rivista anarchica
anno 37 n. 327
giugno 2007


architettura

L’architetto globale
di Adriano Paolella

 

A proposito della pseudoideologia della contemporaneità.

 

Come si configura un architetto globale: esistono alcuni tratti comuni che lo definiscono leggibilmente, per esempio nel poco interesse a prendere posizione relativamente ai processi produttivi, ai materiali ad alle soluzioni tecnologiche adottate, selezionate in ragione della loro capacità espressiva o risolutiva delle immagini progettuali ideate ma indifferenti al contesto fisico e sociale, alla caratterizzazione di un ruolo all’interno dei problemi che interessano ambiente e società. Al contrario, l’architetto globale mostra un grande interesse nei confronti della propria capacità creativa assoluta (non relazionata alle condizioni dell’operare), della composizione dell’immagine, della corrispondenza ai caratteri del modello costruttivo (leggerezza fisica, trasparenza, lucidità, tecniche, materiali, componenti industriali) e comunicativo (creativo, evocativo delle tematiche – ad esempio ambientali e sociali – ma mai critico). La sua adesione a queste tematiche assume spesso il carattere del “politically correct” piuttosto che di una concreta adesione e assunzione di responsabilità.
Questo fa sì che l’architetto globale sia sostenuto dal modello economico globale, ed egli stesso sostenga questo modello; egli è presente sulle riviste specializzate, ma anche sui rotocalchi mantenuti dalla pubblicità delle imprese che producono le componenti da lui utilizzate, ovvero che sono di proprietà dei soggetti che commissionano gli edifici; è riferimento per chi gestisce la comunicazione che, ignorante, conosce solo chi è noto; è modello per il comportamento degli altri progettisti che ambirebbero alle le sue parcelle, al suo studio, alle sue automobili, alla sua fama. Ma, cosa ben più grave, è sostenuto dal modello economico globale per la modalità ed i processi di progettazione e costruzione praticati, che corrispondono integralmente a quelli usati dai soggetti che commissionano e costruiscono i suoi edifici.
L’architetto globale è disponibile, si presta a costruire tutto per tutti, in tempi brevi, basta che ci siano disponibilità economiche, pochi vincoli alla propria creatività e grande visibilità. È un decaratterizzato, non ha difficoltà linguistiche, non soffre delle modalità di relazione imposte dai media, non ha fatto nemmeno una scelta che possa limitare o ridurre effettivamente il suo potenziale mercato. È perfetto per quanto richiesto. Ed è efficiente: il suo studio è una azienda ad elevata produttività, qualificata dal suo marchio, come un’industria. Appunto.
Questo tipo di architetto ha operato e opera in ogni luogo, apparentemente in qualunque condizione e per chiunque senza fare distinzione, ma in realtà solo per committenze ricche, su temi visibili e di grande eco, in assenza di vincoli formali e di limiti di spesa.
Ha lavorato per costruire l’immagine di edifici attribuendosi il ruolo di creatore di nuove relazioni all’interno degli insediamenti e della società attraverso la realizzazione del proprio segno. Ha rinunciato, per poter essere libero di creare, a comprendere ed a svolgere un ruolo nel sistema complesso di relazioni che caratterizza le società ed ha attuato un’architettura mai problematica, mai critica, nei confronti di fenomeni e di soggetti che sottomettono le comunità e alterano l’ambiente.
Le maggiori critiche che si possono muovere a questi comportamenti sono di aver contribuito a praticare un rapporto tra architettura e comunità in cui questa è relegata in un ruolo passivo, al ruolo di subire, affascinata dal momentaneo stupore generato dall’opera dell’architetto, le trasformazioni dello spazio; di essersi disinteressati dell’effettivo benessere degli uomini per non avere affrontato la complessità delle relazioni e dei modelli ricercando solo il piacere della percezione e della fruizione; di aver contribuito a definire una figura di architetto così prono alla volontà della committenza, così capace di interpretarne i desideri da divenire profondamente funzionale al modello, da sostenerlo, seppure involontariamente, e da esserne sostenuto senza alcuna riflessione critica.
Ma l’attività di questi architetti ha consentito di palesare, forse più che in altri casi, all’interno del mondo ricco, la potenza del potere economico e la sua capacità di sopraffare le comunità insediate con la sua immagine (dai grattacieli e le trasformazioni urbane europei, a quelle asiatiche) e con il modello sociale ad essa connesso.

Genesi

Le condizioni per la diffusione della figura dell’“architetto globale” sono riferibili da un lato alla riconsiderazione del ruolo dell’architetto, sviluppatasi del tutto internamente al settore disciplinare, dall’altro alle mutate condizioni del mercato.
In Europa, dalla fine degli anni sessanta, alcune istanze furono espresse con grande energia dal settore della progettazione edile; tra esse vi erano quelle volte all’orientamento delle amministrazioni verso soluzioni sociali più finalizzate al benessere delle persone e quelle tese all’interpretazione dei bisogni che emergevano dalla collettività, riconoscendo in ambedue un ruolo importante all’opera degli architetti.
Ne scaturiva un interesse specifico nei confronti della costruzione di abitazioni popolari, data la cronica mancanza di alloggi per i meno abbienti, e della gestione di quei processi di trasformazione che così profondamente avevano alterato il territorio negli anni immediatamente precedenti.
Gran parte degli architetti riteneva che attraverso queste ed altre simili azioni si riuscisse a contenere, se non ad annullare, la speculazione fondiaria ed edilizia ed a soddisfare, attraverso una rigorosa pianificazione, quegli standard minimi che avrebbero consentito il raggiungimento di una migliore qualità della vita.
Il progettista assumeva un ruolo sociale che eccedeva dalla definizione delle soluzioni progettuali di un manufatto ma connetteva la propria attività all’intervento anche su quei fattori che riteneva dovessero condizionare le proprie soluzioni progettuali.
Come spesso avviene, all’interno di questa diffusa sensibilità sociale, le scelte individuali facevano poi la differenza, e così molto diverse tra loro sono le soluzioni approntate in quegli anni da De Carlo, da Fiorentino o Gregotti, o da Erskin e Kroll, o da meno noti architetti che progettano periferie prefabbricate.
Negli anni ottanta questa impostazione apparve, a diversi architetti sparsi nel mondo, del tutto impraticabile. Facendo un po’ di confusione tra l’effettiva demagogia insita in alcuni comportamenti, l’autoritarismo, la limitatezza di un ottica che si era nel tempo e nella pratica isterilita, e il valore obiettivo delle istanze che si intendeva soddisfare furono rigettate, in un eccesso tipico del ribaltamento delle posizioni culturali dominanti, non solo le posizioni ritenute errate ma l’intera impostazione del ruolo e dei problemi che si tentava di risolvere, con un procedimento sommario per il quale, alla posizione ritenuta sbagliata, corrisponde un problema sbagliato.
Questo percorso è esplicito in alcune considerazioni di Jean Nouvel, per esempio quando sostiene che: “la storia ha continuato a dimostrare che la città si adegua sempre meno al disegno previsto. Che essa è piuttosto il risultato di pressioni economiche su un dato territorio, pressioni cui nulla resiste, men che mai qualche aprioristica teoria estetica o umanistica” (Nouvel J., Sul progetto di architettura in “Domus”, n. 742, ottobre 1992).
Oppure nel rifuggire da ogni considerazione rispetto ai mutamenti in corso: “È necessario comprender a fondo che siamo il prodotto di un’epoca specifica, e proprio a partire dall’analisi della città come fenomeno storico e geografico contingente, constatare come la città si sia totalmente modificata rispetto al passato, come, su scala planetaria, si è verificato qualcosa che assomiglia ad un big-bang, che ci troviamo immersi in un gran caos e che proprio in questo caos dobbiamo realizzare le nostre architetture.” (Nouvel J., testo del discorso tenuto a Firenze in Palazzo Vecchio in occasione della presentazione del concorso vincente per l’area ex Fiat di Viale Belfiore il 21.11.02 in AND). Non vi è alcuna interpretazione critica al caos, dato come fatto ineluttabile, su cui si fonda una condizione operativa che, non basandosi su di un giudizio, non ha obiettivi da attuare (ridurre il caos? Aumentare il caos?) e proprio in questo non avere obiettivi sostiene lo stato di fatto e quindi il modello vigente.
Sembra che l’architetto globale, nel superare le posizioni pianificatorie tacciandole, forse giustamente, di apriorismo, nel criticare le teorie estetiche o umanistiche, nel percepire come imposte le “sovrastrutture” ideologiche e teoriche di fatto sconnesse dalle cose e dalle persone, nel rigettare la sudditanza al dogma e alla demagogia abbia però intrapreso un acritico servaggio al modello economico globale.
Contemporaneamente a questo atteggiamento sono venute a modificarsi le condizioni operative del settore. Basta vedere l’età media degli architetti contemporanei più famosi, la quantità di loro opere realizzate, l’età in cui le hanno realizzate, le dimensioni dei manufatti e confrontarle con quelle dei loro omologhi che hanno operato nel secolo scorso per rendersi conto che qualcosa è cambiato.
E le ragioni di questo cambiamento non possono essere indicate solo nel diverso approccio culturale delineato da una riduzione della critica con cui i progettisti affrontano oggi la committenza, o nella organizzazione del controllo delle trasformazioni operata attraverso i rigidi strumenti di piano e progetto.
Questo mutamento è in realtà frutto del modello economico, che utilizzando strumentalmente l’immagine edilizia per attuare una comunicazione commerciale, ha fatto rientrare i costi di una progettazione “da architetto” all’interno del prezzo dei prodotti.
E per la committenza l’architetto deve fare quello che essa si aspetta da un architetto.

Il rapporto con l’ambiente

Nonostante gran parte degli architetti globali abbia rifuggito qualsiasi riferimento ideologico, si è delineato di fatto un comportamento comune, che proprio per l’omogeneità, la coerenza, la articolata strutturazione del pensiero, la funzionalità al modello economico globale che lo caratterizza appare ideologico. Naturalmente si tratta piuttosto di una pseudoideologia, mancandogli di fatto la sistematica e organica teorizzazione della prassi attuata. Ma, malgrado ciò, il concorso di tutti nell’accettazione di criteri così omogenei fa di questo operare una specie di involontaria ma determinata dichiarazione di principi.
In particolare appaiono ideologiche le esternazioni: quando, per esempio, i progetti vengono presentati come vaticini e compongono l’immagine di un mondo consacrato, monolitico e immodificabile, mondato dal progettista attraverso la propria creatività, dove le parole assumono la conformazione di concetti magici quali innovazione, contemporaneità, leggerezza, immaterialità, creatività, tecnologia, vitalità, ecc.
È ideologica la ricerca dell’immaterialità, che non è richiesta da nessuno e non serve a nulla, come quella per esempio richiamata da J. Nouvel “per cui nel momento in cui vuole, in nome di un rinnovato darwinismo, eliminare progressivamente la materialità dell’architettura – rispecchiando la tendenza generale verso l’annullamento della forma permanente – l’utilizzo del vetro diventa fondamentale” (Nouvel J., Testo del discorso tenuto a Firenze in Palazzo Vecchio in occasione dell’aggiudicazione del concorso per l’area ex Fiat di Viale Belfiore il 21/11/2002, in AND, n. 1, 2003).
È ideologico fare divenire l’architettura un “oggetto emozionale”, alla stessa stregua di qualunque altra merce di consumo. Ideologico perché dietro le scelte del mondo contemporaneo si nascondono dei profondi interessi che non possono essere ignorati senza diventarne in qualche modo sostenitori, ma necessitano bensì di essere lucidamente osservati, valutati, giudicati e che impongono una presa d’atto senza la quale, a quegli stessi interessi, si è di fatto allineati. E dato che i meccanismi regolatori del nostro sistema sono fortemente connotati, una acriticità nei loro riguardi comporta, di fatto, una adesione ai valori ed al modello.
È ideologico esaltare i limiti del modello come fossero potenzialità. Esempio sono ancora le parole di J. Nouvel “non è più pensabile costruire il proprio piccolo spazio, fine a se stesso, autonomo, ma siamo obbligati a realizzare qualcosa che ha una continuità, che si relaziona con l’esterno, qualcosa che, oserei dire, emette delle onde irradianti in ogni direzione” (Nouvel J., ib.). È vero che non è pensabile costruire nel “proprio piccolo spazio” senza che questo si relazioni all’esterno, ma questa condizione è quasi una imposizione del modello contemporaneo urbano; un modello in cui la proprietà privata domina incontrastata, in cui la pianificazione è stata marginalizzata, in cui i valori della comunità sono stati annullati e dove è garantito nello spazio privato realizzare quanto e come si vuole. L’insieme risulta dalla sommatoria delle singole soluzioni adottate. Ciò comporta una grande confusione che scaturisce dal sovrapporsi di tutte le comunicazioni contenute nelle soluzioni dei singoli lotti e motiva il desiderio di “alzare la voce” per manifestare la propria presenza. L’ipotesi di risolvere questa condizione operando con l’emissione di “onde irradianti” non ricompone un valore comune ma sostiene quanto in essere, affidando ad una miglior “voce” l’amplificazione di un contenuto che rimane avulso dal piacere della composizione di un contesto organico.
Ed è ideologico il rapporto con l’ambiente. La natura è piegata a strumento per raggiungere emozioni, per comunicare sensazioni, per ottenere un’immagine che stupisca, che ecciti. Il problema della relazione con l’ambiente, anche quando posto come tema, è affrontato senza obiettivi di qualità e di quantità e quindi spesso si risolve in un richiamo aleatorio che, più che essere utile, diventa deviante per la comprensione dei termini di uno dei più importanti temi che investono e devono investire l’architettura di qui in avanti. Ma tale è la portata che il nodo cruciale dell’ambiente riveste per il futuro del nostro pianeta che una sua sottovalutazione, ovvero una trascuratezza nei suoi riguardi, non può che essere considerata una sorta di dichiarazione di principio, una tacita affermazione di valori, ancorché al negativo.
Ed è ideologico l’atteggiamento notarile che esclude dalla sua considerazione tutto ciò che non è di stretta pertinenza dell’esito progettuale, come per esempio le ricadute sociali che comporta un modo di operare piuttosto che un altro: “abbiamo utilizzato oggetti in commercio, elementi di produzione industriale, prodotti finiti, perché i valenti artigiani che trasformavano e modellavano la materia in cantiere non fanno più parte del nostro mondo contemporaneo” (Dominique Perrault Concept-Contexte, in Perrault D., ed. arc en reve, Bordeaux, 1994 riportato in Andrea Bruschi, DP, Edizioni Kappa, Roma 2002).
Perché non fanno parte del nostro mondo contemporaneo? E quale è il mondo contemporaneo di Perrault, visto che nel mondo contemporaneo di ciascuno di noi vi sono ancora valenti artigiani che trasformano e modellano la materia in cantiere. È opportuno notare che la dichiarazione di Perrault, con il blandire e liquidare con tanta degnazione un problema centrale come quello dell’industrializzazione dei processi e della marginalizzazione delle competenze e tecniche artigiane, in realtà mostra una sorta di ideologico rifiuto di dare asilo a quel tipo di mestiere. Ed anche in questo caso a risultarne perorata è la causa dell’organizzazione sociale industriale e di mercato del modello globale.
La volontà di superare quell’intricata congerie di intellettualismi, che aveva caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, vuole riportare il ruolo dell’architetto ad una maggiore funzionalità nella società ma questo viene attuato eliminando la complessità del pensiero, eliminando la critica, riducendo il campo di azione all’esclusivo manufatto, alla definita area, dando per scontato un modello produttivo e di mercato.
La scelta attuata disegna un procedere in cui la progettazione edilizia non va soverchiamente spiegata, non va sostenuta da ragionamenti, si comprende ed è compresa nel segno progettuale.
Ma sottovalutando i rapporti con la popolazione, rinchiudendosi all’interno di un ruolo creativo che viene ritenuto invalicabile e di propria specifica competenza, l’unico mezzo trovato per relazionarsi con la società è quello di stupirla. Lo stupore tra l’altro è condizione dello spirito che blocca il giudizio e l’azione, è istantaneo e quando passa lascia comunque un interesse, e non un piacere, nei confronti del manufatto che lo ha comportato.
Al di là del giudizio estetico, l’oggetto che stupisce viene considerato e può divenire riferimento per definire una nuova riconoscibilità di un contesto, di una comunità, di un luogo. Ma può diventare, proprio tramite questa riconoscibilità, oggetto dell’ironia più dissacrante, se non si è garantita l’adesione di chi ne fruisce perché, finito lo stupore, resta l’ingombro.
La volontà di superare quell’intricata congerie di intellettualismi del passato ha portato ad una pratica dello stupore, ed è lo stesso stupore che tendono a destare le novità tecnologico-merceologiche che viene utilizzato per aumentare il mercato. Anche in questo caso si tratta di uno stupore progettato e finalizzato al profitto.
Tutto ciò tende a conformarsi come una sorta di paradossale ideologia senza idee, ma capace di determinare, in modo ancor più drastico di un’ideologia propria, le caratteristiche della pratica dell’architettura e, con essa, molto del vivere collettivo dell’intero pianeta.
Un’ideologia la cui pratica è gratificante e gratifica con le stesse leggi del mercato, con i soldi, con la fama, con la riconoscibilità, e con la profonda convinzione che avendo successo si è nel giusto, perché non dà forse il Signore così il segno della sua grazia?

Galeries Lafayette - arch. Jean Nouvel - Berlino - dicembre 2002

Conclusioni

L’architetto globale ha costruito il proprio ambito di azione attraverso tre passaggi che rendono riconoscibile il suo operato: rigettando le posizioni ideologiche e con esse ogni posizione critica, tacciata comunque di ideologismo, nei confronti della contemporaneità; sostanziando il suo operato sull’immodificabilità della condizione operativa data, e quindi sull’impossibilità dell’architetto di agire su di essa per modificarla, senza per questo prendere atto che la sua accettazione ne è, di fatto, un sostegno; conferendo un valore imprescindibile e inalienabile alla propria azione per cui la sua produzione diviene, per autoconferimento, centrale per aumentare la qualità della vita, in particolare attraverso la definizione di forme che divengono riferimento, irradiano sensazioni, danno soddisfazioni, producono benessere.
L’esito di questa scelta non è stato quello auspicato, che prevedeva il moltiplicarsi delle soluzioni e delle possibilità una volta svincolato il progettista dai dogmi e dalle imposizioni di una disciplina irrigidita; l’oggettivo prodotto da questa dinamica mostra al contrario, una generalizzata uniformità delle soluzioni, un’assenza di fantasia creatrice attribuibile proprio alla mancanza di relazione con l’intero contesto, un variare delle forme isterilito dall’uso concorde di prodotti industriali fatti in serie. La creatività, sull’altare della quale tanto si è sacrificato, è proprio quello che più difetta, mancandole l’alimento primo che è il respiro del mondo.
Il rischio è che, se l’architetto rinuncia al proprio ruolo critico nei confronti della committenza e del modello economico e sociale proposto, se rinuncia ad interpretare i bisogni ed i desideri della comunità, se rinuncia ad operare per il miglioramento della qualità ambientale e dell’autonomia culturale delle comunità, e visto che le soluzioni tecniche possono essere approntate dalle industrie di materiali e componenti, e che uno stilista può benissimo inventarsi una forma interessante, l’architetto globale non serva proprio a nulla.

Adriano Paolella

L’ombra dei grattacieli

Negli ultimi anni gran parte delle città del pianeta sono state interessate da significativi interventi di sostituzione di edificati esistenti con nuove architetture più accattivanti e di volumetria sempre maggiore rispetto all’esistente.
Questa condizione appare, ai più, qualificante la nostra contemporaneità ed in carenza di critica ha agito ed agisce in maniera così incisiva che moltissimi sono gli insediamenti totalmente riconfigurati con architetture fatte con gli stessi materiali e tecniche, afferenti ad un unico modello di uso, ignoranti la particolarità dei luoghi e la cultura delle comunità insediate.
Spesso questi interventi vengono presentati come energeticamente efficienti ed ecologicamente sostenibili.
L’ombra dei grattacieli vuole fornire elementi critici per rilevare come, al contrario di quanto spesso venga detto, questi interventi siano dannosi per l’ambiente e per le comunità.

Adriano Paolella
L’ombra dei grattacieli

edizioni il prato
€ 15,00

Adriano Paolella (Napoli, 1955) esperto di progettazione e pianificazione ambientale, docente universitario, responsabile della WWF Ricerche e Progetti, ha al suo attivo numerose pubblicazioni (tra cui Il progetto dell’abitare, Elèuthera 2002; Abitare i luoghi, BFS 2003; Identificazione e cambiamenti del paesaggio contemporaneo con C. Blasi, Papageno 2004) e attività su aree protette, partecipazione, architettura ecologica, microeconomia.
È collaboratore di “A”, per la quale ha curato, tra l’altro, assieme a Zelinda Carloni la serie di dossier contro la globalizzazione.