rivista anarchica
anno 38 n. 337
estate 2008


anarchici

 

Il controverso Severino

Non deve sorprendere che a distanza di ottant’anni, le figure di Severino Di Giovanni, l’anarchico espropriatore che operò in Argentina negli anni trenta, e quelle degli anarchici che gli furono vicini o ne emularono le gesta, possano ancora essere fonte di ispirazione per romanzi e racconti. Vite travagliate e tragiche, segnate da una grandezza epica ma anche fosca e luciferina, vite ricche di luci ma soprattutto di ombre, gettate a piene mani su e contro un movimento che dovette affrontare, oltre alla continua e brutale repressione dello Stato, anche laceranti polemiche e scontri micidiali dei quali, per il bene dell’anarchismo, si sarebbe fatto decisamente a meno. Vite comunque che sono di per se stesse un romanzo e alle quali non c’è nulla da aggiungere o inventare per renderle avvincenti ed emozionanti.
Ne sono prova i due libri di cui parleremo in questo Ritratto in piedi, entrambi molto partecipi di quelle vite rovinose, volutamente ricostruite più nella loro dimensione avventurosa e, per certi aspetti, cronachistica, che non rilette alla luce di una interpretazione storica. Ma del resto sono opere di letteratura e non di saggistica. Si tratta dunque di una robusta biografia romanzata dedicata espressamente a Severino Di Giovanni e ai suoi compagni di lotta (Maria Luisa Magagnoli, Un caffè molto dolce, Torino, Bollati Boringhieri, 1996) e di un più breve e succinto racconto, che ricostruisce, con la immaginaria penna di un giornalista alcolizzato di Buenos Aires, fortemente simpatizzante con il “movimento”, tutto l’ambiente “espropriatore” del cono sud americano (Nico Francalanci, L’anarchico che cade nelle mie mani deve aver litigato con la vita se continua a essere anarchico, Roma, Robin, 2007).
Di Severino Di Giovanni esistono numerose biografie, tra queste la voce a lui dedicata nel Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani (Pisa, BFS, 2003) e le opere del giornalista rioplatense Osvaldo Bayer, per cui basterà ripercorrerne le tracce solo a grandi linee. Formatosi alla scuola del tipografo anarchico Camillo Di Sciullo, dalla natia Chieti emigra in Argentina, con la moglie Teresa, nel 1922. Ha soli 21 anni ma è già un militante determinato, attivo nella propaganda e nella militanza antifascista. A Buenos Aires trova un ambiente abbastanza consono con le sue idee decisamente incendiarie e ben poco legalitarie. Se in Argentina, infatti, è fortissimo il sindacalismo anarchico organizzato nella Federacion Obrera Revolucionaria Argentina (Fora), è ben radicata pure la componente illegalista, che trova nella durezza della repressione e nella scarsità dei mezzi, la giustificazione delle pratiche violentemente espropriatrici.

Una copertina della rivista edita
da Severino Di Giovanni

Determinato a far sentire la propria voce dinamitarda e oggettivamente incurante delle ripercussioni che le sue violente azioni possono avere sia su vittime innocenti – come spesso accadrà – sia sulle sorti dell’anarchismo argentino, Di Giovanni accompagna a un’intensa attività di propaganda intellettuale (ne sono testimonianza la bella rivista Culmine e la magistrale edizione delle opere di Reclus, interrotta solo dalla sua morte) una ancora più intensa azione diretta, che per i suoi tragici risultati non mancherà di indebolire ed emarginare il movimento anarchico in tutte le sue componenti. Spalleggiato da un nutrito gruppo di compagni fortemente solidali, tra questi i fratelli Scarfò, non mancherà di sostenere una durissima polemica con il movimento, e in particolare con gli anarchici e i sindacalisti che fanno capo al giornale La Protesta. Nonostante un giurì d’onore formato da Luigi Fabbri, Torquato Gobbi e Aldo Aguzzi, pur condannandone l’azione, lo scagionasse dalle accuse più gravi, viene ugualmente e pubblicamente accusato, sulle pagine del giornale in più articoli firmati da Abad De Santillan, di essere un provocatore e un agente della reazione, e di conseguenza la sua reazione non si fa attendere. Sotto i suoi colpi, infatti, cadrà sulla porta di casa, davanti ai figlioletti, l’anarchico Arango, direttore della Protesta. Così come cadranno, in un crescendo delirante, altri suoi compagni, sospettati di essersi fatti confidenti della polizia. Ormai braccato dalla polizia di tutto il paese, sempre più isolato non solo fisicamente ma anche politicamente, Di Giovanni viene arrestato, dopo una violenta e rocambolesca sparatoria per le vie di Buenos Aires, il 30 gennaio del 1931. Con lui sarà preso anche Paulino Scarfò, l’ultimo dei suoi adepti e fratello della sua tenerissima compagna, América Fina. Saranno sufficienti due soli giorni fra arresto e processo, poi “l’uomo vestito di nero” sarà fucilato all’alba del primo di febbraio.
Se il suo animo fu sostanzialmente quello di un uomo profondamente onesto e anche, paradossalmente, morale – nonostante i numerosi colpi in banca non trarrà mai profitto dai frutti delle rapine, utilizzandoli completamente per la propaganda – non c’è dubbio che tutta la sua attività abbia fortemente contribuito a indebolire e isolare l’intero movimento anarchico, screditandone i progetti e i fini di emancipazione. Non sembrava vero, infatti, alla propaganda borghese che non aspettava altro, vedersi offrire così solidi argomenti per poter descrivere il movimento libertario non come espressione di un ideale di liberazione ed emancipazione del mondo del lavoro, ma come una nutrita accozzaglia di “delinquenti” – e in effetti l’illegalismo sudamericano ebbe non pochi militanti – pronti a tutto pur di dare seguito alle proprie sanguinarie teorie. E non bastarono certamente il disinteresse personale e il grande e indiscusso coraggio che Di Giovanni seppe mostrare di fronte alla morte, coraggio che non ci si poteva non aspettare e che lo riabilitò parzialmente di fronte al giudizio degli anarchici come ricorda Luce Fabbri nel libro dedicato al padre, per fare della sua storia e delle sue azioni materia di esaltazione o di rimpianto. Se da esaltare, infatti, non c’è proprio niente e ancor meno, se mai possibile, da rimpiangere, tutt’al più si potranno ripercorrere quegli avvenimenti alla luce della complessa drammaticità che connotò quel periodo e quel paese.
Torniamo dunque a queste due opere, accomunate dal fatto che entrambi gli autori, e soprattutto Maria Luisa Magagnoli, sembrano, per molti aspetti, immedesimarsi con i loro personaggi. Se infatti Francalanci, pur mostrandosi vicino ai suoi avventurosi protagonisti, non solo autori di atti ferocemente violenti ma anche vittime di una repressione dura e selvaggia, riesce a mantenere una certa capacità di giudizio e di distacco, la Magagnoli si mette addirittura in diretta comunicazione con Di Giovanni, parlando con lui durante le frequenti apparizioni con le quali l’anarchico italiano trova il modo di ricambiare l’evidente simpatia dell’autrice. Trasferitasi infatti a Buenos Aires, proprio per ripercorrere quelle strade e quegli avvenimenti dai quali è stata così fortemente colpita, riesce fortunosamente a ritrovare i personaggi protagonisti di allora, tra questi la ormai vecchissima América, sorprendentemente ancora viva, e Vittoria, l’antica fidanzata di Scarfò. Ed è tramite le loro parole, i ricordi, i cimeli gelosamente e segretamente custoditi, che può progressivamente circoscrivere tutto il viaggio della memoria intorno alla sola, invadente figura di Di Giovanni. Unico vero protagonista rispetto al quale gli altri, tutti gli altri, fanno la figura delle comparse.
Nico Francalanci, diversamente, allarga il ventaglio dell’indagine e muovendo dalle gesta di Di Giovanni, viene via via ad avvicinarsi agli altri protagonisti della stagione illegalista ed espropriatrice argentina e uruguayana, riportando alla luce personaggi che per le loro leggendarie imprese riempirono le pagine dei giornali ma che oggi sono ormai dimenticati – mirabile la figura di Miguel Angel Roscigna – uomini tanto coraggiosi e spericolati nella loro incessante lotta contro una polizia brutale e omicida, quanto distanti, a dispetto delle loro intenzioni, da un qualsiasi fine anarchico di liberazione collettiva. E infatti nelle pagine di Pepo Sanchez, il solidale giornalista protagonista del libro, sembra quasi che solo la descrizione della disumana ferocia degli agenti dell’Orden Social possa dare una ragione e una valenza accettabile a quelle tragiche vite. Tragiche non solo per la drammaticità degli eventi ma anche perché quasi tutte finite o nel buio di carceri dalle quali, nonostante il loro ardimento, era impossibile evadere o sui marciapiedi delle strade di Buenos Aires e Montevideo, crivellate dai colpi del nemico.

Appare evidente, dunque, come questa intensa stagione di avventure tanto epiche quanto sconsiderate possa avere acceso la fantasia degli autori, come possa aver colpito la loro immaginazione l’eccezionalità di un movimento, perché effettivamente di un movimento si trattò, che credette di dare contenuti al proprio impegno sociale e alla lotta, scendendo sul terreno più congeniale a quel nemico che voleva abbattere: quello della pura violenza. Indubbiamente il coraggio, il disinteresse personale, la generosità e l’irriducibilità di questi anarchici sono valori umani che danno ancora oggi, nonostante tutto, un forte senso alle loro esistenze. Ma noi non possiamo non considerare che, nei fatti, tutti questi valori, così disperatamente e inutilmente sperperati, si trasformarono in qualcosa che venne, sempre nei fatti, a contrastare ogni possibilità di espressione dell’anarchismo. Perché al di là delle furiose e fratricide polemiche che provocarono, polemiche che forse avrebbero potuto ricomporsi, si trasformarono drammaticamente in poderosi strumenti di creazione di consenso per il potere e di giustificazione della indiscriminata repressione di ogni idea di cambiamento e di opposizione. E questo non lasciò alcuna possibilità di recupero. Va bene il romanticismo, va bene lo spirito d’avventura, va bene il riconoscimento del coraggio, ma credo che non si possa non tener conto del resto, soprattutto del resto, quando ci si accosta ancora a Di Giovanni e ai suoi compagni.

Massimo Ortalli

Le nostre lunghe chiacchierate
Parlare di Severino non era facile perché i gesti estremi della sua vita lo sovrastavano arrivando ad annullarlo. Si diceva di lui che fosse stato un pazzo, ma anche un vendicatore audace, un rivoluzionario sincero, perfino un Robin Hood sudamericano, come lo chiamò un commissario di polizia che nella parte più nascosta del cuore nutriva un’infatuazione profonda. Voltate risolutamente le spalle al frastuono degli anni argentini, volevo incontrarlo nel silenzio. Speravo che Severino, prima o poi, mandasse anche a me, come faceva con América ai tempi del loro amore, un foglio bianco scritto con l’inchiostro simpatico. L’avrei ripassato scrupolosamente con lo iodio, fino a far affiorare, accanto a una calligrafia inclinata verso destra, quella faccia che, nei momenti di tensione, diventava camusa. Sforzandomi di non giudicarlo, avevo cercato di seguire fiduciosamente la rotta del mio destino, che sapevo intrecciato a quella lontana storia d’amore e di morte, nella speranza di poter comprendere qualcosa, alla fine.
Un’intuizione lontana mi aveva portata nel luogo dove mi trovavo, in casa di América, che ascoltava le mie parole col sorriso di un’amica. Quel giorno, restammo a lungo una di fronte all’altra, assaporando il piacere di stare assieme. Forse, ci eravamo sempre conosciute. Osservandola con attenzione notavo una cosa che in lei non era cambiata: la pettinatura corta e ondulata, con i capelli dietro le orecchie, proprio come quella della ragazza che, cinquantaquattro anni prima, correva a salutare Severino per l’ultima volta.
Cominciarono così le nostre lunghe chiacchierate, che iniziavano verso le dieci del mattino e continuavano fino al tramonto. América raccontava il Severino privato con le parole che le dettava la memoria, con lo sguardo, le pause e i gesti controllati delle mani. Il tenebroso anarchico vestito di nero e il ragazzo abruzzese rivivevano nel profilo dell’anziana signora vestita di chiaro che camminava agile al mio fianco nelle strade di Buenos Aires. E sapevo già che delle nostre passeggiate al sole avrei conservato una nostalgia speciale, quella che cantano nei tanghi.

Maria Luisa Magagnoli
Da “Un caffè molto dolce”, pag. 43.

Lo stupore del desiderio
Ripensavo a quelle lontane notti di veglia mentre andavo a casa di América, ne parlavo con Maria De La Orden che aveva preso l’abitudine di accompagnarmi fino alla piazza nera di uccelli e giurava che, se il calvario di quei due vecchi fosse toccato a lei, sarebbe morta subito, stroncata come un pulcino. Loro, invece, speravano ancora che il figlio tornasse, e fino al momento del suo arresto, continuarono ad apparecchiare la tavola anche per lui. Paolino, però, stava alla larga e si limitava a scrivere qualche biglietto di saluto vergato con una calligrafia minuziosa verde smeraldo. Con patetica premura, i suoi gli mandavano camicie, frutta e medicine, riposte in un borsone blu che América, pronta per il viaggio, si caricava a tracolla.
Seduta sulla corriera che la portava all’appuntamento, lei pensava a Severino, l’uomo pericoloso che, senza mai sfiorarla, l’aveva sospinta oltre i territori dell’infanzia, dove gli uomini e le donne vivono lo stupore del desiderio. Stava per compiere sedici anni e non aveva mai avuto un fidanzato, neppure una simpatia per un compagno di giochi. Quando Severino s’era presentato alla sua famiglia, la sera che cercava casa, aveva stretto la mano a tutti e anche a lei, che l’aveva sentita adulta e straniera, come i sentimenti provati in quell’attimo. Sapeva già d’essersi innamorata e andava all’appuntamento con suo fratello sperando di trovare anche lui. Lo ricordava ancora, a distanza di tanti anni, seduta di fronte a me nella poltrona gialla nel salotto con il ficus benjamina, vicino alla finestra spalancata sui cortili di Buenos Aires.

Maria Luisa Magagnoli
Da “Un caffè molto dolce”, pag. 117.

 

Un lungo silenzio. Poi...
Lopez Arango venne assassinato al tramonto. Quel giorno, non era uscito di casa un attimo perché sua moglie, appena dimessa dall’ospedale, aveva bisogno di assistenza. Aveva cucinato per i figli che erano ancora bambini, poi s’era ritirato a leggere. Quello che successe tra Arango e il suo assassino non ebbe testimoni. Qualcuno aveva suonato alla porta e lui era andato ad aprire. Ci fu, tra loro, un silenzio lungo, poi tre spari. La moglie, sdraiata nella penombra, udì lacerarsi l’aria della primavera e, in preda a un orribile presentimento, si buttò giù dal letto e corse scalza in cortile, in tempo per vedere il suo giovane marito, steso tra due aiuole, che stava morendo. Lui la guardava ma non sapeva più parlare. Inginocchiata al suo fianco, gli occhi inondati di lacrime, lei lo accarezzava, mentre lui, con la punta del dito, tracciava degli sgorbi sulla ghiaia, che forse volevano essere il nome del suo assassino, destinato a restare nell’ombra per quarant’anni.

Maria Luisa Magagnoli
Da “Un caffè molto dolce”, pag. 136.


Domande non oziose
Un questionario per tutti gli anarchici

Il terrorismo anonimo che colpisce a casaccio, può essere considerato un’arma del movimento anarchico?
Gli assalti e i furti a banche, pagatori e così via, apportano qualche beneficio alle idee e al movimento anarchico, o sono controproducenti?
Qual è il vostro atteggiamento nel caso specifico della bomba al consolato italiano di Buenos Aires?
I fondi raccolti per i prigionieri politici debbono, o no, esser destinati ai prigionieri comuni?
La solidarietà intrinseca e completa con i prigionieri non è condizionata dalla natura della causa che li ha portati dietro le sbarre? Possiamo sentirci coinvolti in egual misura di fronte al carcerato che ha infranto quelle leggi borghesi che anche noi siamo pronti a infrangere, come a quello che ha commesso un atto che noi rifiutiamo? Il carcerato per un delitto ideologico è uguale a quello che è in prigione per assassinio o furto?
Il terrorismo di un Radowitzky o di un Wilkens* può essere paragonato al terrorismo messo in atto negli ultimi tempi a Buenos Aires?
(La Protesta)

L’atmosfera si faceva di settimana in settimana sempre più pesante. Con Di Giovanni latitante, Aldo Aguzzi aveva cercato di fare da mediatore e si era recato più volte alla sede di La Protesta per convincere i due caporedattori, Arango e de Santillan, a ritirare almeno i termini di “agente fascista” e “strumento della polizia”. Quella stessa polizia che, tramite il commissario Garibotto, giunse a offrire protezione ai due giornalisti.
Ma i due non ci sentivano proprio, né da un orecchio né dall’altro... e continuarono per la loro strada.
Pepo, in quel periodo, dal canto suo aveva rinunciato del tutto al giornalismo per dedicarsi a tempo pieno all’alcol, passione che lo aveva naturalmente portato a distaccarsi in modo notevole dalla realtà. Tra le nebbie delle sue percezioni alterate poteva scorgere delle immagini nitide, immagini preoccupanti, parole che lasciavano presagire qualcosa di spiacevole, parole che facevano venir voglia di rituffarsi nel bicchiere.

* Radowitzky e Wilkens, due anarchici che rispettivamente nel 1909 e nel 1919, uccisero i capi della polizia di Buenos Aires, responsabili di diverse morti durante manifestazioni di piazza.

Nico Francalanci
Da “L’anarchico che cade nelle mie mani deve aver litigato con la vita se continua a essere anarchico”, pag. 43.

L’ultima fotografia di Luigi Fabbri, fatta
insieme a Gastón Leval,
a Rosario di Santa Fe (Argentina), 1934

I due amanti
Sul banditismo, ch’era il grosso problema del momento, la coincidenza, tanto con il gruppo della «Protesta» quanto con il gruppo italiano di Buenos Aires, per lo meno per quanto riguarda la teoria, era completa. Però il babbo disapprovava gli eccessi in cui la passione dei suoi redattori faceva cadere il giornale. L’accusa di fare il gioco delle forza repressive era giustificata, ma non quella d’essere coscientemente al loro servizio. Un’ipotesi di questo genere uscì su «La Protesta» a proposito di Di Giovanni e mio padre s’allarmò e manifestò il proprio dissenso con lo stile di quella polemica. Gli spiegarono, senza convincerlo, che, in polemiche anteriori, Severino aveva lanciato la stessissima accusa contro «La Protesta». Tutta la vicenda gli appariva insopportabilmente assurda.

Luce Fabbri
Da “Luigi Fabbri, storia di un uomo libero”, pag. 182-183.


Tenerezza incredibile
Le ultime ore di Di Giovanni si sviluppano come su uno sfondo irreale. Davanti all’inferriata che dà al corridoio si accalcano i notabili che hanno potuto entrare nel penitenziario e che seguono millimetro per millimetro i movimenti del condannato. Di Giovanni si comporta come se non lo osservasse nessuno: è però cosciente che tutto il paese vive la suspense della sua morte, che per 24 ore egli sarà il protagonista, l’uomo del giorno. Ma quando gli portano Teresina e i suoi figlioletti, si emoziona. Goffamente, con le mani legate accarezza sua moglie. Bacia cento volte la sua compagna, le figlie e Ilvo, suo unico maschio, al modo italiano, appassionatamente. Teresina gli accarezza il volto in silenzio, guardandolo negli occhi. Egli prende Ilvo fra le sue braccia e lo stringe forte, mentre bacia le bambine. I figli sono biondi, come lui. È una scena di una tenerezza incredibile in un uomo così duro e violento. L’anarchico, nel vedere che l’emozione lo può tradire di fronte a tanti curiosi, si ricompone e comincia a giocare con i suoi figli. I giornalisti scrivono febbrilmente le note che presto verranno divorate dagli avidi lettori.
Un’ora più tardi, viene portata nella cella Josefina Scarfò. La scena è molto tranquilla, verrebbe da dire, quasi placida. I due amanti si tengono per le mani e parlano dolcemente. Egli le chiede che, nella sua condizione di donna, non prosegua la lotta stando all’avanguardia perché sarebbe troppo dura, ma che piuttosto si dedichi all’insegnamento delle idee e alla pubblicazione di materiale di propaganda. Le dice di sposarsi con qualche bravo compagno e le augura infinita felicità.
Anche l’incontro con Paulino Scafò si svolge con grande dignità. I due uomini rimangono in piedi stringendosi le mani, che hanno le manette ai polsi. Parlano con serenità; due minuti appena, e si dividono.
Dopo questo incontro i due confessano alla polizia la loro responsabilità in tutti gli attentati con bombe, e assalti degli ultimi tempi. In merito a queste dichiarazioni, il vice-prefetto Uriburu dirà ai giornalisti: «Si sono assunti la responsabilità di tutti i delitti col fine di evitare ai loro compagni di idee e di misfatti la sanzione penale».

Osvaldo Bayer
Da “Severino di Giovanni”, pag. 239.