rivista anarchica
anno 37 n. 328
estate 2007


 

Le ambiguitą
dell’Autonomia

Da un paio di mesi è presente nelle librerie il primo volume (a cura di Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti, Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, vol. I, DeriveApprodi, Roma 2007, pp. 463) di un’opera – suddivisa in tre parti, le cui successive prevedono le riflessioni teoriche dei ‘capi” e la raccolta di documento del periodo in un DVD – che ripercorre la tumultuosa storia del variegato arcipelago che contraddistinse la teoria e la pratica dell’Autonomia operaia nel corso degli anni ‘70: dal suo costituirsi, a Bologna nel marzo del 1973 in occasione del primo convegno nazionale delle assemblee e degli organismi autonomi di fabbrica e di quartiere, sino al suo progressivo dissolversi che avrà come data d’inizio il 7 aprile 1979, a tutti noto in virtù del famoso “teorema Calogero”.
I curatori dell’opera, Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti, hanno espressamente inteso affrontare un tema ancor oggi spigoloso e foriero di molteplici e controverse letture, sottolineandone già nel titolo, Gli autonomi, il carattere plurimo e screziato di un’esperienza che ha interessato migliaia e migliaia di individui al punto da condizionarne non soltanto la loro esistenza, ma anche la loro storia e la storia di questo Paese, da sempre alle prese con “storie” dai contorni ambigui, criminali ed eversivi. Così, dalle stragi di stato, ai golpe fascisti, passando per le politiche delle grandi intese che videro il partito comunista italiano “farsi stato” (o, per meglio dire, “gendarme”, “sgherro”, di un sistema sociale in aperta crisi economica e politica), corse un fiume carsico costituito dalle lotte dei lavoratori, degli studenti, del proletariato, che sfociò nella contestazione sessantottina, tracimando nei successivi anni sino ad allagare l’intera prateria, incrinando l’ordine costituito sino al punto da vederlo pericolosamente barcollare dinnanzi alla violenza di una forza organizzata autonomamente in tutti i settori della società capitalista. Poi, la forza della violenza delle frange armate di un movimento rivoluzionario che – sebbene per un breve periodo – seppe fare a meno delle avanguardie, dimostrando di non aver necessità di nessun partito (tanto meno clandestino e militare), riuscì a scompaginare, neutralizzandola, la ricchezza propositiva di una soggettività che nell’azione collettiva e di massa aveva finalmente ritrovato la propria dignità nell’appartenenza ad un altro modo d’intendere la vita.
Chi, da tempo, si occupa di questa storia ha in più occasioni sottolineato l’anomalia della realtà italiana nei confronti di un processo rivoluzionario che ebbe una vampata di fuoco durante la fine degli anni sessanta in tutte le contrade dell’occidente urbanizzato, ma che soltanto in Italia riuscì a diffondersi nel tempo e nello spazio, continuando la sua opera radicalmente trasformatrice sino alla fine degli anni ’70, interessando non solamente i centri dello sviluppo economico/produttivo, ma anche le periferie e il loro tessuto sociale. Un’anomalia che segnò il passaggio repentino dal proletariato al lavoratore (l’operaio-massa), dove durante gli anni ’60, l’emigrazione della forza lavoro nei grandi centri industrializzati formerà un nuovo tessuto produttivo esprimente nuove istanze sociali, per ritornare di seguito dal lavoratore al proletario (l’operaio-sociale), quando la crisi petrolifera del 1973 divenne anche l’occasione sfruttata dal sistema capitalistico per espellere – mediante una ristrutturazione produttiva ammortizzata socialmente dalla cassa integrazione – con gli operai e gli impiegati anche i loro rappresentanti politici e sindacali protagonisti della stagione di lotte più significativa per i loro contenuti rivoluzionari, a partire dal controllo diretto sui posti di lavoro e continuare attraverso le rivendicazioni sul diritto allo studio, alla casa, alla partecipazione diretta e senza alcuna mediazione politica all’intera vita sociale.
Di questa anomalia gli autonomi sono sicuramente stati una componente che ha saputo sintetizzare alcune problematiche determinate dalla crescita di un movimento che attraverso tutte le fasi rappresentative del suo essere soggetto politico (dall’assemblea generale al formarsi dei gruppi extra-istituzionali di una sinistra fortemente influenzata dal mito della Resistenza) ha cercato nuove possibilità organizzative veramente autonome dal politico e per questo pericolose e destabilizzanti. Soprattutto se in grado di esprimere i bisogni di un proletariato giovanile così disaffezionato al lavoro che la crisi economica del ’73 rappresentò un’occasione per esprimere una radicale conflittualità contro qualsiasi forma coercitiva che fissasse la propria esistenza all’interno del ciclo riproduttivo della merce. In tal modo dalle ronde proletarie contro il lavoro nero (allora espresso attraverso la delocalizzazione produttiva attuata dalle grande fabbriche) al rifiuto del lavoro (favorito anche dalla messa in cassa integrazione di quote ingenti di proletari insofferenti al regime di fabbrica), alla necessità di soddisfare bisogni indotti dalla società consumistica (in cui le lotte per l’autoriduzione dei beni e dei servizi di prima necessità si trasformarono in “espropri proletari”di generi voluttuari), rappresentarono i momenti cruciali dell’autonomia dal politico assumendo una connotazione rivoluzionaria che nel superamento della rappresentatività istituzionale (Pci, Pdup, Dp) ed extra-istituzionale (Lc) fini per accorpare sia i “cani sciolti” di queste organizzazioni politiche, quanto il proletariato giovanile metropolitano attorno ad un’ipotesi movimentista espressa allora dai variegati collettivi autonomi presenti nelle diverse realtà di fabbrica e del territorio su scala nazionale.
Il libro, puntualmente, ricostruisce le tappe del percorso compiuto dagli automi nel cercare di rappresentare le istanze più radicali del movimento (e significativi sono i ventisei contributi che dalla ricostruzione storica alla riflessione teorica, al racconto letterario, offrono uno spaccato di quei turbolenti anni ’70 vissuti a Milano, Bologna, Torino, Padova, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo…); tuttavia, se riesce a creare l’atmosfera sociale che determinò lo spostarsi del conflitto per il controllo del movimento dalle assemblee alle piazze, deficita e manca clamorosamente nel riflettere sulle ambiguità dell’Autonomia operaia nel voler incanalare, condizionare e dirigere istanze proprie di un movimento autonomo e libertario per niente avvezzo al ruolo passivo e succube di chi ha voluto assoggettarlo ai propri interessi egemonici, sfruttando il mito della violenza in modo ambiguo: tra l’illegalità di massa e la lotta armata. Certo, le tensioni politiche nazionali ed internazionali determinarono scenari in cui il conflitto sociale difficilmente sarebbe potuto rimanere entro l’alveo di un rivendicazionismo radicale in cui l’illegalità di massa avrebbe costituito un momento riaffermante l’intransigenza e la forza del movimento; la violenza fascista ed il terrore dei servizi dello Stato al soldo di potenze straniere, sfibrarono la resistenza del movimento, costringendolo in un cul de sac fra l’obbedienza cieca ad un antifascismo militante fine a se stesso e ad un altrettanto colpo-su-colpo dai contorni esistenziali ed iper-soggettivisti. In tal modo la questione della violenza (che pomposamente avrebbe dovuto segnare il passaggio dalle armi della critica alla critica delle armi) si trasformò in una ridicola – e, al contempo, tragica – corsa alla conquista della piazza, dove i “servizi d’ordine” mostrarono quanto la forza della violenza impedisca all’intelligenza di esercitarsi nella violenza della propria forza. Con gli esiti che, purtroppo, ben conosciamo.
Cosicché, se il libro curato da Bianchi e Caminiti aveva come suo presupposto la presentazione in chiave storico-sociologico degli “autonomi”, svelando – una volta per tutte – l’alone d’ambiguità che sempre li ha contraddistinti), tale obiettivo è riuscito solo in parte. Perché, al termine della lettura di un libro per lunghi tratti in grado di far rivivere le tensioni e le emozioni che caratterizzarono gli anni ’70 in Italia, quel che ancora rimane a raffigurare l’eteroclito movimento dell’autonomia operaia non sono le lotte spontanee contro il lavoro nero, contro il caro-vita, contro l’alienazione sociale del proletariato, bensì la foto posta in copertina in cui persone col viso coperto da fazzoletti e da passamontagna si allontanano, correndo, da un edificio bruciato alle loro spalle. Forse dobbiamo aspettare l’uscita dei prossimi due volumi?

Gianfranco Marelli


Spezzano Albanese
Comizio anarchico

Spezzano Albanese (Cosenza), piazza Matteotti,
12 maggio 2007. Sul palco del comizio anarchico
Deborah De Rosa e Domenico Liguori
(foto Finella Marini)

Spezzano Albanese (Cosenza) vanta una trentennale presenza degli anarchici, che hanno scritto pagine significative nella storia sociale e nelle lotte locali.
Sabato 12 maggio 2007, nella centrale piazza Matteotti, la Federazione Municipale di Base e la Federazione Anarchica Spixana hanno promosso un ennesimo comizio sul tema dell’autogoverno comunitario ed esposto una mostra fotografica sulle problematiche territoriali. Alla manifestazione hanno partecipato alcune centinaia di persone della cittadina arbëreshë (cioè “albanese”). Il comizio è stato tenuto da Antonio Nociti, Deborah De Rosa, Vincenzo Giordano, Anna Nociti, Domenico Liguori.