rivista anarchica
anno 37 n. 330
novembre 2007



a cura di Marco Pandin

 

Unfolk

E la chitarra veramente la suonavi
molto male, però quando cantavi
sembrava carnevale.

Caterina Bueno è scomparsa a Firenze il 16 luglio.
Difficile per me raccontare di questa assenza: sono solo uno che fin da ragazzo ha comprato i suoi dischi, che se li è ascoltati e che ascoltandoli ha girato e rigirato tra le mani quelle copertine fitte di note pedanti e imprescindibili.
Sì, perché quelli mica erano dischi normali, mica era musica leggera, roba da consumare: per ciascuna canzone c’era da spiegare, c’erano storie importanti dietro e tutto sotto a ciascun verso, e bisognava che si sapesse il perché d’ogni parola e rima. E quelle canzoni, raccolte in giro come fiori sui campi, volavano portate dalla voce oscura della Caterina a portare aria nuova e odori di una terra che non è la mia.
Quando avevo sedici, diciott’anni, un lavoro a metà tra l’archeologo e il musicista come quello di Caterina Bueno me lo sognavo: viaggiare e incontrare gente, leggere libri e vecchi appunti scritti da qualcuno, fare interviste, raccogliere pezzi di storia (poi è finita che i miei sogni sono rimasti tali: ho studiato informatica e trovato lavoro nel settore, un’occupazione infinitamente meno affascinante).
Quanta strada separa le colline di Firenze e l’umidità tutt’attorno a Venezia: se le distanze si misurassero solo col metro, agli occhi di un adolescente la Toscana era terra lontanissima, un altro mondo, un’altra lingua quasi incomprensibile.
E invece, stando alle canzoni di Caterina, s’era sì in un altro posto con altre genti, ma scoprivo che le storie erano familiari: lavoro, fatica, miseria, pianto, carcere, scioperi, repressione, ingiustizia, emigrazione, protesta, rabbia. Succedeva tutto questo anche appena fuori della mia porta, nel mio quartiere, nella mia città. Ecco come, a neanche diciott’anni, ho scoperto che la mia patria è il mondo intero.
Caterina voleva parlare, ascoltare, controbattere, polemizzare: una telefonata poteva protrarsi per un’ora, si restava invischiati nei particolari, nelle puntualizzazioni, nelle precisazioni.
Per mille motivi, non ultimo per il suo carattere ruvido e incompromissorio, Caterina Bueno è restata fuori dai giri che contano (Sandro Portelli, non senza ragioni, fu assai acido nei riguardi della cosiddetta “linea folk” della Fonit Cetra, cui la Bueno consegnò buona parte del proprio lavoro di ricercatrice, tipo le grinfie dello stato borghese addosso al patrimonio popolare): ma a lei interessava la gente, non i palchi.
Schiacciata tra i mattoni duri e pesanti della cultura ufficiale, per trovarne qualche traccia dovrete abbandonare le strade principali.
Un giro in rete non aiuterà granché: scartando i riferimenti ai dischi originali offerti su E-bay, vi ritroverete solo con la delusione del leggere su una dozzina di blog diversi un bel testo di Francesco De Gregori ad accompagnare uno stesso identico commento, postato al poco prezzo di un copia-e-incolla.
Dei suoi quarant’anni di lavoro rimangono cento e più canzoni, in parte pubblicate ufficialmente e reperibili su compact disc (la Fonit Cetra, casa discografica IRI, è stata nel frattempo smantellata ed acquisita dalla multinazionale Warner: ho segnalato su queste pagine la recente ristampa su 2cd dei tre album curati da Caterina Bueno per la “serie folk”, tuttora ampiamente reperibili; si trova anche il cd “La veglia”, originariamente pubblicato dai Dischi del Sole, offerto da Ala Bianca), più spesso raccolte in maniera amatoriale e diffuse in maniera casuale e occasionale ...proprio come anche a lei piaceva.
Ma ancora di più resta, incancellabile e forte (rubo le parole a Valentino Santagati, che a Caterina e al suo lavoro volle davvero bene), il suo esempio e insegnamento: mantenere intatti il dolore e la rabbia, nonostante la voglia di ridere, di ridersi addosso, senza ritegno.


In breve

Con una decisione commercialmente suicida, i Marmaja offrono tutte le loro nuove canzoni (che finiranno, solo con qualche ritocco qua e là, nel loro quarto album “Punta Maistra”, stesso nome del posto dove s’abbracciano il Po e l’Adriatico confondendo tutt’attorno i confini) in download gratuito.
Questo potrebbe significare che alla banda dei quattro di Rovigo non interessa s/vendere la propria musica, ma desidera un rapporto più umano e complicato con chi li ascolta. Cose da dire e da discutere, insomma, non cose da vendere.
I pezzi sono undici, tutti molto caratterizzati nei testi. Tutti buoni e ben fatti, alti e bassi nella media, qualcuno un poco troppo iperprodotto.
Il gruppo si è definitivamente staccato dal neo-folkrock degli esordi (meno male, avrebbero rischiato di finire come i Modena City Ramblers o i Nomadi), ora sta a metà strada tra l’acustico e l’elettrico con spiccata e progressiva preferenza per quest’ultimo.
Suonano molto bene, ma questo già lo si sapeva. Qui dentro numerosi musicisti ospiti, qualche vecchio amico e compagno di strada, qui dentro c’è generalmente aria buona, sincerità, sorrisi ed abbracci veri, di quelli che ti commuovono.
Saltano fuori dal mucchio “Liberate il Che” (verosimilmente scippata al migliore Eugenio Finardi, che potrebbe a sua volta riprendersela), “Vuoti” (che non può non ricordare Rino Gaetano), “Bologna” e la curiosa title track, queste due terreno di contrasto stridente tra le voci di Maurizio Zannato e Claudio Lolli.
Trovate tutto sul sito www.marmaja.net, a portata di click. Fate girare la voce.

Nei mesi scorsi, per conto della rivista veneziana Aparte, mi sono occupato della ristampa dell’album omonimo dei Detriti. Diga del Vajont in copertina. Il rumore dentro, compresso, amplificato, distorto.
Erano attivi nei primi anni Novanta, hanno fatto pochi concerti, un gruppo scomodo, erano tremendi, ti mettevano addosso un misto di inquietudine e paranoia che poi non si riusciva a lavarsi più via di dosso.
Nel gruppo c’era gente da Feltre, Trento, Cadore: in una parola montanari. E dietro a ciascun pezzo ci stavano e ci stanno montagne di ragionamenti, strade, torrenti, motivazioni. Stanno tutti lì, immobili, anche oggi. Anche adesso. Proprio come allora, il disco è violento, delirante, ispido e sfuggente.
La musica dei Detriti non offre pace: è il rumore dell’orizzonte troppo stretto, delle prospettive che non ci sono, della trappola del domani uguale all’oggi e dell’oggi uguale a ieri.
Tirare fuori dal dimenticatoio questo disco significa avere il coraggio di guardare dentro lo specchio e ritrovare, nascosta dietro i capelli bianchi e le rughe e la rassegnazione proprio “quella” luce dentro gli occhi, e correre a cercarla negli occhi di tuo figlio.
Copie a sostegno di A/Rivista Anarchica, 10.00 euro ciascuna spese postali comprese.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it