rivista anarchica
anno 37 n. 331
dicembre 2007 - gennaio 2008


società

Ode della sobrietà
di Francesco Codello

 

Centri commerciali, outlet, ecc. sembrano aver preso il posto delle piazze, dei luoghi d’incontro. È il trionfo del consumismo, il degrado delle relazioni umane. Ma non tutti si adeguano.

 

Sono una via di mezzo tra il paese dei balocchi e un festival del consumo, un mix di incitamento e di tentazione a spendere, sono forse i non-luoghi per eccellenza, hanno sostituito le piazze dei paesi come luoghi dove ci si incontra e sono spuntati come i funghi dopo una bella pioggia. Sono i centri commerciali, gli outlet, i fashion district, che hanno sostituito, distruggendolo, il piccolo commercio, le attività commerciali che hanno accompagnato la nostra infanzia.
Se nelle domeniche autunnali e invernali girate per le strade o le piazze dei tanti paesi e cittadine delle nostre regioni, quando fino a qualche anno fa incontravate gli amici e i conoscenti, adesso trovate solo tanta malinconia e il vuoto più deprimente che rende questi paesi quasi spettrali.
Dove sono le famiglie, gli anziani, i giovani fidanzati o le compagnie di amici? Proprio lì, dove una società consumistica all’esagerazione li accoglie e di coccola, nei nuovi luoghi di ritrovo, in questi abominevoli spazi deputati al consumo. Senza che quasi ce ne accorgessimo questa mutazione delle nostre abitudini è avvenuta in modo esponenziale, come una gramigna ha infestato i campi e i giardini così i centri commerciali hanno distrutto spazi e luoghi delle nostre infanzie e si sono stagliati alti, luminosi, accattivanti, suadenti. Hanno modificato anche il nostro immaginario, sono riusciti a colonizzare i nostri desideri. Neanche il Natale, con buona pace dei credenti sinceri, sfugge a questa trasformazione; le luci e i simboli di questa festa sono ormai quelli dei lampioni, delle stelle, delle vetrine, dei supermercati.
Svendita, liquidazione, svuota tutto, sono le parole d’ordine che attirano milioni di persone alla ricerca del buon affare, dell’occasione, dello stare “alla page” con questo mondo anche quando si fa fatica a tirare fino alla fine del mese. E tutto ciò ha un significato simbolico sempre più forte: la perdita di valore delle cose, la loro svalutazione estrema, la distanza sempre più abissale che le separa dal lavoro e dalla fatica che pure sono costate. Più perde valore commerciale, più una cosa perde valore simbolico, più noi ci avvinghiamo in una logica perversa di consumo.
La sollecitazione continua e incessante dei nostri sensi ha azzerato la nostra sensibilità sensoriale. Occhi, gusti, tatti, sono continuamente solleticati da un’orgia devastante di prodotti inutili, insulsi, dannosi. Le nuove cattedrali del consumo hanno sostituito quelle austere e intimidatorie della religione modificando strutturalmente le modalità dei condizionamenti e del dominio.

Come sono cambiati i rapporti

Ma la cosa più terrificante che è avvenuta, a mio modo di vedere, è la trasformazione in senso peggiorativo dei rapporti umani. Il degrado delle relazioni tra bambini, giovani, anziani, indistintamente, è specchiata nelle vetrine di questi non luoghi. Basta girare dentro questi spazi e osservare gli incontri tra conoscenti per rendersi conto di come siano cambiati i rapporti tra di noi. Al posto del calore e dell’abbraccio, del manifesto piacere di un incontro, del tempo e dello spazio per ascoltare e raccontare, degli sguardi profondi tra esseri umani, della risata piena e sincera, della preoccupazione e della condivisione di un problema, tutti noi siamo diventate cose che hanno perso valore. Persone come oggetti e oggetti come persone.
L’esibizione di quanto prima si mostrava nel privato, il formalismo che ha sostituito la buona educazione, la falsità esteriore che ha scalzato l’immediatezza di ciò che si è, la cortesia che viene considerata debolezza, sono caratteristiche di questa nuova specie di umanità che qui, in questi non luoghi, si esalta a livello di massa.
Alla luce di tutto ciò (se volete qui anche un po’ enfatizzato) mi pare quanto mai indispensabile recuperare una parola che ha un significato veramente in controtendenza. Questa parola è sobrietà.

Ed è proprio in questo mondo straripante di cose e depauperato di significati che è possibile porci l’obiettivo di vivere più sobriamente. Siamo noi, abitanti del primo mondo, che possiamo (dobbiamo) riscoprire questo valore e non pretendere che gli altri (quelli dei mondi che vengono dopo) vivano secondo questo stile più sobrio mentre noi continuiamo a consumare voragini di cose e a sprecare enormi risorse del nostro pianeta. Si dirà che la questione è complessa, che le fabbriche devono produrre per mantenere l’occupazione, che il mondo è interconnesso, che la vita è una sola e che bisogna viverla riempiendosi di cose che la rendono più gradevole, ecc.
Certo, si dice tutto e ancora di più, ma si tace sulla nostra progressiva malinconia di sentirci ogni sera un po’ più soli e più vuoti. E allora, a ben guardarsi intorno, sono sempre di più le persone che hanno fatto della sobrietà una scelta di vita, che hanno creato spazi significanti e occasioni di incontro autentiche. Basta volerli accogliere dentro i nostri cuori e tra le nostre abitudini e avviare una resistenza profonda e interiorizzata per contrastare la penetrazione che il consumismo ha maledettamente realizzato in ciascuno di noi.

Francesco Codello