rivista anarchica
anno 37 n. 330
novembre 2007


politica

Ma la piazza non porta (necessariamente) al fascismo
di Antonio Cardella

 

A proposito dei rischi di deriva populistica e delle tesi (senza riscontro storico) di Eugenio Scalfari.

 

Come tutti i lettori di questa Rivista sanno, ho sempre evitato, per quanto possibile, di occuparmi di politica interna in senso stretto e non per sottrarmi ad una qualsiasi analisi della situazione in cui versano le istituzioni patrie, ma perché i guasti della politica italiana vengono da così lontano che, per affrontarli con sufficiente approssimazione, ci vorrebbero la penna di uno storico e spazi molto maggiori di quelli che ci sono consentiti.
Solo che adesso ritengo debba prevalere la preoccupazione per lo spaesamento dei cittadini di questa improbabile repubblica e le derive che ne possono scaturire. È, questo delle derive, un problema serio, di cui anche noi anarchici dobbiamo occuparci dato che l’ultima cosa di cui dovremmo rallegrarci è il montare di un qualunquismo diffuso che corroda, insieme con le strutture di potere consolidate, anche le capacità critiche, i valori etici e l’impegno individuale e collettivo per modificare l’esistente.
Da questo punto di vista, l’ondata Grillo non dovrebbe andare al di là di una denuncia seria e documentata di un presente francamente indecente: dovrebbe però fermarsi lì, senza assumere i toni di un cupio dissolvi che non attiene la sfera della politica, ma si presenta come apocalittico messaggio di visionari in attesa di improbabili palingenesi.
Fatta questa breve premessa, vediamo di affrontare la questione con un minimo di correttezza.

Il ruolo delle masse

Quale è stata la reazione dei maîtres à penser del giornalismo scritto o parlato più in voga? In coro hanno bollato il povero cristo di Grillo come la voce dell’antipolitica, l’immondo messaggero di una deriva autoritaria che andrebbe attribuita a masse acefale, pronte ad imbarcarsi per qualsiasi avventura.
Il principale sostenitore di una tesi a mio giudizio così peregrina è Eugenio Scalfari, in un articolo su Repubblica del 12 settembre scorso.
Per carità di patria sorvolo sulle amenità dell’autore quando si avventura su temi come l’individualismo anarchico e l’anarco-sindacalismo (il cui elemento caratteristico, secondo Scalfari è – udite, udite – l’opposizione intransigente ad ogni potere costituito), temi che verosimilmente esulano dal suo bagaglio culturale e di cui tratta con disinvoltura puntando sull’ignoranza dei suoi lettori.
Sorvolo anche perché il collettivo dei compagni di Palermo e Trapani ha stigmatizzato con una breve ma puntuale lettera a Repubblica (ovviamente mai pubblicata) le incolte e becere affermazioni del suo ex direttore.
Con una lettera personale, (anche questa rimasta inevasa), ho invece contestato a Scalfari l’inattendibilità delle due tesi principali contenute nel suo lungo articolo. La prima è che le manifestazioni di popolo (abbiano o meno tribuni per protagonisti) preludano a derive autoritarie, come – secondo lui – è avvenuto nelle due principali tragedie del XX secolo: l’avvento del fascismo e poi del nazismo; la seconda affermazione, quella a mio giudizio più significativa, è che, alla base di tutte le distorsioni della modernità ci sia l’avvento della società di massa.
Per quel che riguarda il primo punto, mi meraviglio (e gliel’ho scritto) che un giornalista di solito prudente faccia affermazioni che non hanno alcun fondamento storico: non fu certo a furor di popolo che il fascismo si affermò. Le adunate oceaniche vennero ben dopo che la pavidità di una monarchia da operetta, gli sterili equilibrismi di un giolittismo in agonia, l’appoggio di una borghesia imprenditoriale che si riprometteva di ricavare lauti guadagni dall’avvento al potere del maestro di Predappio, trasformassero la scampagnata di quattro straccioni in camicia nera in tragedia nazionale. Per quel che riguarda il nazismo, si legge in tutti i libri di testo che funzionale all’ascesa del sergente bavarese fu l’impotente fragilità della repubblica di Weimar, incapace di sopperire alle esigenze primarie di una popolazione prostrata da una lunga e drammatica guerra, scatenata non certamente da una folla entusiasta di giovani proscritti votati al martirio.
Quindi, non le masse acefale – secondo la definizione di Eugenio Scalfari – sono all’origine delle grandi tragedie che in ogni tempo hanno afflitto l’umanità, ma le spericolate avventure di governi, di istituzioni pubbliche e potentati economici alla ricerca di effimere egemonie.

Eugenio Scalfari

Gioco pericoloso

La seconda tesi, sui guasti della società di massa, prende lo spunto da un articolo di Grossman, apparso sempre su Repubblica il 5 di settembre, nel quale si sostengono tesi inoppugnabili ma vecchie di almeno un secolo, da quando la Scuola di Francoforte le affrontò sistematicamente, non sottraendosi, però, come fanno Grossman e lo stesso Scalfari, all’onere di indicarne le cause.
Lo “schiacciamento” dell’individuo, il suo progressivo annientarsi nell’anonima collettività della società dei consumi e dei mass-media non è opera di un destino cinico e baro, ma molto semplicemente delle dinamiche della produzione capitalistica, della divisione del lavoro e del progredire di una tecnologia che non amplia le sfere del benessere ma, anzi, espelle quote sempre maggiori di individui dalle attività produttive e ne mortifica le potenzialità creative e di promozione sociale. Sono argomenti, questi, di dominio pubblico, anche se assai diverse sono le sensibilità che li elaborano.
Nella sensibilità dell’editorialista di Repubblica traspare la suggestione di sottrarre la borghesia illuminata, alla quale certamente Scalfari appartiene, alla pesante responsabilità etica e politica di essere stata collaterale all’evoluzione così perversa di dinamiche che mortificano l’individuo, creano quote di sofferenze sempre maggiori e hanno trasformato l’armonico abitare su questa terra, in un dissennato dominio sulla natura.
Questo è un gioco pericoloso perché, da un lato, tende a trasferire sulle spalle di popoli, per comodità immaginati come masse informi, responsabilità che sono tutte delle oligarchie politiche ed economiche succedutesi, per non andare troppo indietro nel tempo, dall’avvento della democrazia formale in poi; dall’altro, il gioco è pericoloso perché, esasperandolo neppure troppo, si trasforma in un razzismo mascherato (e bene educato, per carità!) che mistifica ulteriormente i termini del problema complessivo – quello vero e ineludibile – della ricerca di un diverso mondo possibile.

Antonio Cardella

P.S. Il ritardo con il quale inviamo queste righe non è attribuibile alla necessità di meditare a lungo sul loro contenuto, ma alla doverosa attesa del rientro in sede di alcuni compagni che non intendevamo coinvolgere a loro insaputa.
Ultima avvertenza: l’appellativo di Signore che nel nostro scritto precede il Nome di Eugenio Scalfari non ha alcun valore riduttivo o, peggio, ironico: deriva soltanto dalla nostra atavica idiosincrasia per i titoli, siano essi accademici, nobiliari o via dicendo.