rivista anarchica
anno 38 n. 334
aprile 2008


no-tav

Un movimento al bivio
di Maria Matteo

 

Tra illusioni istituzionali e radicalità delle lotte, breve storia e prospettive in Val di Susa.

 

Almese. Giovedì 3 aprile. Siamo in bassa Val Susa, non lontano dalle pendici del Musiné, la montagna che annuncia ai visitatori la Valle No Tav. Nella via antistante l’auditorium “Magnetto” già dalle 19 comincia ad adunarsi la folla delle grandi occasioni con bandiere, fischietti, striscioni. In testa una cinquantina di attivisti No Tav in abiti stile Palestina anno zero che mettono in scena un presepe fuori stagione, un presepe decisamente laico. Davanti c’è uno striscione con la scritta “Re Ma(n)gi? Assenti! Presepe? Presente!”: un vento teso che spira da giorni tende le bandiere – quasi tutte no Tav – tranne quelle rosse e nere degli anarchici.
Il comitato di accoglienza così predisposto attendeva l’arrivo di Bresso, Saitta e Chiamparino, rispettivamente a capo di Regione Piemonte, Provincia e Comune di Torino. Ufficialmente venivano per una serata elettorale del PD: in realtà si trattava di una sfida, una sfida al movimento No Tav. I tre Re Ma(n)gi provavano ad entrare in un territorio dove da anni – in veste ufficiale – non avevano osato mettere piede. Volevano vendere le meraviglie di una Valle Susa attraversata dal Tav, raccontare la solita favola del progresso, condire la minestra con la promessa di compensi miliardari ed il miraggio del lavoro. Soprattutto volevano dimostrare che la lunga opera di mediazione del centro sinistra aveva dato i suoi frutti, rompendo il fronte che aveva obbligato le truppe mandate da Berlusconi a fare dietrofront nel dicembre del 2005.
I fatti sono noti. I tre Re Ma(n)gi si sono fermati a Rivoli, dove hanno improvvisato (?) una conferenza stampa nella quale hanno denunciato il clima di intimidazione e violenza creato in Valle da una minoranza di irriducibili che terrebbero in scacco la maggioranza della popolazione. I pochi funzionari PD arrivati ad Almese sono entrati e usciti dalla sala tra i fischi e gli sberleffi che ne hanno accompagnato il tragitto attraverso un muro umano di No Tav, migliaia di persone.
Ad Almese c’era il solito popolo No Tav: uomini e donne di tutte le età, moltissimi bambini e la ferma determinazione a ribadire la propria opposizione alla realizzazione di un’opera devastante ed inutile, destinata ad assorbire ingenti risorse pubbliche per fini privatissimi.

Pensare il futuro

Ormai da mesi la partita sta arrivando ad un punto cruciale i sì tav hanno moltiplicato gli affondi. Sindacalisti ed imprenditori hanno lanciato sul piatto il ricatto occupazionale, con la leggenda che il Tav porta progresso, lavoro, prosperità. Le gallerie Tav in Italia sono costate milioni di euro sottratti alla sanità, alla scuola, alle pensioni. E per ogni chilometro fatto un lavoratore ci ha lasciato la pelle. Sono morti anonime, quelle tutte eguali degli immigrati dei mille sud del nostro pianeta, piagato e piegato dall’ingiustizia e dalla ferocia di un’organizzazione sociale che tutto calpesta in nome del profitto. Il lavoro senza giustizia sociale è solo sfruttamento bestiale, sudore, sangue e morte. Di questo i No Tav sono ben consapevoli e gettano sul piatto una riflessione sulla possibilità di pensare un futuro in cui crescita della produzione e degli scambi e benessere non siano sinonimi.
Lo scacco subito ad Almese dai rappresentanti delle principali istituzioni locali piemontesi è il segno inequivocabile che la strategia della carota messa in piedi dal governo Prodi per vincere la resistenza della popolazione coinvolta dal progetto della nuova linea ferroviaria ad Alta Velocità tra Torino e Lyon, continua ad incontrare notevoli difficoltà. Il movimento, messo di fronte alla pretesa arrogante di fare messe elettorale del lungo lavorio ai fianchi intrapreso dai si tav del centro sinistra, ha reagito con forza e con orgoglio, rispedendo al mittente la provocazione dei Tre Re Ma(n)gi. Le reazioni scomposte del giorno successivo, giunte a tacciare di fascismo i contestatori della Torino Lyon, il riproporre ossessivamente il clichè usurato del pericolo anarchico, sono il segnale inequivocabile delle gravi difficoltà di una compagine di centro sinistra ormai alle corde.
Se il 3 aprile ad Almese il movimento No Tav ha saputo rispondere a “moda nostra” all’incursione di Chiampa-Custer e della tetra compagnia di giro del PD, tuttavia gli indiani di Valle, non diversamente da quelli delle praterie, sono molto più bravi a cavalcare di fronte al nemico che ad affrontare i mille inganni della politica.
Oggi il movimento si trova in un momento difficile, ad un punto di svolta. Se quella che stiamo facendo fosse una faticosa ascesa ad un valico, potremmo dire che, giunti ad un passo, i No Tav devono decidere se continuare in alta montagna o discendere verso i pascoli dell’altro versante, dove li attende una bella e rassicurante riserva. Ma si sa, nelle riserve, gli indiani muoiono.
Vale la pena fare un passo indietro.
Torniamo all’8 dicembre del 2005. Da quel giorno il movimento No Tav è divenuto punto di riferimento ideale per i tanti che in questo paese si battono per un ambiente più sano, per relazioni sociali più giuste, per una pratica politica improntata all’agire in prima persona, rifiutando le deleghe in bianco e le logiche del Palazzo, segnate irrimediabilmente dalla volontà di conquista e mantenimento del potere.
Accusati di essere “nimby”, preoccupati solo del giardino di casa, i No Tav hanno mostrato che il nostro giardino è il mondo intero, svelando la falsità della retorica del progresso e dell’interesse generale, retorica che nasconde interessi ben particolari, interessi di portafoglio, di guadagno a tutti i costi. Il movimento ha rivendicato la salvaguardia dei beni comuni, della terra, dell’acqua, dell’aria, ma soprattutto ha ripreso nelle proprie mani la facoltà di decidere, espropriata dalla politica dei potenti per riconiugare la politica nel senso della partecipazione diretta di tutti. Ed ha fatto paura, perché di fronte alla violenza e all’occupazione militare, ha eretto barricate, fatto scioperi e blocchi, perché non ci è fermato di fronte allo sbarramento di sbirri dell’antisommossa che, al Bivio dei Passeggeri impediva l’accesso alla provinciale per Venaus, ma è andato oltre aggirando la polizia, scendendo la montagna, abbattendo la rete.
Una rete fisica ma anche simbolica perché le migliaia di uomini, donne e bambini che lo hanno fatto non si sono chiesti se quello che facevano fosse legale perché sapevano che era legittimo, perché sapevano che quello che il governo chiamava ordine era solo il disordine di chi difende il diritto di pochi alla devastazione ed al saccheggio del territorio, della vita, del futuro in Val Susa come ovunque.
Dopo il fallimento della forza, prima Berlusconi e poi Prodi hanno provato con l’astuzia, con la melassa, con il tempo che passa.
Dopo l’8 dicembre 2005 il governo decretò la tregua, una tregua che era suo interesse stipulare, per far passare le olimpiadi dalla valle No Tav. Probabilmente in quell’occasione il movimento perse una preziosa occasione per cancellare il Tav dall’agenda dei governanti di turno.
Gli amministratori locali che, l’indomani della rivolta, sottoscrissero a Roma la tregua con il governo offrirono alla Banda Berlusconi una via d’uscita da un’impasse superabile solo con l’impiego massiccio e violento dell’esercito in valle. Ve le immaginate le truppe di occupazione piazzate nei paesi della Val Susa sotto l’occhio attento delle TV di tutto il mondo venute a raccontare le Olimpiadi? Nemmeno Berlusconi e la sua masnada di delinquenti e guerrafondai poteva permetterselo. Fu uno sbaglio non capirlo e perdere così un’occasione unica.
Gli amministratori sostennero la tesi che il tempo fosse alleato del movimento e che accettare il tavolo politico di trattativa e quello tecnico di verifica sulla necessità dell’opera, fosse una mossa vantaggiosa. Il movimento, pur consapevole che l’Osservatorio retto dall’ineffabile Mario Virano, fosse il cavallo di Troia del Tav, non riuscì a contrastare in maniera efficace la scelta dei sindaci di partecipare attivamente ai lavori. Il rischio di una spaccatura con gli amministratori e la mancanza di iniziative dirette sul territorio rese difficile un’azione efficace di contrasto, nonostante contestazioni anche clamorose nei confronti dell’Osservatorio. Come non citare la volta che Virano, Ferrentino e soci vennero chiusi da un robusto lucchetto dietro al cancello che chiude l’ingresso del giardino della sede della Comunità Montana in via Trattenero a Bussoleno? Fuori centinaia di No Tav esponevano lo striscione “No Tav, No Tavoli”.

Immobilismo progettuale

Il passaggio di consegne tra la Banda Berlusconi e la Banda Prodi non segna alcuna inversione di tendenza. Il governo Prodi mette la Torino Lyon tra i 12 punti cardinali del proprio programma. Una priorità da realizzare a tutti i costi. Sebbene la gran parte degli amministratori valsusini continuasse a raccontare la storiella che l’Osservatorio guidato da Mario Virano, nel frattempo divenuto anche Commissario straordinario per la realizzazione dell’opera, dovesse prioritariamente valutare l’utilità della nuova linea e, quindi, l’opportunità di realizzarla, le bugie hanno le gambe corte e, di proverbio in proverbio, i nodi sono arrivati poco a poco al pettine.
La prima scossa giunge il 13 giugno del 2007, quando i sindaci si recarono a Roma per la riunione del tavolo politico sul Tav: il giorno successivo i giornali titolarono che era stato raggiunto l’accordo per la realizzazione dell’opera. I sindaci al loro ritorno negarono l’accordo ma rifiutarono di smentire pubblicamente il comunicato diffuso da Palazzo Chigi. Il governo, sostenendo di avere il sostegno delle popolazioni interessate – tra i requisiti richiesti per ottenere un finanziamento europeo – chiese ed ottenne i fondi per la realizzazione della tratta transfrontaliera della Torino Lyon.
Il 20 luglio 2007, in occasione della consegna della richiesta di finanziamento, i No Tav sfilano a migliaia a Chiomonte, dove pare vogliano far passare il tunnel transfrontaliero di 52 km, ma il movimento non va al di là di questa prima risposta. Le componenti più moderate, così come certi “antagonisti” che avevano legato le proprie fortune all’alleanza con i sindaci, attendono il miracolo, sperano che alla fine Ferrentino&C. escano dall’Osservatorio e rompano l’accerchiamento del movimento. I politici di professione, gli uomini di potere, non possono non pagare dazio al governo loro amico, pena la perdita di poltrone presenti e future. Poco importa se sul piatto della bilancia sta il futuro, la salute la libertà dei più.
Il governo Prodi conclude la propria stentata esistenza nel gennaio di quest’anno. Tra i suoi ultimi atti, a camere ormai sciolte, convoca la riunione del tavolo sul Tav il 13 febbraio. In quell’occasione viene sancito che la questione sul tappeto non è se fare il tav ma come farlo. Entro la fine di giugno L’Osservatorio dovrà concludere i propri lavori definendo la questione dei tracciati. La data è improrogabile poiché l’UE, che ha stanziato quasi 700 milioni di euro per l’opera, confermerà il finanziamento solo sulla base di un tracciato preciso. I sindaci ormai recitano a soggetto ma la farsa non convince più nessuno. Una parte degli amministratori spacca il fronte firmando una lettera in cui dichiara conclusa l’esperienza dell’osservatorio. Si tratta di una minoranza, la minoranza che le scelte nazionali di fronte alla scadenza elettorale pone fuori dal centro sinistra. Ma anche per costoro le strada non sarà facile e potrebbero presto trovarsi ad un bivio, poiché l’adesione al movimento ed il proprio ruolo istituzionale rischiano di entrare in rotta di collisione.
La Sinistra l’arcobaleno è il luogo dove le contraddizioni potrebbero presto arrivare al pettine. In Val Susa vi stanno dentro quelli del PRC di Bussoleno, No Tav coerenti sin dalla prima ora, ma anche la corrente mussiana della quale Ferrentino è il maggior esponente in Valle. Oppositori del tav e sostenitori del come tav nella stessa scatola elettorale, un pasticcio che non può avere lunga durata. Specie di fronte alla possibilità emersa dall’incontro di Palazzo Chigi del 13 febbraio che, alla conclusione dei lavori dell’Osservatorio Virano si arrivi ad un referendum sui tracciati. Quelli “buoni” voluti dal centro sinistra e quelli “cattivi” sostenuti dalla destra. In merito è interessante la posizione del segretario provinciale del PRC Favaro che, da un lato ha bloccato la candidatura di Ferrentino alle elezioni, ma dall’altro si è dichiarato favorevole al referendum.
Di fronte ai mille inganni della politica il movimento no tav rischia di venire strangolato dal timore che senza tutele politiche non si possa vincere e si crogiola in una sorta di immobilismo progettuale. Sul territorio si moltiplicano le iniziative, la partecipazione è molto forte, ma durante i due anni di governo Prodi ha finito poco a poco con il prevalere l’attitudine a non portare a fondo la critica, ad attendere gli sviluppi, a rimandare a domani iniziative più radicali. Un’attitudine che da spazio all’offensiva di avversari tanto agguerriti quanto senza scrupoli, che, oggi come nel 2005, descrivono i No Tav come minoranza violenta che tiene in ostaggio una popolazione ormai pacificata.
Le barricate hanno fermato il Tav, mentre i tavoli politici lo hanno rimesso in moto. Questo mondo in grigio avvolge ogni cosa nella nebbia delle compatibilità, una nebbia nella quale si rischia di smarrire la strada.
Berlusconi ed il nazionalalleato Martinat, già viceministro ai lavori pubblici del Cavaliere, promettono la mano pesante per piegare la resistenza no tav. Non sono pochi coloro che sperano che il ritorno di Silvio dissipi la nebbia e riporti in campo aperto lo scontro tra le truppe dello stato e gli indiani di valle. Una prospettiva decisamente avvilente, per un movimento che ha saputo divenire punto di riferimento per la capacità di resistere ma anche per l’autonomia dal quadro politico, facendo il proprio percorso al di là e contro le scelte di mediazione di sindaci e amministratori locali.
Sarà interessante vedere se la forte spinta astensionista che vasti settori di movimento hanno veicolato nelle assemblee e nei coordinamenti dei comitati no tav si tradurrà in un altrettanto forte capacità di iniziativa autonoma sul territorio.
I prossimi mesi saranno decisivi. Non tanto per il Tav quanto per un movimento popolare che ha saputo riconiugare la politica come partecipazione diretta senza deleghe, riprendendo nelle proprie mani il futuro.

Maria Matteo