rivista anarchica
anno 38 n. 334
aprile 2008


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Jules Jouy e Gaston Couté
Alle origini della canzone sociale francese

Dapprima ci fu la canzone francese. Sbagliato!

Non fu la prima e non fu nemmeno francese, in effetti meglio è chiamarla canzone francofona, nel senso che parla in francese ma non ha connotazione nazionale, o peggio patriottica! C’è una particolare forza nella cultura francese degli ultimi secoli, un’abilità ad assorbire tutti gli stimoli, le forze e gli artisti delle più disparate provenienze.
La cultura è nomade per nascita e apolide per vocazione, dunque non può che beneficiare di tale atteggiamento. La leggenda della boheme parigina d’inizio secolo parla da sola: Apollinaire era nato in Italia da madre polacca, Modigliani era un ebreo di Livorno, Chagall un ebreo russo, Soutine pure, Pascin bulgaro, Picasso spagnolo, Brancusi rumeno.
La canzone francese, la più longeva epigone della tradizione boheme, a questa sua virtù – e a molti suoi vizi – s’è sempre attenuta: Léo Ferré era un monegasco di madre italiana, Brassens pure aveva la madre del sud Italia e Nino Ferrer era nato a Genova. Montand era italiano lui pure, Moustaki è un greco di Alessandria d’Egitto, Gainsbourg figlio di immigrati russi ebrei, Brel era belga di cultura fiamminga, ecc...
Il carattere apolide e anticonformista è una delle ragioni – anche se delle più taciute – per cui la canzone francofona è sempre stata fraternamente percepita come punto di riferimento, sorella maggiore della altre tradizioni della canzone d’autore, a cominciare da quella italiana.
La canzone d’autore francese è considerata un linguaggio maturo e definito a partire dall’irruzione sulla scena di Charles Trenet, dunque dalla metà degli anni ’30. Prima di lui vi era comunque la canzone realista, una genere in cui un modo melodrammatico e a volte un po’ forzato si sposava a temi di interesse collettivo e di impatto cronachistico: storie truci di ladri e assassini o lacrimevoli di prostitute e magnaccia. Damia e Frehel, entrambe interpreti dalla solida componente attoriale ne furono fra le massime esponenti.
Tale canzone era a sua volta fortemente influenzata dall’eperienza storica della canzone sociale, che ha uno sviluppo straordinario durante la rivoluzione francese, e che fiorisce negli anni del secondo impero (1852-1870), con quell’artista, riconosciuto da tutti gli intellettuali dell’epoca che fu Pierre-Jean de Beranger, poeta di canzoni amatissime e popolari.
Da Beranger alla Comune del 1871 passa la storia che smette di essere cronaca e che qualche volta sarà leggenda.

La canzone di propaganda

Le due canzoni simbolo della Comune di Parigi L’internationale e La semaine sanglante sono rispettivamente di Eugene Pottier e Jean-Baptiste Clement, tutti e due agitatori e militanti politici a tempo pieno e autori a tempo perso.
Clement è anche autore di una canzone significativa e bella, Le temps des cerises, dal gusto popolare e dalla scrittura raffinata. Una canzone che è un canto d’amore, ma che per tutta la serie di segnali di cui è cosparsa, per la dedica alla luminosa figura di rivoluzionaria, la comunarda Louise Michel, è paradigmatica della maturità cui era giunta la canzone francofona negli anni della sua diffusione, quelli immediatamente successivi alla Comune.

Quando saremo al tempo delle ciliegie
Usignolo e merlo faranno festa
Le belle avranno la follia in testa
E gl’innamorati il sole nel cuore
Però è così corto il tempo delle ciliegie
Dove si va insieme a cogliere sognanti come orecchini
Ciliege d’amore uguali ai vestiti
Che cadono sulle foglie come gocce di sangue
Quando sarete al tempo delle ciliegie
Se temete la pena d’amore evitate le belle
Io che non ho paura del dolore crudele
Non evito di vivere per evitare di soffrire
Amerò sempre il tempo delle ciliegie
È da allora che porto nel cuore una piaga aperta
E dama fortuna che tanto mi ha offerto
Non ha mai potuto calmare il dolore
Amerò per sempre il tempo delle ciliegie
Ed il ricordo che porto nel cuore

È il tempo dei Cabaret, delle prime canzoni cantate sui testi di Verlaine, pericoloso e malsano relitto che si aggirava, assenzio dopo assenzio, di bar in bar. È il tempo delle affiches celeberrime di Tolouse-Lautrec che ritraggono e pubblicizzano Aristide Bruant, il primo autore-compositore-interprete, cantautore diremmo noi!. Sono anni in cui le arti e i romanzi si fanno permeare da quelle istanze sociali che fremono nell’eccelsa grafica di Alexandre Steinlein – svizzero e anch’egli cartellonista di fiducia di Bruant, nonchè illustratore di innumerevoli sue canzoni e autore della famosa immagine dello Chat noir –, di Felix Vallotton e nei romanzi di Emile Zola, il patriarca dell’engagement, l’impegno intellettuale.
La canzone di propaganda – socialista e anarchica – fiorisce negli anni a cavallo fra otto e novecento, come una della più straordinarie risorse del movimento operaio, al tempo eroico dei primi scioperi repressi nel sangue, della frattura fra i costituendi partiti rivoluzionari e le contrapposte bombe e banditismo: figurarsi che a un componente della Banda Bonnot, Raymond Callemin detto la science, è attribuito un canto rivoluzionario, che però è con tutta probabilità un frutto successivo del talento situazionista di Guy Debord.
La canzone sociale si diffonde. Moltissimi operai e artigiani, insieme a professionisti e semiprofessionisti attivi nei cabaret, si riuniscono più o meno clandestinamente in luoghi pubblici o privati, noti come goguettes o società cantanti, per scambiarsi versi e strofe rivoluzionari, per apprendere ed elaborare nuovi canti da portare per le strade, per le piazze, nei luoghi di lavoro e qualche volta nei teatri e nei caffè concerto. È una tradizione esaltante che confonde e mescola fruitore e autore, poeta e lavoratore, in nell’enclave delle belle idee e della speranza. Il più noto di questi circoli è la Muse Rouge, attivo per i primi trent’anni del ’900, che prende il nome da un canto del militante anarchico Costant Marie alias Père Lapurge.

Febbrile creatività

In questi ambienti affondano le radici due fra i più luminosi talenti all’origine della canzone d’autore francese Jules Juy e Gaston Couté. Vissero le loro brevi deliranti esistenze sempre ubriachi di propositi di rivolta e di assenzio, nutrendo una febbrile creatività e un’ansia di vita e di giustizia che brucia nei loro versi.
Jules Juy era in grado di scrivere un testo al giorno, spesso da intonarsi su arie già esistenti: una specie di articolo di fondo in versi. Morì a 42 anni dopo aver affrontato mille battaglie contro i potenti, e averne persa una personale contro la follia dentro cui disperatamente scivolò. Si attaccò alla memoria commossa della Comune, celebrando più volte il famoso muro dell’ultima resistenza contro le truppe Versagliesi.

Drappeggiando largamente il muro venti stracci rossi accostati
Nascondono i buchi della mitraglia da cui i vinti furono falciati
Più bella di qualsiasi monumento che l’orgoglio innalzi come tomba
L’erba copre la fossa dei morti senza sepoltura
Quest’erba che il sole indora quando maggio sprigiona dai giardini
Questo muro che la storia decora, che sanguina ancora
È la tomba dei fucilati

(Le Tombeau des fusillés 1887)

Si batté contro la pena di morte, anzi una sua canzone, La veuve sempre del 1887, in cui la vedova del titolo diventa un’agghiacciante allegoria della ghigliottina, venne ripresa e portata al successo da Damia.

La vedova nei pressi della prigione in un’oscuro magazino dimora
Non esce mai di casa, ché per la morte di un bandito
Nella vettura di gala, cui la folla fa ala
Arriva e prende posto in piazza (...)
I testimoni, il prete, la legge, tutto è già pronto per le nozze
Ogni oggetto trova il suo ruolo: il furgone nero è la carrozza
Ogni accessorio è necessario: i due cavalli per il viaggio
E il paniere pieno di fieno è il bouquet di sposa (...)
Ecco arrivare il promesso, dritto dal braccio della morte
Chiamando il maschio che aspetta, la vedova gli si offre vezzosa
Mentre la folla tutt’attorno guarda, rabbrividisce e trema
In un accoppiamento orrendo l’uomo gracida l’ultimo affanno (...)
Cinica, sotto l’occhio dei guardoni, come alla toilette una ragazza
La vedova si lava con getti d’acqua, si sveste, si ricompone
Impassibile fra le grida, ritorna nella sua oscurità
Dei suoi tanti mariti porta un lutto colore rosso.

Il suo impegno e le tante battaglie combattute per i più deboli sono però macchiate – non possiamo nascondercelo – da un orrido antisemitismo, all’epoca ahimè piuttosto diffuso negli ambienti della sinistra francese (persino Prudhon era un fior di antisemita!).

Boheme miserabile

Gaston Couté è un personaggio adorabile. Venuto su dalla provincia, di famiglia di poveri mugnai, autodidatta, sbarca nel giro dei cabaret parigini. Consuma la sua scarsa salute negli anni di una boheme miserabile e fa aderire il suo talento poetico all’impegno sociale. Con Couté ci troviamo di fronte a un Rimbaud della canzone, bruciato dalla vocazione a cantare l’amore in modo nuovo e realistico, con le dure immagini dell’infanzia contadina.

Quando passammo in riva al torrente, quando l’amore cantava per noi
La sua canzone così gracile e nuova, e dolce allora nella sera dolce
Senza intenzione, per giocare, dalla riva in fiore al flutto morente
Come bambini usciti da scuola, gettammo insieme pietre nell’acqua
Ho imparato in fretta la strofa delle lacrime nella canzone della sera
E conosciuto il vuoto angoscioso di quando non sei venuta più
Invano allora saliva il singhiozzo dal mio cuore scosso dal pianto
Perchè il tuo cuore era duro come una delle pietre gettate nell’acqua
Sono tornato in riva al fiume e la riva in fiore che ci vide insieme
Mi vede solo e piegato seguire il suo corso di croce e di dolore
E ricordandomi il tramonto felice in cui le pietre rotolavano nella corrente
Voglio affogare il tuo cuore ad ogni pietra che getto nell’acqua

Non sono versi d’occasione, il suo impegno va oltre i luoghi comuni del tempo che gli fu dato in sorte. Bellissima la canzone I nostri vent’anni, la cui polemica contro il servizio militare diventa un inno pagano all’esistenza:

Miserabili, che abbiamo avuto fin’ora?
Oro, nemmeno un’oncia! Suolo, nemmeno un pollice
La nostra età ci dà l’amore: tesoro e vigna, rossa vendemmia!
Ma ecco che vogliono rubarci tre anni della felicità che si è appena schiusa
Ed ecco che rivestono i nostri vent’anni di orpelli di odio!
Voi grandi e potenti se possedete soldi a caterve e terre in abbondanza
Voi grandi e potenti se li possedete... teneteveli!
Ma i nostri vent’anni sono nostri, la nostra sola ricchezza sulla terra.
I nostri vent’anni sono nostri e ce li terremo. (...)
La nostra felicità non è gelosa della felicità di chi dice “ti amo”
In un altro dialetto. Noi non vogliamo rovinare la loro poesia.
E fieri di compitare oggi in un libro pieno di dolci parole
Per imparare a versare sangue ci rifiutiamo di andare a scuola.
La menzogna ha corpo d’amore, la sua anima è bandiera al vento
Però preferiamo sempre le menzogne di rosa a quelle di sangue
E perciò borghesi impotenti con i campi lavorati e le casseforti piene
Non chiedeteci i nostri vent’anni, sono già promessi al prossimo ballo.

Poeta fra i rarissimi a impiegare i modi, Couté è scivolato nel dimenticatoio per molti decenni, anche se oggi è l’oggetto della venerazione dei circoli di appassionati, che periodicamente si riuniscono a cantare le sue canzoni. C’è stato un tempo in cui questo rivoltoso, che portava i propri canti dolcissimi e maledetti dall’alba dei cabaret alle riunioni dei lavoratori, ha fatto paura. Avendo denunciato in una sua canzone la pratica della tortura durante gli interrogatori, qualche poliziotto zelante pensò bene di far passare a Couté qualche tempo in prigione, ma chi andò ad arrestarlo lo trovò morto di tisi, era il 28 giugno del 1911, lui aveva appena compiuti 31 anni.
Questi sono personaggi sotterranei. A parte la stima dei contemporanei più sensibili, ben pochi poterono accorgersi del loro passaggio che nella storia della letteratura ha lasciato poche tracce, e nella storia del costume, essendo un’epoca precedente a radio e dischi, non ne ha lasciate. Però iniettarono in un genere che sarebbe diventato il più popolare veicolo di idee e di poesia dei decenni successivi, una maturità artistica e una coerenza etica che permise alla canzone francese di cominciare già adulta il percorso dei suoi anni d’oro.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it