rivista anarchica
anno 37 n. 327
giugno 2007


politica

È il momento degli anarchici?
di Andrea Papi

 

La crisi del sistema politico, che coinvolge anche l’estrema sinistra, apre nuovi spazi alle “vecchie” proposte degli anarchici.

 

Si sono conclusi da poco i due congressi di DS e Margherita che, ognuno per parte propria, han sancito la fine di entrambi per confluire nel futuro partito democratico, il Pd, tra circa un anno. Personalmente non riesco a vivere questo avvenimento come un evento, come forse a loro piacerebbe dato che han tentato di spettacolarizzarlo alla grande. Più che altro lo vedo come una specie di atto finale conseguente all’evento vero, la caduta del muro di Berlino nel 1989, che in verità si colloca ben diciotto anni fa.
Da allora, costretti ad una presa d’atto storica che mai in cuor loro probabilmente avrebbero voluto, gli ex-aderenti-al-PCI si sono anche trovati costretti a diverse “mute” (il riferimento alle mutazioni biologiche degli insetti non è casuale), senza finora essere riusciti, a differenza della spontaneità entomologa, a trasformarsi da baco in farfalla. Riuscite per caso ad immaginarvi i vari D’Alema, Fassino, Veltroni e quant’altro con leggiadre ali da farfalla? Per quello che mi riguarda l’unica autodesignazione simbolica che questi signori si sono attribuiti è quella dell’asinello, con tutto il rispetto per questo “santo animale”, purtroppo finora solo costretto a portare sul groppone pesi di cui non è e sicuramente non vorrebbe essere responsabile.
Caduta di fatto l’illusione (per noi amanti della libertà è sempre stata soltanto una balla) che l’ex impero sovietico in qualche modo rappresentasse l’alternativa al capitalismo, i suoi ex-per-forza sostenitori hanno cominciato ad aggirarsi angosciati in un “ade” del pensiero e della pratica politica in cui non sono mai riusciti a ritrovarsi. Da una parte premeva forte il bisogno emozionale di dover in qualche modo, anche se molto raffazzonato e troppo vago, rimanere agganciati alla sfera dell’emancipazione (costola da cui sono ottocentescamente nati), dall’altra pragmaticamente si sentivano costretti a cercare di dare una forma “aggiornata” al dogma marx-leninista della presa del potere, irrimediabilmente incrostato nel loro subconscio, che non potendo più essere la obsoleta presa del potere rivoluzionaria non poteva che diventare un rifacimento, molto pieno di lifting da alta chirurgia, dell’ormai consunta andata al potere di stampo socialdemocratico, a suo tempo vissuta come un tradimento dall’ortodossia originaria.
Ci hanno pensato i leader, confermando il loro ruolo accreditato di guida e luce del cammino, che sanno come stare coi piedi per terra. Capito da tempo che in questa società, dato il loro mestiere, l’emancipazione non paga, hanno finalmente deciso di giocare a carte scoperte e di dichiarare definitivamente chiusa la stagione delle lotte emancipatrici. Basta con le ambiguità! Il vero obbiettivo non è più la costruzione del nuovo mondo, ma la guida di questo, per loro unico possibile che val la pena di cavalcare. Gettata finalmente la maschera, da ex soldati dell’alternativa si sono autovestiti con la divisa trasformista di militi di ciò che c’è, che ha tanto bisogno di essere riformato e rimesso in sesto. Si sono così autodefiniti con l’ossimoro “il futuro del presente”. Azzeramento totale degli ideali e della tradizione da cui provengono, ormai ingombranti e inservibili per trarre gli auspicati profitti politici e di consenso, e apertura al “nuovo” che ancora non c’è, ma che, dicono, è lì in attesa d’esser colto, basta aguzzare lo sguardo opportunista.
Trovata a portata di mano la complicità degli ex democristiani di sinistra, popolari rimasti orfani dell’antico transatlantico DC affondato dagli scandali di tangentopoli e confluiti nella margherita rutelliana, a loro volta desiderosi di riscatto e di una nuova identità di facciata, hanno deciso di mettere insieme le reciproche esperienze di mestiere per improntare una macchina del consenso efficiente, in grado di candidarsi con forza alla guida del sistema paese. Significativo e ad effetto lo slogan con cui presentano questa operazione di matrimonio per un investimento politico di lunga gittata: non un nuovo partito, ma un partito nuovo. In realtà né nuovo né partito. Molto più realisticamente si tratta della formazione di un nuovo apparato per la gestione del potere che c’è, senza più tradizione perché si è autodissolta per totale fallimento storico sul campo, mentre se ci fosse darebbe l’apparente dignità di poter essere partito.

Differenze irrisolte

Cerchiamo di capirne il senso. Il nuovo PD non nasce come spinta ideale per la realizzazione di un nuovo tipo di società, né per reciproco affiatamento su questioni di fondo. DS e Margherita si portano dietro differenze di fondo irrisolte sull’idea di famiglia, su questioni bioetiche, sulla collocazione europea (gli uni tenderebbero ad aderire ai socialisti gli altri ai popolari europei). Non sono accomunati né da ideali né da visioni del mondo. Si trovano però equiparati da interessi comuni, insieme fortemente interessati nella difesa di posizioni di potere e di privilegi. Per una simile comunanza e per simili scopi è senz’altro utile un apparato ben definito e forte in grado di assestarsi e rafforzare i consensi. Ecco come e perché nasce il Pd.
Il nuovo di cui blaterano è la messa in opera di una casa che, a loro dire, sia in grado di ospitare tutti i riformisti. Il loro slancio nasce dal bisogno di riformare le istituzioni e la politica per… (aggiungiamo noi) rafforzare il potere d’influenza e di dominio dei leader e degli apparati che gestiscono la politica di casa nostra. Significativo il manifesto redatto da dodici presunti saggi che ha fatto da sfondo a tutta la campagna di fondazione. Partendo con accenti da nuovo nazionalismo dichiara un irrefrenabile astratto amore per l’Italia, per poi slanciarsi in una continuamente vaga dichiarazione di buoni intenti, in cui spicca la volontà di fare del nostro un paese all’avanguardia nei mercati, nel rilancio delle imprese e degli investimenti e nella collocazione internazionale, in modo da riuscire a stare al passo con gli attuali tempi di globalizzazione. Qualsiasi programma di destra o di sinistra negli stati occidentali ha simili aspirazioni fintoinnovative di conservazione dell’esistente. Dov’è il nuovo?
Ma la chiusura dei DS non è stata indolore. Il 15% legato a Mussi se n’è andato direttamente durante il congresso di scioglimento, mentre a distanza di qualche giorno, con una lettera a Fassino, si è defilato il senatore Angius, capogruppo DS al senato. Non si rassegnano a sganciarsi anche nominalmente dal socialismo e, se pur sempre più annacquata, dalla sinistra in generale. In realtà è l’intero magma sinistrorso istituzionale ad essere in fermento, alla ricerca disperata di che cos’è e di che cosa vorrebbe proporsi di fare. Chi in un modo chi in un altro sono tutti alla ricerca di nuove radici, perché quelle vere da cui provengono non sembrano più in grado di alimentare le loro piante sempre più avvizzite. Come se le radici non spuntassero dal seme che le genera. Ed è questo il loro problema: il loro seme ha generato una miriade di piantine sterili che non riescono a crescere. Hanno paura di una totale perdita di senso. Così provano a ridefinirsi, ora che non c’è più, come ai tempi dei bolscevichi, un’ecclesiastica ortodossia ufficiale che può condannarli in continuazione.
Una “nuova” decrepita star sta sorgendo all’orizzonte. Il defunto Andrea Costa, fondatore del socialismo italiano nel 1892, si sta prendendo la sua rivincita storica. Ora che i padri fondatori delle varie parrocchie dei resti della sinistra nostrana, ormai inservibili, vengono messi definitivamente nelle cripte, sembra che tutti abbiano delle gran fregole di voler tornare alle origini costiane, come se non fosse stato proprio il percorso messo in movimento dall’ex anarchico Costa ad aver fallito su tutti i fronti la meta prefissata. Di primo acchito, tutto ciò sembrerebbe un’ottima base per dare forma alla coalizione di sinistra, non più centrosinistra, che tutti i sinistrorsi sembrano chiedere a gran voce da ogni parte.
Invece no! Le incrostazioni che si trascinano da decenni e le liti inveterate di quartiere non permettono di coabitare con tranquillità nello stesso condominio. I neofiti fuggiaschi dal futuro Pd vogliono ridare forza al “socialismo vero”, ma non riescono, per ora, a trovare convergenza coi socialisti, quelli che hanno sempre continuato a chiamarsi così, perché non si fidano di Boselli, che all’ultimo congresso ha dichiarato di voler rimettere in piedi il PSI. Ha voglia Boselli di spiegar loro che si riferisce a Costa e non a Craxi, rimasto odiato nemico degli ex PCI. Loro non si fidano.
Anche Giordano non si fida del bosellismo. Come afferma in un’intervista a “Il Messaggero” del 19 marzo scorso, non può trattarsi di un semplice ritorno al passato, bensì di un’idea tutta nuova di socialismo, senza riuscire a dire quale possa essere. Eppure è abbastanza evidente che sotto sotto, con la benedizione di Bertinotti, sta preparando una nuova Rifondazione, non più comunista è ovvio, questa volta socialista. Poi ci sono i verdi, più preoccupati per gli aspetti ambientalisti, per cui giustamente diffidano di questa nuova revanche socialisteggiante che ha un linguaggio tutto interno alle proprie categorie politichesi.
Infine i comunisti di Diliberto e Cossutta, rimasti unici a trascinarsi nostalgie togliattiane, che conseguentemente diffidano di questi remake da socialismo della prima ora, che a suo tempo fu fortemente condannato dal bolscevismo togliattiano. Aspirano nell’immediato ad una specie di “confederazione di sinistra”, per la quale Diliberto e Bertinotti si sono riabbracciati al congresso dei comunisti italiani, e ci devono pensare bene su prima di fondersi in una specie di sinistra plurale senza aggettivi che arrivi fino ai socialisti e ai transfughi dal Pd. Insomma, i residuati della sinistra istituzionale sono in gran movimento, spinti da una frenetica necessità di ricompattarsi. Però vivono nell’afflizione, non sapendo come e, soprattutto, sapendo sempre meno il perché.

La vecchia sinistra non ha più nulla da dire

Dal nostro osservatorio esterno a questi giochi diciamo che i “sinistri” del palazzo non riescono più ad esprimere idee politiche, nel senso originario di un pensiero che elabora e si innova. Esprimono invece, con malcelati accenti d’ansia, giustificazioni politiche alle manovre di riassetto del potere politico. Spinti come siamo a cercare spiragli che conducano verso l’emancipazione e autentici valori di libertà, diciamo anche che ciò che sta succedendo al confuso universo della sinistra istituzionale è in fondo un bene, perché, al di là delle intenzioni dei suoi protagonisti, mette a nudo con sempre maggiore evidenza la loro ambiguità e la loro endemica incoerenza. Si stanno smascherando da soli. Sono sempre meno in grado di affermare che agiscono per realizzare i fini per cui dovrebbero esistere, cioè l’uguaglianza e l’abbattimento dello sfruttamento economico e dell’oppressione politica, oltre che la partecipazione concreta dal basso.
Gli ultimi avvenimenti del panorama politico italiano, la manifestazione a Vicenza contro la base militare americana, la caduta del governo Prodi sulla politica estera di D’Alema, il conseguente dietrofront della cosiddetta sinistra radicale sulle rivendicazioni “pacifiste”, la formazione del Pd e i tentennamenti del magma istituzionale sinistrese, in tutta evidenza aprono un varco nelle coscienze. Il fronte istituzionale che da decenni usurpa le tradizioni di lotta e di resistenza emancipatrici non è più credibile, non ha più ideali di riferimento e non è più in grado di dirci che società vuole. È sempre più evidente che non possono, ma nemmeno vogliono, muoversi per una società liberata dallo strapotere del mercato liberistico e delle oligarchie lobbistiche rappresentativo-democratiche. Nei fatti non vogliono il “nuovo mondo” che a voce propagandano di credere “possibile” ed agiscono in continuazione per sabotarne le possibilità d’attuazione.
Anarchici e libertari, facciamoci forza! Teoricamente dovrebbe esser venuto il nostro momento. La vecchia sinistra, ormai a pezzi e sfaccettata in mille rivoli incoerenti, non ha più nulla da dire se non che, al pari di ogni altro aspirante al potere, ha bisogno, senza fra l’altro averne la forza e le possibilità, di governare questo mondo, mentre era sorta per abbatterlo. D’altro canto il sistema vigente non funziona, o funziona sempre meno. Per questo ci vuole un’idea di società che tenga conto del senso della società, in grado di ruotare attorno a se stessa e ai suoi bisogni e di sganciarsi da ogni forma di accaparramento, sia finanziario sia di capitali, e di gestione di poteri oligarchici.
Noi quest’idea ce l’abbiamo da quando esistiamo. Ora è il momento! Dobbiamo solo trovare la forza, la convinzione e la determinazione per affermarla, propagarla e cominciare seriamente a sperimentarla.

Andrea Papi