rivista anarchica
anno 37 n. 328
estate 2007


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Chiedo asilo a Kalakuta
(omaggio a Fela Kuti)

Esattamente dieci anni fa quella stessa nazione nigeriana che lo aveva perseguitato, picchiato, ridotto in fin di vita, sbattuto in prigione e costretto a mangiare fra le proprie feci, proprio quella stessa nazione decretò per la sua morte quattro giorni di lutto nazionale. Le autorità militari che lo avevano condannato, che avevano assassinato sua madre e che, quando lui era ormai ridotto al fantasma di sé stesso, avevano perseguitato suo fratello, dissero che la Nigeria perdeva “uno degli uomini più valorosi della storia del paese”. Nella città di Lagos il giorno del suo funerale scesero spontaneamente per le strade un milione di persone e tutti lo accompagnarono alla tomba, accanto alla madre.
Era morto Fela Kuti, il leone, il re, l’inventore dell’Afro Beat, la prima e forse l’unica forma originale di musica moderna Africana. Era morto il presidente nero, il ribelle che dal suo quartier generale, la Repubblica di Kalakuta, tuonava contro il colonialismo, ma soprattutto contro la sua mentalità e metteva in croce i governi ruffiani e corrotti, brutali e ladri.
Aveva preso l’AIDS, si dice. Fino all’estreme conseguenze la sua appartenenza al martirio del continente africano ne aveva fatto il crocevia di tutto ciò che l’Africa è, di dolore e di speranza, e dunque a questo cammino di luce, a questa via crucis, non poteva mancare una delle piaghe che peggio imperversa in quella terra martoriata.
È morto di AIDS, si dice, anche se lui non l’ha mai voluto sapere: rifiutava le analisi e le cure della medicina che veniva dal paese e dalla cultura dei corruttori, e chissà che non avesse ragione a rifiutare, in un estremo atto di ribellione, una medicina che cura e dispensa le sue attenzioni ai ricchi e che sancisce che la vita di chi è sazio vale più di quella di chi ha fame.

Amarezza, non rinuncia

Si diceva, forse a ragione, che negli ultimi tempi, forse a causa della stessa malattia che lo avrebbe vinto di lì a poco, avesse perso la sua lucidità, che si fosse allontanato dai compagni di lotta di una vita e che si fosse perduto nel suo ruolo di santone, di profeta, di stregone. Io credo che la lotta che dura una vita a volte logora fino a lasciare una stanchezza e un’amarezza che non sono una rinuncia, ma che possono assomigliare allo sconforto: “Non mi sono arreso./Non ho smesso di comporre canzoni per farvi pensare ed essere felici./Osservo soltanto la situazione e rido./…/Senza capo né coda, i problemi sono gli stessi:/niente acqua, niente elettricità./Cosa non ho cantato per cambiare le cose in questo paese?/Canto, canto, canto, al punto che mi hanno buttato in prigione,/mi hanno legato mani e gambe, mi hanno picchiato,/hanno appiccato il fuoco a casa mia e ucciso mia madre./…/Il governo, l’élite e l’esercito sono accessori/e diventano sempre più ricchi,/mentre le schiere dei poveri si ingrossano sempre di più./ Allora osservo e rido…
E pensare che in più occasioni – soprattutto negli ultimi tempi – i vari governi, che si succedevano vorticosamente, colpo di stato dopo colpo di stato, tentavano di sfruttarne l’enorme popolarità ai loro fini, di legittimarsi portando dalla loro parte il Nigeriano più popolare della Nigeria, il musicista africano più popolare del mondo.
“Quest’uomo che musicalmente parlando è James Brown, Bob Dylan e Mike Jagger messi insieme” (come diceva il “New York Times”), lo si sarebbe voluto trasformare in una comoda icona al servizio del potere, ma nessuno ci riuscì mai, nemmeno la malattia, nemmeno la morte.
Lo invitavano regolarmente in quel genere di simposi ufficiali in cui sono specializzati a intervenire sui problemi dell’Africa proprio coloro che sono essi stessi parte del problema, figuriamoci se possono suggerire soluzioni!
Il più delle volte Fela non ci andava…quando ci andava le sue relazioni risultavano rivoluzionarie e inaccettabili: “Come può un paese africano avere scambi commerciali normali col suo colonizzatore? Con quel paese che vuole solo una cosa: mantenerlo in schiavitù. Il mercato è truccato! (…). Il marxismo non può aiutarci, e neppure il leninismo o il maoismo, meno di tutti il capitalismo. Gli africani devono cominciare a promuovere delle idee e dei concetti africani.(…). Solo allora l’uomo nero non sarà più costretto a portare merda! Non ho un dottorato in economia, ma posso dire senza problemi di averne uno in buon senso”.

Mentalità occidentale

Il buon senso di Fela però non fu molto apprezzato quando era stato invitato dal governo di Murtala Muhammad – che seguì, con un colpo di stato, quello del generale Yakubu Gowon – desideroso di accreditarsi come il più liberale possibile, a prendere parte all’organizzazione del FESTAC (festival mondiale di arti e cultura neri).
Era un invito a buon mercato, un invito a suonare per un musicista per cui ogni settimana si muovevano da ogni parte dell’Africa centinaia di persone, un invito che Fela prese provocatoriamente sul serio! Inviò subito un decalogo allo scopo di trasformare il festival in una vera festa della cultura africana per gli africani, in un atto di resistenza contro quell’atteggiamento mentale di servilismo che portava a ritenere degne d’interesse solo le culture derivanti dall’Europa.
Prima non eri uno schiavo/ora ti hanno liberato./Ma tu non ti liberi mai./…/Azioni l’aria condizionata e chiudi la finestra a tutto quello/che succede nel tuo paese. Non è così?/Presiedi i tribunali con la parrucca bianca e/butti in prigione i tuoi fratelli. Non è così?/Ti vergogni del tuo nome/e prendi quello di uno schiavo. Non è così?/Mentalità coloniale/…
Le sue proposte vennero rigettate in blocco e il FESTAC fu quella vetrina che doveva essere, ad uso del turista venuto a vedere un po’ della “primitiva” cultura africana, “Fela” si disse “doveva solo farci conoscere il suo cachet”! Ma il cachet di Fela era sempre passato per richieste che non erano solo né principalmente economiche.
Ciliegina sulla torta dell’iniziativa e casus belli per scatenare una guerra personale contro Fela, fu un’iniziativa del governo che, per sfoltire il caotico traffico di Lagos, pose vigili armati di frusta (e invitati a infliggere frustate in totale arbitrio) agli angoli delle strade.
“Come siamo potuti cadere così in basso” tuonò Fela “alla stregua di barbari e cannibali, e accettare che le persone vengano frustate per la strada come fossero animali?”. Il governo non gradì; una serie di tafferugli scoppiati attorno a casa di Fela, la Repubblica di Kalakuta in cui si rifugiarono dei passanti per non essere frustati, diedero il pretesto all’esercito di intervenire col più grave attentato mai compiuto ai danni del geniale musicista. Il 18 febbraio del ’77 i soldati (quelli che Fela chiamava “Zombie”) irruppero a Kalakuta devastando, saccheggiando, violentando, incendiando la casa, distruggendo strumenti, nastri e archivi: chissà quanti capolavori di quella vulcanica fucina perduti per sempre! Nel corso della razzia i soldati scaraventarono la mamma di Fela giù da una finestra.

Una donna indomita

La mamma di Fela era un personaggio straordinario: prima donna della Nigeria a prendere la patente di guida, virulenta anticolonialista, combattente indomita per i diritti delle donne nere, morì alcuni mesi dopo in seguito alle ferite riportate nella defenestrazione.
Per Fela si aprì una piaga non rimarginabile, un’altra che si andava ad aggiungere alle tante ferite fisiche inflitte, pestaggio dopo pestaggio, nei mesi di detenzione nei tanti carceri in cui la più grande star africana del secolo s’è dovuta ritrovare a più riprese nella sua vita. Gli avevano spaccato la bocca così tante volte che negli ultimi tempi non riusciva più a suonare il sassofono.
Ma lui tornava sempre con canzoni nuove nello Shrine e nella Repubblica di Kalakuta; questi due nomi mitici sono quelli dei luoghi privilegiati in cui Fela operava, viveva, amava, lottava, i luoghi da cui partiva alla conquista dei palchi più prestigiosi dei festival mondiali, ma a cui tornava sempre a rigenerarsi col suo pubblico, con la sua gente. Siti all’estrema periferia della terrificante città di Lagos – la capitale della Nigeria – il primo era il locale, rilevato dallo stesso Fela, in cui lui si esibiva ogni settimana in show che erano concerti e comizi, celebrazioni e ritualità pagane e liberatoria e barricate di lotta e di comprensione. La seconda era la casa in cui Fela viveva con le sue 27 mogli, sposate tutte assieme in una cerimonia pubblica, e poi tutte assieme liberate con un'altra cerimonia pubblica, quando Fela si convinse che un uomo non poteva “disporre del sesso” di un altro essere umano. La Repubblica di Kalakuta, questo luogo morale, questo crogiuolo di contraddizioni fra le pulsioni tribali – potentissime in un personaggio col suo carisma strabordante – e le rivendicazioni rivoluzionarie e libertarie che gli erano proprie e che ce lo rendono caro.
Fu dieci anni prima, durante la prima tournée negli Stati Uniti nel 1969, che Fela era diventato il Fela che amiamo. Invitato a suonare per la prima volta nel paese del soul e di tutto il jazz che adorava, da un manager di pochi mezzi e scrupoli, Fela partì col suo gruppo per accorgersi, una volta arrivato, che non c’era alcuna copertura finanziaria e che i concerti e il manager stesso s’erano volatilizzati. Cominciò una disperata rincorsa di occasioni per suonare e tentare di racimolare il necessario per tornare a casa. Lungi dallo sconsolarsi Fela colse ogni occasione per conoscere bene dal basso il sistema del più grande show business del mondo, per impratichirsi di tante forme e tecniche musicali ed espressive. Fondamentale per la sua presa di coscienza fu però soprattutto la sua amante del periodo, una militante di spicco delle Black Panther che lo mise in contatto con le migliori menti del movimento, lui aprì gli occhi su un mondo di rivendicazioni e di ribellione che sentiva già dentro.

Afro Beat

Fu così che a rientrare in Africa nel 1970 non era più un raffinato jazzista, già coltivato nei conservatori inglesi e andato a perfezionarsi in America, ma un rivoluzionario in piena ondata creativa.
La creatura si chiamò Afro Beat: una musica completamente nuova, il prima genere originale della musica africana moderna, la culla di ogni futura dance music, ma anche un veicolo di altissima qualità su cui Fela faceva viaggiare testi dall’alto potenziale sociale. Era come se un nuovo Malcolm X parlasse la lingua arcaica dei tamburi ossessivi, dei cori luminosi che dialogavano col leader in un botta e risposta serrato, della moderne pulsazione del basso elettrico, delle oscure scivolate di un sax da combattimento. Era danza e liberazione, persuasione e possessione, ragione e corpo, sudore e rabbia condensati in una musica nuovissima che è riconosciuta come l’avanguardia di qualcosa che ancora oggi è in evoluzione. Era nato l’Afro Beat.
Anikulapo (il nome che lui s’era scelto, cioè “colui che ha la morte in tasca”) Fela Hildegart Ransome Kuti era invece nato nel 1938. Suo padre – che discendeva da una famiglia di insigni musicisti africani – avrebbe voluto fare l’avvocato, ma era riuscito solo a studiare abbastanza da fare il pastore; di sentimenti fortemente anticoloniali, aveva sposato quella donna incredibile che fu la madre di Fela, ed era riuscito a mandare a studiare a Londra due figli, il primo per fare il medico, il secondo per fare l’avvocato. Fela però invece di studiar legge si dedicò anima e corpo alla musica studiando la tromba (poi abbandonata per il sassofono), facendo i primi lavori professionali, e – incidentalmente – sposandosi per la prima volta e mettendo al mondo il suo primo figlio Femi (oggi musicista di altissimo livello, il più vero e grande “erede” del padre). Tornò in Africa col suo diploma di musicista, con la sua famiglia e ricco dell’esperienza del suo primo gruppo, i “lupacchiotti di Fela”, nel 1963…
Questa storia la trovate raccontata con molta partecipazione nel libro di Mabinuori Kayode Idowu Fela Kuti – Lotta continua!, un testo che io conoscevo in francese, finalmente disponibile anche in italiano nella collana “Jazz people” del beato costruttore d’incertezze Marcello Baraghini, grande dinamitardo culturale dell’editoria italiana, per intenderci quello di Stampa alternativa.
Io mi sono limitato a riportarvi qualche notizia in ordine rigorosamente inverso, perché, dalla morte di Fela a oggi, tutto in Africa sembra andare alla rovescia, tutto cade sempre più nel gorgo senza speranza della fame, del dolore e della morte.
Però questa storia ve l’ho raccontata al contrario anche perché penso che tutto ciò che è già accaduto può e deve ancora accadere.
La storia sta per cominciare nella Repubblica di Kalakuta.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it