (1980-88), poi nel tentativo di invasione del Kuwait da parte dello stesso Iraq (1990-1991). La campagna mediorientale tornava utile anche per condizionare la costituenda unità europea, i cui interessi potevano alla lunga affrancarsi da quelli americani.

Diplomazia o guerra?

Il problema era di come affrontare la campagna mediorientale: se condurla con un paziente e complesso lavoro diplomatico oppure con interventi militari resi in un certo senso plausibili dalla permanenza di un ingombrante dittatore quale appariva Saddam Hussein. Le due opzioni, quella diplomatica e quella militare, non erano complementari, nel senso che non implicavano, come è ovvio, gli stessi livelli di rischio rispetto ai benefici che si intendevano perseguire. L’opzione diplomatica avrebbe comportato la necessità di isolare l’Iraq, coinvolgendo nell’operazione non solo i paesi dell’area (Siria ed Iran compresi), ma anche la Russia e soprattutto l’Europa, che dal petrolio iracheno dipendeva in misura significativa. Invece la soluzione militare sembrò all’America di Bush e dei neo(teo)com più sbrigativa e risolutiva, resa più comprensibile dalla fatidica tragedia dell’11 settembre.
Come è sotto gli occhi di tutti, fu un errore colossale, che rivelò l’infantilismo della politica estera degli Stati Uniti, incapace di valutare le conseguenze di un passo che avrebbe compattato in funzione antiamericana (e antioccidentale) l’intero mondo arabo, avrebbe diviso l’Europa e complicato i rapporti con Russia e Cina.
In aggiunta erano mutate le condizioni complessive dell’assetto geopolitico del pianeta e, contemporaneamente, si erano accentuati gli squilibri del sistema politico-economico del Paese a stelle e strisce.
India e Cina non erano già da tempo assimilabili alle economie depresse: crescevano a ritmi che erano impensabili per l’Occidente e costituivano influenze crescenti sui mercati commerciali e finanziari dell’economia globalizzata. Inoltre non basavano più la loro crescita su un’industria manifatturiera a basso contenuto di innovazione, ma investivano somme consistenti in nuove tecnologie non soltanto nei campi della produzione di beni e servizi, ma anche e soprattutto nella ricerca scientifica, di base ed applicata, nell’informatica e nei nuovi versanti della più avanzata biochimica e delle nanotecnologie.
Di queste mutate condizioni ha percezione lo stesso Bush, il quale avverte l’ostilità di gran parte dell’opinione pubblica che ormai è consapevole sempre più chiaramente dei rischi di avventure belliche fallimentari. Così, all’indomani della sconfitta elettorale di novembre, che consegnò il Congresso ai democratici, il presidente affida ad una commissione guidata da James Baker (già segretario di Stato di George Bush senior) e da Lee Hamilton, deputato democratico di lungo corso, il modo di uscire dall’impasse. Nel rapporto che concluse i lavori della commissione, pur nella tradizionale prudenza del linguaggio, si dà corpo sostanzialmente alle preoccupazioni diffuse sull’andamento delle avventure belliche americane in Iraq e Afghanistan e si raccomanda una svolta significativa dell’amministrazione, articolata in 79 punti. Un rapporto illeggibile e contraddittorio anche se, nelle conclusioni, boccia la politica bellicosa di Bush. Il quale, anziché adeguarsi alle raccomandazioni della commissione da lui stesso nominata, prende una strada completamente diversa, decidendo di inviare in Iraq altri 21.000 soldati, con un ulteriore costo (fuori bilancio) di 7 miliardi di dollari.

Situazione peggiorata

E qui arriviamo alle note dolenti degli equilibri colossali dell’economia americana, la quale non può più trasferire sul resto del mondo i costi della sua allegra finanza.
Dal 2003, la situazione complessiva è di molto peggiorata. Già nel 2005, in un rapporto del Fondo monetario internazionale si affermava che l’economia statunitense è sempre più sostenuta nella sua crescita da “un prendere a prestito senza precedenti storici dal resto del mondo”. Quest’anno, il deficit in conto corrente si è attestato attorno agli 850 miliardi di dollari, il 6,5% del prodotto interno lordo. Per finanziare questa enorme voragine, gli Stati Uniti sono costretti ad importare per investimenti 5 miliardi di dollari al giorno. Una situazione del genere non è sostenibile a lungo ma, per correggerla e mantenere una dinamica compatibile con le altre economie internazionali, occorrerebbe che il deficit si riducesse almeno della metà, e ciò implicherebbe che il dollaro si svalutasse almeno del 20%; che la domanda interna rallentasse significativamente e che migliorasse il rapporto tra esportazioni ed importazioni, oggi sbilanciato dal valore di queste ultime.
Ma queste misure sono nella sostanza incompatibili con l’attuale situazione finanziaria del resto del mondo. Infatti, svalutare il dollaro significherebbe ridurre in misura eguale il valore delle riserve in dollari dei paesi maggiori creditori degli USA, Cina e Giappone in testa, che dovrebbero contemporaneamente ridurre la loro circolazione interna in virtù di una corrispondente rivalutazione della propria moneta, il che, per economie in forte espansione è impensabile (Il discorso è meno complicato di come può apparire: una rivalutazione porta ad un aumento nominale del valore unitario della moneta rivalutata, il che comporta che occorre una minore quantità di denaro per acquistare, per esempio, le stesse quantità di beni e servizi: da ciò la riduzione della liquidità del sistema).

Contesti mutati

Per concludere: è vero che, per affrontare le molte difficoltà dell’economia e della politica statunitensi le ricette dei repubblicani non differiscono di molto da quelle suggerite dai democratici. Sia gli uni che gli altri non sanno come uscire dai pantani dell’Iraq e dell’Afghanistan, consapevoli che l’intervento armato ha destabilizzato, spesso in maniera irreversibile, le rispettive regioni. La resistenza dell’amministrazione Bush a modificare la rotta deriva, del resto, dagli enormi interessi che orbitano attorno alla guerra e poco importa che sia il popolo americano a pagare l’arricchimento esponenziale di pochi. Ma sono quei pochi da cui, tra l’altro, dipendono le fortune elettorali degli esponenti dell’uno e dell’altro fronte.
Solo che – come abbiamo tentato di documentare – sono completamente mutati i contesti geopolitici del pianeta: per fare un esempio recentissimo, tra gli economisti del FMI (Fondo Monetario Internazionale) si sta discutendo sull’opportunità di modificare il ruolo dell’organismo la cui politica del credito ha arrecato danni devastanti nel Sud Est asiatico, in Argentina e in molti altri Paesi che hanno avuto la sventura di rivolgersi al Fondo per superare le loro crisi. Di fatto, le aree economiche emergenti – naturali referenti del Fondo – hanno ormai accumulato riserve in valuta estera tali da poter finanziare autonomamente le proprie iniziative. Non solo, ma stanno ragionevolmente valutando la possibilità di creare fondi regionali che suppliscano, molto più convenientemente per gli eventuali fruitori del credito, all’attività del Fondo.
Un’altra pedina che viene a mancare nello scacchiere delle istanze imperialistiche (già molto ridimensionate) degli Stati Uniti.

Antonio Cardella