rivista anarchica
anno 37 n. 328
estate 2007


società

Reinventare la politica
di Antonio Cardella

 

La morte o, se preferite, il collasso della politica sta dunque nella sua incapacità di gestire il presente in funzione di un avvenire che, salve le inevitabili variabili e gli imprevedibili incidenti di percorso, assicuri comunque continuità al procedere umano.

 

Il dramma al quale assistiamo, e di cui in qualche modo tutti siamo partecipi, è il completo collasso della politica: della politica intesa come attualizzazione e consolidamento delle norme di convivenza, capacità progettuale e visione corretta dei percorsi da compiere per non compromettere le sorti della comunità. Tutto questo è sparito dai nostri orizzonti e quel poco che resta è avvolto in una nube spessa che lascia trasparire assai poco.
Le ragioni che rendono perverso e irreversibile questo processo sono molte. Io tenterò di sottoporvene alcune perché, valutandone ovviamente la consistenza, si possa poi tentare di dare risposte anarchiche all’inesorabile fluire degli eventi e alle crescenti sofferenze degli uomini.

Rapporto squilibrato

Premetto, perché non sorgano dubbi, che l’ambito del mio discorso è limitato all’Occidente in quanto, a mio parere, l’Occidente è all’origine dei modelli di sviluppo economico-giuridici che, purtroppo, tendono vistosamente ad estendersi in altre grandi aree del pianeta.
La prima ragione del collasso a me sembra risiedere nell’anelasticità delle strutture politico-giuridiche dello Stato locale rispetto all’accelerazione dei processi che si manifestano nel concreto quotidiano della comunità amministrata. Si verifica, in sostanza, che gli eventi si manifestano e poi si modificano in tempi incomparabilmente più celeri di quanto non possa lo Stato prenderne compiutamente coscienza ed approntare le norme per regolarli. Questo aspetto particolarmente squilibrato del rapporto tra la vita concreta della comunità e l’esercizio delle competenze statuali relega l’esercizio del potere a confrontarsi costantemente con un passato che il concreto della vita dei cittadini si è, nel bene e nel male, lasciato alle spalle.
Di esempi se ne possono fare a iosa.
Tutti abbiamo sotto gli occhi i salti mortali che i governi locali debbono compiere per tentare di adeguarsi a evenienze assai rilevanti come quelle degli imponenti flussi migratori, i quali sono ben lungi dal poter essere considerati imprevedibili, essendo determinati intanto dall’atavico differenziale tra le condizioni della popolazione delle così dette società del benessere e – citiamo un esempio per tutti – le popolazioni sub-sahariane, flussi facilitati adesso dal sia pur relativo miglioramento delle vie di attraversamento e dalle sollecitazioni che provengono dal diffondersi, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, di messaggi che esaltano stili di vita impensabili per i molti diseredati del pianeta. Si tratta di problemi ineludibili e non differibili, che creano nei paesi ospitanti reazioni oscillanti tra l’adozione di misure drastiche di arginamento del fenomeno, misure sempre prive di risultati concreti e pericolose per l’innalzamento del livello dello scontro, e il varo di normative che abbozzino politiche di accoglienza il più delle volte inadeguate.

Metropoli abnormi

Collegata a questo tema e aggravata dalle migrazioni interne è la gestione dell’abnorme crescita delle metropoli che sono sorte in ogni angolo del mondo. Non vi è potere locale che, di fatto, non abbia rinunciato a ricostituire un tessuto urbano ordinato, dotato di servizi adeguati al proliferare di periferie che crescono come metastasi di un corpo sempre più debilitato e irricettivo.
Le città disegnate sul modello di aggregazioni coese, di relazioni interne tra cittadini che avvertono di abitare i luoghi nel senso più ampio del termine, luoghi nei quali è equilibrato il rapporto tra godimento degli spazi, sicurezza, svolgimento ordinato delle attività lavorative e produttive, proliferazione delle manifestazioni culturali e ricreative, queste città purtroppo non esistono più se non nel ricordo di generazioni in estinzione.
Oggi le metropoli, anche e soprattutto quelle dell’Occidente opulento, si sono ridotte a lugubri dormitori che si affacciano su strade attraversate da un’umanità frenetica, dominata dal bisogno di concorrere ai consumi indipendentemente dalle possibilità reali di accedervi. Crescono così una competizione aggressiva ed un’economia fittizia che bruciano senza soste risorse umane ed intellettuali, non solo, ma contribuiscono all’imbarbarimento di un contesto che non riesce più a normalizzarsi e a ricostruire un presente ed un futuro dotati di senso.
Quando le cose vanno un poco meglio e si avverte il fervore per il nuovo, si ricostruiscono centri urbani da palcoscenico, capaci di stupire il visitatore con l’arditezza delle costruzioni e la razionalità delle soluzioni architettoniche. Penso a Berlino: una meraviglia alla cui ricostruzione hanno contribuito i più grandi architetti del mondo. Ma se ci si allontana dal centro, se si ripercorrono le strade della città vecchia, direi della città resistente, si avverte il rumore sordo delle porte blindate che isolano, sprangandosi, i nuclei familiari; riconosci nell’aria la paura del diverso, il turco o il magrebino che sia, e la profonda angoscia per la precarietà dell’esistenza quotidiana, la disoccupazione, la voglia frustrata di futuro. E quando cresce il senso della precarietà e si autoalimenta la paura di non farcela, quando si finisce coll’interpretare a proprio danno qualunque espediente al quale il potere ricorre nel tentativo di riconquistare un minimo di credito, non vi è soluzione politica o amministrativa che tenga: il cittadino si allontana ineluttabilmente dal contesto collettivo e tenta di risolvere in solitudine i problemi che lo affliggono.

Delega forzata

Ma vi è un’altra ragione, probabilmente più cogente, che determina il collasso della politica, ed è la perdita di potere reale degli Stati nazionali. Ci riferiamo in particolare alle condizioni del Vecchio Continente, della vetusta Europa che si muove con difficoltà negli ardui percorsi della modernità.
Con l’avvento della globalizzazione, alcune delle funzioni più importanti degli Stati sono state delegate ad entità sovranazionali, che le amministrano con ottiche che, per intenderci, chiameremo extraterritoriali. Questa delega forzata, con la conseguente sottrazione, alle sovranità locali, delle capacità di gestire gli interessi delle singole comunità, interpretarne le vocazioni, attenuarne le tensioni con apparati politico-giuridici adeguati e specifici, questa delega forzata – si diceva – ha provocato, da un canto, la penalizzazione di settori economici sempre più vasti, sacrificati ad un presunto mercato globale, difficile da definire se non in termini di prevalenza dei potentati economici internazionali e di accumulazione di profitti da giocare sul tavolo delle speculazioni finanziarie.
Ma anche qui facciamo qualche esempio perché il discorso sia più chiaro e meno generico.

La moneta unica

In Europa, l’avvento della moneta unica ha certamente portato dei benefici arginando derive inflazionistiche pericolose, costringendo al confronto tutte le economie dell’area e riducendo la portata di misure protezionistiche che, favorendo singoli settori economici dei vari Stati, inquinavano le transazioni internazionali e alteravano le connotazioni reali delle condizioni esistenziali delle diverse popolazioni. Tutto questo è vero, ma, come sempre, bisogna non trascurare il rovescio della medaglia. La moneta non è un’entità astratta: è rappresentativa di un contesto ben definito di una comunità che ha caratteristiche specifiche. Nel suo valore sono sintetizzati non solo i dati economici salienti (la consistenza del suo apparato produttivo e distributivo, la circolazione monetaria, il rapporto tra entrate ed uscite e via dicendo) ma anche la densità e distribuzione della popolazione, lo stato sociale, e persino la configurazione morfologica del territorio, con il prevalere delle economie montane rispetto a quelle di pianura o viceversa. E poi le reti di comunicazioni e la loro gestione nel trasporto di uomini e merci con i costi conseguenti. Ebbene la moneta di una comunità nazionale è tutto questo e altro ancora: poterne controllare il corso ha consentito agli stati nazionali di correggere gli squilibri, di potenziare le infrastrutture, spostare risorse da un settore all’altro della produzione a seconda della domanda interna ed internazionale. L’avvento della moneta unica, introdotta dall’oggi al domani in economie così differenti tra loro, ha sottratto ai governi locali una parte consistente delle loro funzioni, imponendo normative di regolamentazione della concorrenza, del commercio, degli equilibri dei bilanci pubblici forzatamente generalissimi, anche corretti nella loro impostazione teorica ma non sufficientemente flessibili per rappresentare adeguatamente le singole specificità.
Agli Stati nazionali è insomma rimasto l’onere di adeguarsi e, spogliati di fatto dei volani principali per reperire risorse a soccorso dei bisogni specifici delle popolazioni, il compito ingrato di gestire i servizi più onerosi: le forze armate, lo stato sociale, i servizi pubblici e così via. Da ciò l’inasprirsi dei conflitti tra i governi centrali e le amministrazioni locali, le sofferenze dell’assistenza pubblica e il progressivo ingresso di fasce sempre più consistenti di popolazione negli ambiti dolorosi dell’indigenza.

Poteri irraggiungibili

Il collasso della politica, dunque, è dovuto, intanto al suo distacco dal territorio per trasferirsi in aree rarefatte, lontanissime dal vissuto concreto degli individui; poi dall’essere percepita come strumento nelle mani di poteri, occulti o manifesti e comunque irraggiungibili, i cui interessi prevalgono sui bisogni delle popolazioni.
In una indagine avviata in Italia nel 2005 dalla Demo/Banca Intesa, per conto della rivista “Limes”, al campione (statisticamente adeguato) si chiedeva a quale area geopolitica avvertiva di appartenere maggiormente. Le risposte furono: all’Italia il 26,4%; al mondo intero il 19%; al Nord, al Centro e a Sud il 16,9%; alla propria città il 15,4%; alla propria regione il 13%; all’Europa il 7,8%; non sa l’1,5%. Messi a confronto con i dati rilevati nell’anno 2000 dalla ricerca La Polis-Limes, si hanno le seguenti variazioni: rispetto al 2000 sono diminuite le adesioni alla propria città (dal 29,3 al 15,6%); alla propria regione (dal 14,9 al 13,3%) mentre sono aumentate le adesioni: all’Italia (dal 22,3 al 26,8%); al Nord al Centro al Sud (dal 13,7 al 17%); al mondo intero (dal 13 al 19,4%); all’Europa (dal 6,7 al 7,9%).
Come si può notare confrontando i dati del 2005 rispetto a quelli del 2000, esiste certamente un ampliamento dell’ambito territoriale nella visione del campione indagato: la propensione evidente è quella di guardare oltre i confini consueti. Ma è altrettanto evidente che la grande maggioranza degli intervistati è ancorata al territorio d’appartenenza anche se aumenta l’area di chi si avverte cittadino dell’Europa o del mondo intero.
L’indagine, di cui noi abbiamo fornito i dati salienti, è molto più complessa e prosegue con l’approfondire i dati psicologico/sentimentali che caratterizzano la percezione dei processi di globalizzazione da parte di quanti (e sono sempre di più) ne hanno coscienza. Ma è una coscienza inquieta nel senso che una parte consistente di quanti avvertono gli effetti della globalizzazione nel loro vissuto quotidiano, li percepiscono come imposti da forze fuori dal loro controllo.
In buona sostanza, connesso al relativo declino dell’identità locale è il crescente spaesamento per un futuro che proietta in spazi sconosciuti e pericolosi, nei quali è difficile allocare credibilmente speranze di futuro.
La morte o, se preferite, il collasso della politica sta dunque nella sua incapacità di gestire il presente in funzione di un avvenire che, salve le inevitabili variabili e gli imprevedibili incidenti di percorso, assicuri comunque continuità al procedere umano.
D’accordo, si tratta di dati che riguardano l’Italia e l’Italia declina spesso parossisticamente squilibri e difetti della comunità europea alla quale nel bene e nel male appartiene.

“Male di vivere”

Ma il dato incontestabile è che cresce in tutto il Vecchio Continente il “male di vivere” – se mi si consente il termine letterario – crescono i comportamenti bulimistici: l’insopprimibile necessità di divorare anche oltre il sopportabile, nell’inconscio terrore delle carestie a venire. E si moltiplicano le istanze millenaristiche delle grandi religioni monoteiste, che intercettano bene i bisogni di certezze, quelle certezze negate da una società che ha smarrito il senso della razionalità e delle compatibilità.
E ancora connesso con questo senso di smarrimento collettivo – consentitemi quest’ultima notazione – a me sembra ci sia il “bisogno di destra” che caratterizza l’involuzione politica dei maggiori paesi europei.
Un muro perimetrale rimasto miracolosamente in piedi nel panorama di macerie ereditato da almeno cinquant’anni, gli ultimi, costellati da guerre regionali, disastri ecologici, dissennato uso delle risorse e progressiva emarginazione di quote sempre maggiori di umanità sofferente, questo rudere ancora in piedi può apparire come rifugio momentaneo all’incalzare degli eventi distruttivi. Così ci si abbarbica ai presunti valori tradizionali, la patria, la famiglia, la religione e poco importa che tali valori siano a loro volta in crisi per involuzione endemica.
Sarkozy in Francia vince alla grande le elezioni per la presidenza della repubblica, rispolverando la grandeur gollista e promettendo la linea dura contro la popolazione diseredata delle banlieu, né più né meno di quanto Angela Merkel in Germania riesca a coinvolgere la sinistra tedesca in politiche antipopolari, o la destra italiana di fatto divide a metà la nazione sulla base di istanze razziste e di secolarismi d’accatto.
Allora?

Disastri annunciati

È evidente che nessuno abbia la bacchetta magica per proporre soluzioni definitive. Ma io credo che sia necessario decrittare in chiave libertaria i segnali che, anche con le inevitabili contraddizioni, provengono da popoli smarriti e annichiliti dall’incombenza di un futuro minaccioso.
È un caso che riconoscano nel territorio d’appartenenza un ancoraggio che impedisca loro di aleggiare pericolosamente nel vuoto?
Da oltre 135 anni – diciamo, dal Congresso di Saint Imier del settembre 1872 – seduti sulla sponda del fiume, vediamo passare i ruderi delle monarchie costituzionali e non, delle dittature più sanguinose, del comunismo realizzato e della democrazia sempre invocata e mai compiuta: Adesso cominciano ad affiorare i primi relitti dell’Impero americano e della globalizzazione. La straordinaria sopravvivenza del pensiero libertario a questi tramonti impone a tutti noi che del pensiero libertario siamo figli, di trovare il bandolo di una transizione che eviti all’umanità i disastri annunciati.
Può darsi che reinventare la politica, restituendole i valori originari di governo di popolo e di capacità progettuale, sia un buon viatico.

Antonio Cardella