rivista anarchica
anno 38 n. 337
estate 2008


(in)giustizia/2

Il reato politico dall’800 ad oggi
di Oscar Greco

 

Frammenti di storia sulla criminalizzazione del dissenso, dalla Rivoluzione francese ai giorni nostri.

 

Quello del reato politico è, oramai, un tema ‘vecchio’. Vecchio e terribilmente attuale in quanto da che sono state congeniate le prime strutture istituzionali si sono affermate come regole giuridiche quelle che proteggevano i ‘privilegi’ dei personaggi aventi autorità e lo stesso diritto si è posto come utile strumento di controllo sociale in una società politicamente organizzata.
Tuttavia la nozione di delitto politico o reato politico, è nozione tipica della cultura ottocentesca nata da due esigenze spesso non armonizzate tra loro: una liberale, particolarmente teorica e critica nei confronti dei misfatti dell’assolutismo monarchico; l’altra più propriamente detta istituzionale e tesa a garantire la tutela dello Stato e delle istituzioni.
I reati politici, in realtà, sono preesistenti allo stato liberale, ne troviamo traccia nell’antico regime ed in particolar modo in Francia.
La storia ci ricorda quanto orribile fosse l’accusa di crimen laesae maiestatis e come nel processo che giudicava chi avesse messo in pericolo l’esistenza o l’integrità del sovrano o dello Stato, fossero gradualmente eliminate tutte le garanzie della difesa.
La legislazione sui reati politici dell’epoca utilizzava pene esemplari, mirate a dare un messaggio ben preciso alla popolazione, comminate sia a chi veniva accusato di aver commesso o di aver ipotizzato di commettere un “reato”, sia a chi semplicemente conosceva persone considerate ‘sovversive’. Davanti ad una ipotesi di reato, contro il tiranno o contro un organo dello Stato, venivano incarcerate e spesso passate per la ghigliottina decine di persone ed i relativi familiari e affini. Ma a ben vedere la criminalizzazione del dissenso e il processo politico non mira tanto ad accertare i presupposti indispensabili per infliggere una sanzione, quanto, molto più subdolamente, a conseguire un dato prettamente politico: colpire un’idea, un movimento e la sua capacità di critica politica, rispetto alle quali la “ragione penale” scade a mera occasione.

Oziosi, vagabondi, coatti, ecc.

Un punto di svolta nella legislazione sui reati politici si ha con la rivoluzione francese. Caduta la monarchia e le forme di assolutismo, la legislazione non è più tesa a difendere il monarca e quindi la sua sacralità, ma un’entità nuova ed astratta, lo Stato e le sue istituzioni. Motivo questo che porta a sostituire il reato politico per eccellenza del ’700, quello di lesa maestà, con il reato contro la sicurezza dello Stato, che andrà a caratterizzare i futuri dispositivi di legge.
Le prime forme di legislazione repressiva nei confronti degli oppositori politici in Italia le troviamo nel Regno Borbonico. Istituito nel 1792, il domicilio coatto, ad esempio, altro non era che un arbitrario provvedimento poliziesco adottato dalla polizia borbonica per ragioni di sicurezza nei confronti dei cosiddetti “attendibili” (sospettati politici).
Successivamente nel 1859 col Regio decreto n° 3720, anche il Regno Sabaudo faceva proprio il domicilio coatto. Nel concreto si concedeva al Prefetto in carica in una determinata zona del paese, l’incontestata autorità di limitare lo spostamento di uno o più individui da un determinato territorio a causa della loro presunta pericolosità sociale.
Dopo un breve lasso di tempo in cui questa misura altamente restrittiva della libertà personale era stata abolita, veniva ripristinata nel 1865 con la legge n. 1409 allo scopo di allontanare dalla loro abituale dimora ‘oziosi e vagabondi’ rei di avere rapporti con i briganti.
L’anno successivo la misura fu estesa anche per le ‘motivazioni politiche’. Lo scopo era quello di sottoporre a sorveglianza speciale la persona ritenuta socialmente pericolosa e, per meglio ottemperare a questo compito, si obbligava il ‘cospiratore’ a dimorare, per un periodo di tempo che solitamente variava da un mese ai tre anni, in una colonia o in un luogo speciale di osservazione; il più delle volte isole difficili da raggiungere e da cui evadere e in cui era raro avere rapporti di interazione con gli abitanti del luogo.
Originariamente questa norma, come accennato, trovava la sua ratio nel limitare i fenomeni di brigantaggio nel sud del Paese, ma veniva da subito estesa ai dissidenti politici in maniera più generalizzata. Questo permetteva di estendere il numero dei ‘coatti’ in modo vertiginoso. Basti pensare che se nel 1871 i destinatari di questi provvedimenti erano ‘solo’ 474 tredici anni dopo erano circa 7.000. Una «moltitudine di persone sepolte in riva al mare» come recitava il poeta anarchico Pietro Gori nel Canto dei coatti.
Nel corso degli anni, lo scoppio dei moti sociali prima in Sicilia (Vespri siciliani) e poi successivamente in Lunigiana, nei quali erano particolarmente attive le figure anarchiche e socialiste della prim’ora, indusse ad emanare ulteriori disposizioni che inasprivano le pene già previste dalle leggi del 1865. Tuttavia nonostante il carattere fortemente repressivo si trattava comunque di disposizioni che andavano a punire i contestatori post delictum.
Il domicilio coatto veniva applicato una volta “riconosciuta la colpevolezza” del cosiddetto contestatore o oppositore politico; la pena veniva comminata, rispettando una sorta di “garanzia”, soltanto al termine del processo e non in maniera preventiva.

Il Casellario Politico Centrale

Successivamente il governo Crispi del 1894, anche a seguito del fallito attentato compiuto dall’anarchico Paolo Lega alla vita del primo ministro, escogitava nuove forme e strumenti tesi a reprimere il dissenso, fra tutte il casellario politico centrale. Applicato ufficialmente dal 1896 traeva origine come risposta dell’ordine pubblico ai moti dei Vespri siciliani e alle contestazioni operaie in Toscana, che si erano sviluppate sul finire del secolo. Si trattava in assoluto dello strumento più idoneo di cui si servivano le autorità per monitorare la consistenza e la qualità dell’opposizione politica.
Il casellario politico centrale consisteva nella raccolta di dati e informazioni su persone ritenute politicamente pericolose da parte degli organi di polizia che venivano poi diramate al Ministero della Giustizia. In tal modo, seguendo ed indagando le attività quotidiane, si conoscevano vita, opera e miracoli di tutti i dissidenti politici.
Ufficialmente il casellario restò in vigore fino al 1943, anno della caduta del fascismo, ma in realtà, la sua prosecuzione nell’Italia repubblicana è confermata dalla testimonianza dell’ex capo della polizia Vincenzo Parisi, resa pubblica dopo la sua morte. Il Casellario avrebbe ‘contato’ ancora nei primi anni ’60 circa 14.000 vigilati. Tuttavia non è difficile ipotizzare che il casellario abbia continuato la sua attività di controllo nel tempo, magari supportato sempre da nuove tecnologie e in diverse forme all’insaputa dei cittadini.
Tornando alla nostra ricostruzione storica è con il fascismo che si giunge al livello più alto di repressione verso ogni forma di opposizione attraverso la formulazione di nuove leggi e nuove normative.
Proprio durante il ventennio si fa ampio utilizzo del casellario; nel periodo compreso tra il 1922 e il 1940 furono aperti 114.000 fascicoli, contro i 40.000 del periodo precedente la dittatura.
Negli anni successivi all’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti (1924) in Italia s’impose il ‘regime totalitario’. Attraverso le cosiddette leggi «fascistissime» del ’26 e degli anni a seguire, si cancellarono gradualmente quelle forme di controllo e di equilibrio tra i poteri dello Stato che lo Statuto Albertino e lo stato liberale avevano in qualche misura garantito. Per mezzo delle suddette leggi Mussolini, in qualità di capo del Governo, sceglieva e destinava personalmente i ministri senza dover più attenersi alle maggioranze espresse dal Parlamento. Inoltre venivano soppresse le autonomie locali, al posto dei sindaci venivano nominati i ‘podestà’ direttamente dal governo centrale e, soprattutto, venivano soppresse le libere elezioni democratiche dai fascisti definite con disprezzo «ludi cartacei».
La fine dell’ordinamento liberale, per definizione legato ad elezioni democratiche, fu ‘perfezionato’ attraverso la cessazione della libertà di stampa, di associazione e di insegnamento. Da quel momento la Milizia fascista divenne una sorta di polizia parallela specializzata nelle repressione delle varie forme di contestazione. Per gli antifascisti venne appositamente creata una magistratura ‘straordinaria’ il tribunale speciale per le difesa dello Stato, composto da ufficiali della milizia che giudicava, spesso e volentieri, per reati astratti e indeterminabili come quello di «aver concorso a sminuire il sentimento nazionale».

Dal domicilio coatto al confino

Proprio in questo contesto veniva istituito nel 1926 il confino. ‘Figlio’ del domicilio coatto prevedeva l’allontanamento dell’individuo dal suo luogo di residenza verso determinate zone, piccole isole solitamente, per un periodo di tempo compreso tra 1 e 5 anni. In questo caso, a differenza del domicilio coatto, siamo in presenza di una norma preventiva, perché si punisce chi è sospettato, quindi ante delictum. Le persone costrette ad andare in esilio, 3 o a volte anche 5anni, si recavano in quei luoghi con il loro carico di sofferenze, un bagaglio di privazioni e nell’impossibilità di continuare a svolgere alcuna attività politica.
Non bisogna poi dimenticare che il regime attraverso altri organi come l’Ovra (la polizia segreta) si occupava anche di monitorare ed eliminare i ‘sovversivi’ fuoriusciti come nel celebre caso dei fratelli Rosselli e di altre centinaia di militanti che erano riusciti ad espatriare.
Il punto più alto del sistema repressivo fascista si ha con la promulgazione del Codice Rocco nel 1930, tutt’ora in parte vigente, che introduceva i reati associativi fino a quel momento inesistenti.
Ma, cosa forse ancor più grave, il codice Rocco tendeva ad unificare i reati politici ai reati comuni. Il suo ‘padre’ Alfredo Rocco non aveva dubbi nell’adottare la formula onnicomprensiva dell’articolo 8 secondo cui «Agli effetti della legge penale è delitto politico ogni delitto che offende l’interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì considerato delitto politico il delitto comune, determinato in tutto o in parte, da motivi politici». Era chiaro come l’obiettivo perseguito non fosse quello di diminuire le pene per i delitti comuni compiuti con motivazioni politiche, ma quello di aggravarle.
Con il Codice Rocco vengono puniti tutti coloro i quali si prefiggono lo scopo di attaccare o sovvertire lo Stato, nonostante non abbiano ancora commesso nessun reato, ma ne abbiano semplicemente discusso o espresso la volontà di poterlo o volerlo fare un ipotetico giorno.

Svolta autoritaria

Si giunge così all’epopea della contestazione dal ’68 fino alla fine degli anni ’70, periodo in cui lo Stato chiede ad un paio di noti esponenti della politica del tempo, ovvero ad Oronzo Reale e successivamente a Francesco Cossiga, di studiare il modo per poter risolvere i problemi d’ordine pubblico, un ‘nuovo’ modo per sedare le proteste di piazza.
La paura che avevano generato negli organi istituzionali la rivolta studentesca del ’68 e la conseguente saldatura con la protesta operaia nell’autunno caldo del ’69 porta nel 1975 alla legge di Oronzo Reale (legge Reale), Ministro della Giustizia dell’epoca. Una legge, quella Reale, che tende a punire non solo gli atti di terrorismo ma soprattutto il movimento, in quanto le predisposizioni previste colpiscono soprattutto le nascenti organizzazioni extraparlamentari a prescindere se queste hanno commesso atti di violenza o di terrorismo.
Successivamente il decreto Cossiga del 1979, che nasce pochi mesi dopo il delitto Moro e quindi dall’esigenza delle istituzioni di riportare tutto alla normalizzazione, va a sommarsi al resto delle normative repressive in vigore, ma mira a colpire soprattutto le realtà armate del movimento dell’epoca.
Questa nuova svolta autoritaria nell’ordinamento giuridico italiano si rifà al principio della ragion di Stato secondo cui la salvaguardia delle istituzioni giustifica l’azione di governo attraverso qualsiasi mezzo.
In tal modo il vecchio ‘delitto politico’ diventa delitto «con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento democratico». Una nuova dicitura che di fatto estende largamente i poteri di polizia e introduce un diritto penale ‘speciale’ rispetto a quello ordinario, ‘speciale’ quanto alle sostanziali figure di reato (come nel caso degli elastici e indeterminati reati di associazione sovversiva), ‘speciale’ rispetto al trattamento carcerario. Dopo aver tracciato a grosse linee la genesi e lo sviluppo delle legislazioni che colpiscono le varie forme di opposizione, non possiamo non notare il mantenimento di un filo conduttore, dal Regno Sabaudo ad oggi, di alcune norme che permettono la repressione di determinati atteggiamenti politici.
Il fatto che ancora oggi il Codice Rocco sia vigente, che si mantengano i reati associativi e che sostanzialmente la stessa legge Reale e lo stesso decreto Cossiga non siano state abrogati, dimostra una volontà dei governi che si sono succeduti nel mantenere quella continuità di controllo e repressione verso ogni forma di opposizione.
Un moderno Stato di diritto e che voglia dirsi democratico deve necessariamente procedere verso la totale abrogazione del Codice Rocco e l’assoluta cancellazione dei reati associativi anche in nome di quel diritto di resistenza, concepito come diritto naturale di una parte, o di un intero popolo, ad opporsi contro l’esercizio arbitrario e tirannico del potere statale.
Una tradizione di resistenza antichissima che trova le sue origini nell’Antigone di Sofocle e che leggi e complessi artifici giuridici non sono mai riusciti a interrompere.

Oscar Greco