rivista anarchica
anno 38 n. 332
febbraio 2008


clericalismo

Il vizio dell’asimmetria
di Carlo Oliva

 

Le recenti uscite del cardinale Bertone e del suo predecessore Camillo Ruini in tema di pericolo “laicista” e di revisione della legge sull’aborto confermano una caratteristica irrinunciabile della Chiesa Cattolica. Che è proprio un vizio.

 

Chissà cosa è saltato in mente al cardinale Bertone, Segretario di Stato vaticano e responsabile, quindi, dei rapporti tra la chiesa cattolica e le istituzioni dello stato italiano, nell’esprimere in una intervista di fine anno, accanto all’auspicio che il Partito democratico non si lasci trascinare da una pericolosa “deriva” laicista, il rimpianto per i bei tempi in cui la chiesa non doveva nutrire siffatti timori nei confronti del partito comunista di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, di cui i democratici di oggi sono generalmente considerati gli sbiaditi continuatori. Allora sì, ha assicurato il porporato ai lettori di “Famiglia Cristiana”, che la chiesa godeva, a sinistra, del dovuto rispetto. A nessuno dei leader storici di quella grande, rimpianta organizzazione, sarebbe mai passata per la mente l’idea di proporre, per dire, un registro delle unioni civili o di inserire in un decreto sulla sicurezza una norma antiomofobica. Avevano, costoro, una visione “laica ma morale” dei problemi, e non condividevano certo l’atteggiamento di certi “laicisti attuali” che ritengono “che un cattolico non possa avere un concetto positivo d laicità”. Capivano che la posizione della Chiesa su certi argomenti “non è partigiana, ma corrisponde al diritto naturale”. E sul riconoscimento di questa verità fondavano una politica che alla chiesa, tutto sommato, andava benissimo.
Sul concetto stesso di diritto naturale, naturalmente, e sul suo adeguamento automatico al magistero ecclesiastico, si potrebbe discutere a lungo. Ma è vero, comunque, che i dirigenti del vecchio PCI hanno fatto a lungo oggetto la chiesa di cautele e premure di ogni tipo. Non forse Gramsci, la cui attività di segretario era stata in un certo qual modo ostacolata dall’essere cacciato in galera a opera di quel regime con il quale la chiesa si apprestava a firmare il concordato del ’29, ma Togliatti, certamente, non amava l’anticlericalismo di stampo ottocentesco e non vi ispirò mai la propria politica. È probabile che fosse spinto più che da considerazioni sul diritto naturale dalla sopravvalutazione di quanto fosse radicato l’insegnamento chiesatico nelle masse popolari e della necessità di non mettere a repentaglio la posizione del suo partito offendendo dei valori riconosciuti – una posizione, se vogliamo dargli un nome, “antigiacobina”, che risentiva dell’insegnamento del Cuoco e della riflessione idealistica sulla crisi della Rivoluzione francese – ma, quali che fossero le sue motivazioni, vi ci si attenne sempre con il massimo del rigore. Accettò, facendo votare ai suoi il controverso articolo 7, la quasi costituzionalizzazione dei patti lateranensi, non sollevò mai quei problemi di diritti civili (divorzio, aborto, e via dicendo) che sapeva sgraditi alla gerarchia ecclesiastica e diede grande spazio e rilievo alla presenza nelle strutture del PCI di quei pochi dirigenti che ostentavano la propria fedeltà ideologica al cattolicesimo. I suoi successori, più o meno, si sarebbero adeguati alla stessa linea: ancora nel 1969, nel corso del dibattito parlamentare sul divorzio, la posizione del PCI era tutt’altro che sicura e Giorgio La Pira, all’epoca uno degli esponenti più noti del cattolicesimo aperturista (nel senso di disposto alle trattative con gli eredi di Togliatti), poteva scrivere a Berlinguer invitandolo a non votare in Senato per quella proposta “socialdemocratica liberale... antiscientifica, tipicamente borghese, segno di una civiltà tramontata”, argomentando lusinghiero che il PCI, astenendosi, avrebbe compiuto un vero “atto rivoluzionario”. “Se Togliatti fosse vivo” scriveva appunto l’ex sindaco di Firenze “farebbe (penso) così; Gramsci (penso) farebbe così”. E poi, lasciandosi un po’ portare dall’entusiasmo, “Forse anche Lenin farebbe così” (la lettera, prima non altrimenti nota, è stata recentemente pubblicata da Giambattista Sciré e si può leggere, in parte, su “Repubblica” del 6 dicembre 2007).

anche Camillo e don Peppone...

Berlinguer, che, con tutti i suoi difetti, era un politico serio, non si fece, naturalmente, incantare e il voto comunista sul divorzio, allora e – in seguito – al referendum, segnò un capitolo fondamentale dell’evoluzione in senso laico della sinistra italiana, ma quella svolta dovette superare non poche, diffuse resistenze di tipo “togliattiano”. D’altronde la coscienza di una sostanziale volontà di collaborazione dei comunisti con la chiesa era, prima di allora, diffusa persino a livello di cultura popolare. Chiunque abbia solo preso in mano i volumi del Mondo piccolo di Giovannino Guareschi, che oggi non saranno un best seller, ma lo sono stati a lungo (e hanno, anzi, rappresentato per anni l’opera di narrativa italiana più letta nel mondo) sa che il sindaco Peppone ha sempre avuto per don Camillo il massimo rispetto e una certa filiale riverenza. I due personaggi si contrappongono regolarmente nell’ordinario dai e prendi della vita della loro piccola comunità, ma sono sempre pronti a collaborare, più o meno apertamente, quando si tratti di opporsi a pressioni esterne sgradite o vengano messi in discussione i valori fondanti di quello che l’uno e l’altro considerano il vivere civile: entrambi, tipicamente, sono soprattutto attivi nel reprimere i bollori di eventuali elementi “estremisti” segnalati nel campo di propria competenza. In fondo, l’unica vera rivalità che li divide è quella relativa agli exploit delle rispettive squadre di calcio.
Il rispetto di Peppone, tuttavia, era ricambiato, nel senso che don Camillo, pur deprecando regolarmente “quella razza di idee” che il primo cittadino, traviato dalla frequenza con i servi di Mosca, si era messo in testa, ne riconosceva le doti umane, la solidità etica e, in definitiva, la funzione sociale (in uno dei racconti di Don Camillo e il suo gregge arrivava persino a votare per lui). Di un’analoga reciprocità invano si cercherebbe traccia nella realtà storica. All’alleanza della chiesa con il fascismo nel primo dopoguerra fa riscontro l’impegno anticomunista e la scomunica promulgata contro gli aderenti ai partiti marxisti nel secondo. Alla deferenza dimostrata verso il Vaticano dai vertici comunisti (non sempre, va detto, dalla base del partito, ma questa è un’altra storia) corrispose, ai tempi di Pio XII, ma anche dopo, la volontà di servirsi comunque della religione come instrumentum regni e l’appoggio senza condizioni alle politiche antipopolari del governo e, più in genere, della destra. Persino un cattolico di sicura fede antifascista come don Sturzo subì l’onta di dare il suo nome a una “operazione” mirata a promuovere, al comune di Roma, l’alleanza tra democristiani e neofascisti e la tendenza a organizzare operazioni del genere va considerata una costante dei vescovi italiani fino a tempi recenti. La politica religiosa di Togliatti può essere considerata, con un po’ di buona volontà, un’utopia e, più concretamente, un errore: certo non lucrò mai i vantaggi che il suo propugnatore si aspettava. Ci sono voluti il naufragio delle ideologie alla fine del XX secolo e il frullatore della globalizzazione per portare gli eredi del PCI e quelli di una parte della DC nello stesso partito e uomini come il cardinale Bertone riescono ancora a preoccuparsene e a paventare chissà quali derive laiciste.
Il quale cardinale Bertone deve essere un uomo di una certa età e lo si può perdonare se indulge, in sede non dommatica, alla nostalgia per una impostazione ideologica caratteristica dei suoi tempi più belli. L’organizzazione di cui è dirigente, tuttavia, è ben ferma nella volontà di non recedere di un passo dalla sua verità e gli altri si grattino pure, vuol dire che non hanno ben compreso cosa è il diritto naturale. Alla intervista del cardinale Segretario di Stato ha fatto quasi immediatamente seguito l’invito del collega Ruini affinchè sia modificata la legislazione sull’aborto o, perlomeno, la prassi con cui la si applica, suscitando la consueta canea degli infiltrati e dei provocatori che non mancano mai tra i sostenitori della causa clericale. L’opposizione al “relativismo”, così tipica, sul piano ideologico, dell’attuale pontificato, comporta evidentemente che le ricorrenti richieste di rispetto e di ossequio non prevedano contropartite. Né si vede, d’altronde, quale contropartita potrebbe offrire chi si considera depositario dell’unica, possibile verità. Sarà per questo che l’asimmetria resta uno dei vizi peggiori del clero.

Carlo Oliva