rivista anarchica
anno 38 n. 333
marzo 2008


editoria

Tra libri e oggetti
di Guido Lagomarsino

 

Che cos’è quel senso di smarrimento che ci prende entrando in una libreria? Che cosa sono i BLO?

 

Entriamo in un bookstore e guardiamoci intorno. Pile di libri bene accatastati, le novità e i bestseller in bella vista. Di qui la fiction, di lì la non-fiction, poi le frecce che indicano gli spazi per gli illustrati, i libri di viaggio, quelli per l’infanzia… Vicino alla cassa, quadernetti e librettini umoristici. Sembra tutto a posto.
Allora che cos’è quel senso di smarrimento che ci prende? Perché, se cerchiamo un titolo particolare, magari pubblicato da un piccolo editore o uscito da più di un anno, il commesso ci guarda con aria stranita, cerca sul terminale, va a frugare in fondo a uno scaffale seminascosto e, nella migliore delle ipotesi, ci dice “Dobbiamo ordinarlo”? Ci considera con aria critica: possibile che fra tutti questo volumi dalle belle copertine, non c’è ne sia uno che valga altrettanto per noi? Certo, quei volumi hanno un’aria allettante, colori vistosi, titoli accattivanti, autori i cui nomi abbiamo letto su qualche giornale o sentito citare alla televisione, fascette che evidenziano i premi vinti o il numero di copie vendute. Eppure c’ispirano una certa diffidenza.
In America hanno coniato una sigla per definire quei prodotti: qualcuno li ha chiamati BLO – book-like objects – oggetti che sembrano in tutto e per tutto libri, ma che dei libri veri hanno solo l’apparenza.
Che cosa sono i libri veri? Per cercare di spiegarlo, ho chiesto aiuto a due poeti e a un filosofo. Dice Petrarca: “I libri ci danno un diletto che va in profondità, discorrono con noi, ci consigliano e si legano a noi con una sorta di familiarità attiva e penetrante.” E ribadisce Cartesio: “La lettura di tutti i buoni libri è come una conversazione con le persone migliori di tutti i tempi.” Infine ecco la lode che ne fa Emily Dickinson:

Non c’è vascello pari a un libro
Per condurci in terre remote.
Né un corsiero come una pagina
Di avvincente poesia.
Il più povero può fare questo viaggio
Senza l’obbligo di un biglietto
Tanto è frugale il mezzo
Che trasporta l’animo umano!
[There is no frigate like a book
To take us lands away,
Nor any coursers like a page
Of prancing poetry.
This traverse may the poorest take
Without oppress of toll;
How frugal is the chariot
That bears a human soul!
]

I BLO, invece, non sanno darci niente di questo, li leggiamo, ci distraggono un po’, ma li dimentichiamo in fretta e, del resto, sono destinati a sparire nel giro di un paio di mesi dagli scaffali della libreria, sostituiti dai nuovi “grandi bestseller internazionali”. Magari ricompaiono in edizione economica nelle edicole delle stazioni, poi finiscono definitivamente nel dimenticatoio.
Ma perché succede questo ? Per quale ragione, come la moneta cattiva caccia quella buona, i BLO cacciano i buoni libri ?

Meccanismi perversi

Immaginiamoci un paese dove esistono tre o quattro grandi gruppi editoriali che da soli controllano quasi l’ottanta per cento del mercato librario. Ovviamente la concorrenza tra loro sarà fortissima, e faranno di tutto per acquistare spazio e visibilità a danno degli altri. In questa ottica, le scelte del marketing saranno fondamentali e saranno le logiche commerciali a orientare non solo le scelte delle politiche promozionali (sconti, campagne stampa, pubblicità), ma anche delle politiche editoriali (collane, selezione dei testi e degli autori da pubblicare eccetera). Certo, sono le logiche del mercato e, in tempi di globalizzazione e di pensiero unico, chi osa obiettare? Ma la questione non è solo questa. Immaginiamoci che questi tre o quattro gruppi editoriali di questo immaginario paese facciano a loro volta parte di gruppi finanziari ancora più grandi, per esempio un gruppo il cui core business siano le televisioni, un altro che punti sulla stampa periodica e la pubblicità, uno che faccia i soldi con le assicurazioni, uno che si assicuri i profitti con le attività commerciali e di distribuzione. Un prodotto relativamente “povero” come il libro, con alto contenuto di lavoro umano e quindi con scarsi margini di profitto, nel bilancio di questi colossi, non rappresenta che un elemento marginale.
Se andassimo a vedere i bilanci, scopriremmo che, mentre magari per tutti cresce il fatturato, cioè la cifra complessiva del giro d’affari, la produzione di libri risulta regolarmente in perdita. Ed è così che entrano in funzione le cosiddette “sinergie”. Nella spietata concorrenza tra loro, i tre o quattro gruppi che abbiamo immaginato non badano a spese: pagano anticipi principeschi per assicurarsi i diritti dei best seller internazionali, investono cifre spropositate nelle campagne promozionali, concedono supersconti alle catene di bookstore per conquistare le vetrine e gli scaffali più in vista. Spendono più di quello che possono permettersi? Pazienza, tanto i gruppi di cui fanno parte compensano le loro passività con parte dei superprofitti delle proprie attività finanziarie senza troppi rimpianti: tanto sarebbero soldi che finirebbero in tasse se non andassero alla voce passività. Qual è il risultato di questo meccanismo? Quasi l’ottanta per cento dei libri è immesso sul mercato a un costo inferiore a quello che è costato produrli, con buona pace della concorrenza “leale” e dei meccanismi “virtuosi” di mercato.
In questo paese che abbiamo immaginato, così, chiunque si sia messo in testa di fare l’editore deve fare i conti con questi meccanismi perversi e, per sopravvivere, deve inventarsi altri meccanismi altrettanto perversi: libri su commissione prepagati dall’autore, per compiacere la vanità personale, o libri strenna commissionati da banche o enti locali, oppure deve ricorrere alla stampa in paesi dell’estremo Oriente, all’impaginazione e all’editing in Argentina, dove la manodopera costa meno, anche se la qualità non è garantita.
In questo quadro non certo roseo, resta solo un interrogativo da farsi. Perché continuare a fare libri? Una spiegazione ci deve essere, difficilmente la possiamo trovare nelle logiche utilitaristiche che ritengono che ogni attività economica sia il frutto di un calcolo che porta al massimo profitto.

Guido Lagomarsino