rivista anarchica
anno 38 n. 337
estate 2008


America Latina

Nuovi governi, nuovi movimenti
della redazione della rivista uruguaiana “Alter”

 

Il numero crescente di Paesi latino-americani governati dalla sinistra ha determinato profondi stravolgimenti nella realtà e nelle strategie dei movimenti di base, che si trovano a fare i conti con nuove illusioni e mistificazioni.

 

La sinistra latino-americana torna a rivestire un ruolo politico indiscutibile, che si esprime sul piano elettorale. Negli anni ottanta sessanta milioni di latino-americani erano governati dalla sinistra; oggi sono più di 260 milioni. L’evento è ancor più significativo in quando si verifica dopo che gli intenti rivoluzionari della “sinistra armata” sono stati sconfitti. Ciò accade nonostante abbia subito anni di repressione e, in alcuni casi, decenni di feroci dittature.
Oggi, questa sinistra guerrigliera fa parte dei nuovi governi di sinistra oppure è partecipe della forza di maggioranza. Un tempo aveva abbracciato l’ideologia del foco guevarista, era gerarchica e clandestina, più antimperialista che anticapitalista, e il suo obiettivo prioritario era la liberazione nazionale, portato avanti con pratiche staliniste all’interno delle organizzazioni di partito, occultate dietro la compartimentazione, che aveva portato all’espulsione dei dissidenti e persino, in alcuni casi, come quello del poeta salvadoregno Roque Dalton, all’uccisione.
Questa sinistra, che non aveva potuto raggiungere il suo obiettivo strategico, conquistando il potere politico con le armi, ci riesce decenni più tardi, dopo anni di carcere, di morti e di scomparsi, grazie a processi elettorali e a complesse e a volte contraddittorie alleanze politiche, impossibili da capire dal punto di vista etico, e spiegate generalmente con l’argomentazione pratica secondo la quale “l’unione fa la forza”.
Questa sinistra che gestisce il potere politico e agisce in continuità con le linee economiche del capitalismo globale, non è in grado di fare autocritica riguardo alla propria passata militanza, all’uso e alla strumentalizzazione dei movimenti di base in consonanza con i propri interessi di partito, avendo gerarchizzato e separato il politico dal sociale, all’aver indebolito i movimenti, sottraendo loro i militanti migliori, reclutati nell’apparato militare. Infatti costruì un apparato militare, con tutto quello che ciò significa, per contrapporlo all’apparato dell’esercito e alle forze repressive dello Stato. Una istituzione contro un’altra, concepite le stesse strutture e le medesime gerarchie. Questa posizione permise agli ideologi, che tentano oggi di giustificare il terrorismo di Stato, di elaborare la “teoria degli opposti estremismi”. Erano talmente uguali che, in alcuni paesi, le forze della guerriglia entrarono a far parte dell’esercito nazionale.

Tutto cambia

La novità degli ultimi due decenni, dopo l’ecatombe dei governi militari che applicarono la “dottrina della sicurezza nazionale” per tentare di stabilire un nuovo ordine economico, è costituita dai rivolgimenti prodotti dall’emergere di inaspettati, multiformi e imprevedibili movimenti sociali in America Latina. Alcuni di questi si sono opposti agli aggiustamenti neoliberisti e alle limitazioni delle libertà pubbliche. Inoltre, tali movimenti di resistenza hanno ostacolato l’applicazione dei piani di ristrutturazione capitalistica e sono andati delegittimando quello che veniva chiamato “pensiero unico”. Hanno aperto brecce attraverso le quali sono sorti nuovi modi di pensare e di cambiare il mondo.
I movimenti sono riusciti a bloccare le privatizzazioni, hanno provocato la caduta di numerosi presidenti e, nel caso boliviano, hanno organizzato interventi insurrezionali che avrebbero potuto portare a forme organizzative di autogoverno, radicate nelle comunità e nell’autogestione.
Negli ultimi anni, questi movimenti, che hanno avuto un ruolo sociale di primo piano al pari delle organizzazioni sociali sopravvissute alle dittature militari, hanno vissuto difficoltà, hanno perso spazi di intervento, sono stati emarginati e, in alcuni casi, subordinati o cooptati dai nuovi governi. Tuttavia non tutto è andato perduto; quanto accaduto ha avuto una influenza profonda, ci sono stati cambiamenti che hanno aperto nuove vie, si sono creati nuovi modi di agire, nuove sensibilità ecc.
Non ci sono governi “buoni” che sostengano e siano favorevoli ai movimenti sociali che si battono per la propria libertà, che costruiscono autonomamente il proprio senso della vita, che lottano per l’emancipazione sociale. Naturalmente, ciò non significa che non vi siano differenze tra un governo e l’altro, una dittatura o un governo di destra non sono la stessa cosa di un governo progressista o di “sinistra”. Ma, in definitiva, i governi e gli Stati non possono permettere l’esistenza di realtà che non controllano o non gestiscono, realtà che si pongono al di fuori, dall’altra parte.
È bene ricordare che la situazione dell’America Latina si inserisce nella stessa instabilità nella quale si trova il capitalismo globale. Invasioni, truppe di occupazione, militarizzazione di territori ricchi di materie prime strategiche, quali petrolio, acqua, cibi (Paraguay, la triplice frontiera tra Argentina, Paraguay e Brasile, il “Piano Colombia”), pressioni di vario tipo e persino la possibilità di un cambiamento dei confini, come accadde nella ex Iugoslavia, sono all’ordine del giorno e fanno affidamento sulla struttura logistica degli Stati Uniti e sulle forze di repressione “nazionali”.

Conquistare lo Stato, conquistare il potere

I teorici marxisti della “sinistra statocentrica” suddividono questi nuovi governi, andati al potere tra il 1999 e il 2006, in due gruppi, l’uno di “sinistra” e l’altro di “centro”. Nel primo sarebbero annoverati Venezuela, Bolivia, Ecuador e Nicaragua. Si tratterebbe di governi antimperialisti, anche se soltanto a parole, e contrari al neoliberismo. Del secondo gruppo farebbero parte Argentina, Brasile, Cile e Uruguay, che avrebbero una posizione più tiepida rispetto al neoliberismo, maggiormente mediatrice e che intenderebbero soltanto attenuare la povertà prodotta dagli attacchi del capitalismo liberale.
I governi di “sinistra” si scontrerebbero con potenti e combattive borghesie e imprese transnazionali, che hanno sempre rifiutato di ridistribuire, anche se soltanto in minima parte, le ricchezze prodotte dalle classi subalterne. I capitalisti non accettano assolutamente la riduzione di nessuno dei privilegi di cui dispongono da secoli. E ancor meno intendono farlo attualmente, in un momento in cui i margini di guadagno sono stati ridotti e in cui è stato necessario dislocare le strutture estrattive e industriali; ormai i sistemi speculativi del capitalismo finanziario non producono più i profitti di un tempo.
I governi di “centro”, invece, rispetto alla borghesia, si troverebbero in una posizione di maggior “dialogo”, dato che, storicamente, il liberalismo e il populismo hanno dato vita a politiche di distribuzione della ricchezza, che ha consentito, soprattutto, la formazione di classi medie, che sono andate a costituire un consistente mercato interno e hanno contribuito a smorzare i conflitti sociali (umanesimo capitalista), salvo che nei brevi periodi della loro radicalizzazione.
Secondo tali teorici, questi governi hanno la possibilità di uscire dal neoliberismo ricostruendo lo Stato. “Gli Stati sono stati duramente penalizzati dalle politiche neoliberiste” e concludono che: “Non c’è democrazia che funzioni in presenza di uno Stato in disfacimento”.
In base a una simile idea, i nuovi governi hanno la funzione di ridare forza agli Stati deboli, ponendo di nuovo e con decisione l’idea di Stato sovrano. Atilio Boron ripropone anche il modello sovietico di Stato, che pianifica a livello centrale l’economia e lo sviluppo del mercato interno. A quanto pare, la cosa più importante non è la ricostruzione della comunità, superando la frammentazione sociale prodotta dal capitalismo attuale, ma quella di salvare Stati che, inevitabilmente, continuerebbero a spezzare e attaccare i legami sociali e le pratiche estranee agli Stati stessi e che si pongano al di fuori del loro controllo.
Ma è indubbio che, in tutti i casi, i nuovi modi di governare perseguono il rafforzamento di uno Stato debole e un ruolo più attivo in rapporto al mercato e agli organismi internazionali.
John Holloway, che dissente dalla posizione “statocentrica”, afferma: “Sostenere che lo Stato è un processo equivale a dire che canalizza l’attività sociale in un certo modo, in una forma che la riconcilia e la integra nella riproduzione del capitale. Entrare in contatto con lo Stato significa essere spinti in canali indirizzati verso la riconciliazione con il capitale”.
Ma la destra neoliberista latino-americana non si lascia intimorire facilmente; per questo ha organizzato a Rosario, Argentina, un’assemblea per studiare il modo di tornare al governo e portare di nuovo il continente sulla strada di quella decisa politica di saccheggio prospettata dal capitalismo globale.

I nuovi modi di governare

La sinistra latino-americana giunge al governo nel pieno di un processo in cui la rappresentanza politica sta entrando in crisi come conseguenza della profonda delegittimazione verificatasi a causa del fallimento dei governi dittatoriali, dovuto alla corruzione, alla distruzione del tessuto sociale e alla violazione di tutte le libertà liberali e borghesi. Di conseguenza, si trova a dover affrontare, in ragione di una coscienza sorta dallo scontro con i governi dittatoriali, un nuovo protagonismo sociale che non accetta di essere rappresentato. Ma la sinistra latino-americana sbaglia anche su un’ondata di cambiamenti, di modi di governare progressisti nella regione, che crea aspettative e speranze in vasti settori delle classi subalterne. Speranze che, appena suscitate, non tarderanno a essere tradite.
La crisi neoliberista e dei partiti governativi di destra è il risultato della loro delegittimazione e anche di decenni di lotte sociali. Nel caso dei popoli indigeni, è il risultato di più di cinquecento anni di dominio e di resistenza culturale. Da queste lotte sorgono forze di sinistra e progressiste che, facendo propria la bandiera di questi movimenti, li canalizzano in politiche statali ed elettorali per arrivare al governo.
Così i nuovi modi di governare sembrano più stabili. I governi che ne sono espressioni appaiono come l’affermazione della democrazia rappresentativa rafforzata da una qualche variante consociativa e consultiva. Prestano maggiore attenzione ai movimenti, ai quali fanno qualche concessione, alla ricerca di nuovi patti sociali per ottenere la pace sociale. Ma queste politiche riproducono la forma-Stato che molti movimenti avevano contestato o almeno messo in discussione.
Secondo i portavoce degli stessi partiti della sinistra al governo, la nuova situazione è conseguenza di un coagularsi di forze, in funzione di una strategia di potere, che, nel caso dell’Uruguay, inizia alla fine degli anni cinquanta e finalmente consente loro di arrivare al governo nel 2005. Questi governi di “sinistra” trovano paesi spaccati in diversi settori: culturale, etnico, economico, dei diritti umani…
Sul piano della integrazione regionale e internazionale i nuovi governi, in alcuni casi, stanno mettendo in atto politiche differenti; al punto che, insieme, sono riusciti a bloccare il progetto statunitense di istituzione dell’Alca (Área de Libre Comercio de las Américas, Area di libero scambio delle Americhe) e hanno creato difficoltà nell’applicazione del Piano Colombia. In alternativa, Chávez sta dando impulso all’Alba (Alternativa Bolivariana para América Latina y el Caribe, Alternativa Bolivariana per l’America Latina e i Caraibi), con il sostegno di Evo Morales, Rafael Correa, Daniel Ortega e Fidel Castro e degli altri governi che fanno parte del Mercosur.
Non mancano neppure quelli che sostengono la necessità di un multilateralismo delle relazioni commerciali. Ma, in linea di principio, tali differenze non esprimono opzioni contrapposte, ma si inseriscono nel modello generale di recupero di strumenti di ricostruzione degli apparati statali. Paesi quali Brasile, Argentina, Venezuela, Uruguay hanno saldato completamento il debito con il Fondo monetario internazionale (Fmi), mentre a Bolivia e Nicaragua il Fondo stesso ha provveduto a cancellare il debito. È emblematico il fatto che questo organismo, legato alle politiche imperialiste nella regione, non abbia considerato allo stesso modo tutte le cancellazioni. Brasile e Uruguay, per esempio, mantengono un buon rapporto con il Fmi.
Produttori di materie prime strategiche (petrolio e gas) hanno rinegoziato i contratti, un tempo leonini, con le multinazionali straniere, ponendo limiti e nuove condizioni. Le privatizzazioni di società pubbliche in alcuni casi hanno fatto marcia indietro.
Questi paesi hanno costituito banche regionali di sviluppo, come il Banco del Sur, stretto accordi di produzione e distribuzione di energia e stabilito una collaborazione in materia di sanità e istruzione.
Nella politica dei diritti umani, i governi di Argentina, Uruguay e Cile stanno portando avanti vari processi contro militari e civili accusati di assassinio, torture e scomparse nel corso delle passate dittature militari, che hanno reso possibile la condanna di alcuni colpevoli, deresponsabilizzando in questo modo il sistema che, come adesso ha bisogno di governi di sinistra, allora ebbe necessità di dittature, torture, assassinii. Occorre anche chiarire che in Uruguay continua a essere vergognosamente in vigore la cosiddetta Legge di impunità, che garantisce a coloro che hanno violato i diritti umani di non essere processati per reati commessi durante la dittatura, a meno che il presidente, con decisione propria, li escluda dai benefici concessi da tale legge, come è accaduto in alcuni casi.
In questi paesi la lotta per la verità e la giustizia è stata portata avanti per anni, in solitudine e in condizioni difficili, da familiari e organizzazioni di diritti umani. Oggi i governi di sinistra sono riusciti a neutralizzare e cooptare numerose di queste organizzazioni, facendo propria la politica dei diritti umani.
Tuttavia è tuttora attiva la repressione contro i movimenti, che si esplica tramite il carcere, i processi e le condanne; e non mancano neppure gli assassinii da parte delle forze repressive. Si continua a portare avanti la criminalizzazione e l’incriminazione di coloro che lottano per i propri diritti, di coloro che non si lasciano ingannare da questi governanti, come è evidente in Cile, Argentina, Uruguay, Venezuela...

Le politiche sociali

Nei nuovi modi di governare, gli Stati dispongono di risorse che prima non esistevano, e che sono il prodotto della congiuntura favorevole del rialzo dei prezzi internazionali delle materie prime, per finanziare programmi di sostegno ai ceti più poveri. Ricordiamo che tali programmi sono promossi dalla Banca Mondiale e da tutta una serie di organismi internazionali di credito. Tutti questi governi stanno sviluppando, in modi differenti, politiche pubbliche di lotta contro la povertà e la marginalità nel lavoro, l’istruzione e la salute. Tali politiche costituiscono la punta di lancia principale nella ricerca di nuovi consensi sociali e sono espressione del programma di ricostruzione di Stati “nazionali” affidabili dal punto di vista dell’investimento di capitali.
Nella zona andina queste politiche di lotta contro la povertà sono già state portate avanti dai governi precedenti, attraverso piani per lo sviluppo e la partecipazione comunitaria, promossi e finanziati direttamente dal Bid (Banco Interamericano de Desarrollo). Con politiche di questo genere i governi sono riusciti a neutralizzare i movimenti, cooptarli e, in alcuni casi, inserirli nelle istituzioni sociali (Lula da Silva nominò ministro del Lavoro il più importante dirigente sindacale dell’opposizione). Benché i benefici sociali concessi ai più poveri siano aumentati, in generale continua a essere attuata una politica economica volta ad attirare i capitali transnazionali.

Nuovi modi di governare e movimenti

In tutta l’America Latina l’applicazione da parte dei governi precedenti delle ricette neoliberiste aveva avuto gravi conseguenze e aveva fatto sprofondare vasti settori della popolazione nella miseria più atroce. L’unica soluzione per i poveri era stata quella di imparare a organizzare la propria sopravvivenza per continuare a vivere. Ma avevano organizzato anche la rivolta che si espresse in importanti movimenti in tutto il continente: il caracazo (1) in Venezuela, gli zapatisti in Messico, gli indigeni in Ecuador, i coltivatori di coca e le rivolte per l’acqua e il gas in Bolivia, i Sem Terra in Brasile e i piqueteros (2) e le fabbriche rimesse in funzione in Argentina, il movimento mapuche in Cile…
Alcuni ritengono che l’esistenza di governi di sinistra maggiormente sensibili alla questione sociale dia ai poveri la possibilità di rafforzare e di ottenere conquiste fino a questo momento irraggiungibili con i governi di destra. Ciò può essere vero a breve termine, ma alla lunga tutti i governi, compresi quelli che intendono perseguire una maggiore ridistribuzione sociale, tendono inevitabilmente a strumentalizzare, conquistare e istituzionalizzare i movimenti di base. Le politiche sociali dei nuovi modi di governare hanno una maggiore capacità di trascinare dietro di sé i movimenti, facendo proprie le loro parole d’ordine e accogliendo alcune delle loro rivendicazioni. Si presentano con i loro funzionari e tecnici sociali, molti dei quali sono militanti del sociale, e compiono indagini, contano, registrano, neutralizzano e controllano. Ma, soprattutto, danno vita a un nuovo stile di lavoro sociale, incentivando organizzazioni sociali consociative e “autonome”. Le stimolano ad agire all’interno dello Stato, riconoscendo loro una rappresentatività istituzionale; in questo modo cooptano i movimenti che così servono ad attribuire a tali governi la definizione di “popolari” (…)

I poveri in movimento

I movimenti dei popoli nativi o indigeni sono sicuramente una delle caratteristiche più evidenti di questi tempi. Forse stanno portando avanti il processo di decolonizzazione che in questi paesi non è mai stato concluso. In Ecuador e Colombia si sono scontrati duramente con le transnazionali del petrolio.
In Cile e in Argentina i mapuche hanno opposto resistenza alle imprese del legno e della cellulosa. In Cile sono stati duramente criminalizzati e, contro di loro, il governo della socialista Bachelet ha applicato la Legge contro il terrorismo (emanata da Pinochet). Il movimento di lotta del popolo mapuche si batte contro le multinazionali che si impadroniscono delle terre indigene per realizzare affari in campo agricolo e si impegna per l’autonomia e la gestione comunitaria del territorio, senza l’ingerenza dello Stato cileno.
In Bolivia la lotta per l’acqua e il gas e per la nazionalizzazione degli idrocarburi ha visto le comunità indigene e contadine in prima fila quando, nell’ottobre 2003, fecero cadere il governo e quando, tra maggio e giugno 2005, furono a un passo dal destituire il presidente Eduardo Rodríguez e dall’organizzare un autogoverno; intervenne però Morales e il suo partito, il Mas (Movimiento al Socialismo), che trattarono e ottennero dal movimento ribelle una tregua con il governo, lasciando così di nuovo aperta la via elettorale, che avrebbe portato l’aymará Evo Morales alla presidenza della Bolivia. Rivendicare la nazionalizzazione del gas e del petrolio, prospettando la sovranità su queste industrie organizzate secondo il modello centralizzato statale, significa porre un’altra volta il parlamentarismo e lo Stato come interlocutori validi nel conflitto.
In Ecuador i popoli nativi promuovono uno Stato multiculturale e multirazziale. Nel caso dell’Ecuador, già in passato i popoli indigeni avevano stretto alleanze in questo senso con partiti e candidati di governo che poi li tradirono. Forse è possibile la costruzione di un nuovo Stato, in cui abbiano un posto le culture indigene, a patto che non si metta in discussione il mercato capitalista. In Bolivia, gli aymará propongono l’autogoverno delle comunità e rivendicano la costruzione della “nazione aymará” contrapponendola all’idea di conquistare lo Stato.
Il movimento piquetero in Argentina è stato indebolito e inserito quasi totalmente nelle politiche governative attuate dal governo di Néstor Kirchner. Il gruppo numericamente più importante e forza d’urto governativa è guidato da Luis D’Elía ed è attualmente costituito dai piqueteros. In questa situazione di grande confusione provocata da una politica governativa che presta maggiore attenzione all’assistenza alle classi più povere, è accaduto persino che un Movimiento de Trabajadores Desocupados (Movimento di lavoratori disoccupati), legato a un’organizzazione anarchica, abbia finito per fare attività elettorale a favore di Kirchner, passando armi e bagagli dalla parte delle istituzioni. Tuttavia alcuni settori di piqueteros, fabbriche autogestite, assemblee di quartiere continuano ad affermare i propri legami e a costruire autonomamente la propria vita, producendo e commercializzando in un modo diverso, autogestito.
Il chavismo in Venezuela è un movimento promosso dal governo, il cui leader più importante è lo stesso presidente. Ciò costituisce di per sé un forte limite, poiché un cordone ombelicale lo lega saldamente allo Stato. “La gente deve prendere il potere” sostiene Chávez, come scrive entusiasta il libertario statunitense Michael Albert. Ma che significato può avere una simile proposta quando è fatta da chi esercita realmente il potere, quello stesso che costruisce il partito unico Psu (Partido Socialista Único), per dirigere i destini della “rivoluzione bolivariana”, e del quale è il capo assoluto? Un potere popolare programmato dall’alto dai funzionari del governo può soltanto servire a rafforzare il potere dei funzionari, di Chávez e dello Stato. Il fatto è che il socialismo del XXI secolo è ispirato da quel miraggio denominato socialismo cubano.
“Il potere ha bisogno di ridurre la nostra forza di intervento proprio per esercitare il suo potere su di noi.” Non esiste modo migliore di disperdere la capacità di fare dei movimenti che quello di inserirli nello spazio del governo, istituzionalizzando le nuove forme di partecipazione sorte tra la base del chavismo. Chávez ha voluto affermare il proprio potere, non il potere popolare, per mezzo di un referendum boicottato dallo stesso movimento chavista. Per questo è necessario operare una distinzione tra Chávez e il movimento che lo sostiene.
I Sem Terra del Brasile, legati in origine alle comunità ecclesiastiche e politicamente al Pt (Partido dos Trabalhadores), oggi hanno preso in parte le distanze dal partito di Lula, in ragione delle loro differenti posizioni riguardo alla Riforma agraria e alla coltivazione degli organismi transgenici. Il movimento dei Sem Terra (Mst) è certamente uno dei movimenti più forti dell’America Latina, ma è anche quello maggiormente strutturato e verticale. Al suo interno vi sono posizioni della Chiesa progressista e una sinistra marxista piuttosto ortodossa, che aspira alla costruzione di uno Stato popolare. È un movimento molto combattivo e con una base militante negli insediamenti e nelle occupazioni della terra, ma che non lo è più a mano a mano che si sale nella struttura organizzativa, che si basa sul centralismo democratico.
Il movimento zapatista è stato quello maggiormente influenzato dal movimento libertario e anche quello che ha inciso di più nella ricerca di un cambiamento nel pensiero riguardante l’emancipazione dell’America Latina. Tuttavia, nell’ultima fase, gli zapatisti hanno smesso di guardare in basso, come hanno fatto finora, per attraversare il Messico, con l’altra campagna, guardando in basso e a sinistra. Ciò li colloca nello spazio politico della sinistra radicale, più o meno ortodossa e leninista, dove vengono reiterate le politiche che gli stessi zapatisti avevano criticato. Collocarsi non in basso, ma in basso e a sinistra, significa anche continuare a tenere in vita una categoria legata alla forma Stato che serve alla sua riproduzione.
Sempre in Messico, il movimento indigeno e popolare di Oaxaca, organizzato nell’Appo (Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca) e in un movimento ancor più esteso, noto con il nome di Comuna de Oaxaca, è stato protagonista della resistenza contro il governatore Ulises Ruiz, simbolo di anni di corruzione e di repressione. Flores Magón, anch’egli di Oaxaca, aveva già reperito nelle comunità indigene la base delle sue proposte libertarie.
In Uruguay i movimenti visibili non sono altro che strutture verticali, prive di vita. Le forze che in una certa fase furono presenti in queste strutture sono state soffocate dalle condizioni della legalità, legalità che gli stessi aderenti accettarono, correndo dietro alla carota della democrazia partecipativa e alle agevolazioni promesse dal “progressismo”, che certo non sono gratuite. Queste forze si sono sciolte nei meandri del potere, impegnate a ottenere approvazioni legali, a integrarsi nel sistema più che a costruire le proprie realtà. Ma, al di là degli intenti, l’apparato burocratico dei movimenti sociali continua a funzionare e a riprodursi per inerzia. Tuttavia, esiste anche un movimento invisibile, disperso e imprevedibile, che, partendo dalle proprie realtà e dai propri desideri, persegue l’autonomia e, basandosi sulla differenza, crea le realtà cui aspira; così, si fa carico dell’alimentazione, dell’istruzione, della salute, sottraendosi alla legalità per poter avere un luogo in cui vivere, dove far crescere generi alimentari… vivendo giorno per giorno l’avventura (in grado maggiore o minore) di costruire insieme quella realtà che ci dia la possibilità di vivere più liberi e più sani.

Nuovi contesti, nuove capacità

Uno sguardo critico sui movimenti, sulla loro fragilità, non implica un giudizio negativo. Perché da quella fragilità, dalla crisi di punti di riferimento, dalle incertezze nasce quel desiderio di creazione e ricerca di nuovi significati per le nostre vite.
I movimenti non sono puri, sono eterogenei, ibridi, sono un miscuglio di differenze con distinti tipi di impurità, ma da queste mescolanze, da questo meticciato possono nascere le trasformazioni. Dall’omogeneo, dal puro sorgono soltanto ripetizioni, mai creazioni.
Tuttavia, alcuni movimenti di base in America Latina continuano a essere intrisi dalla logica leninista, secondo la quale la politica di partito è un’istanza superiore della politica, che separa il sociale dal politico, affermando in questo modo il suo ruolo di cinghia di trasmissione delle decisioni prese nelle istanze superiori; e quando non è così, molti non si spingono oltre le rivendicazioni corporative o le pratiche clientelari.
La crisi della rappresentanza e dell’avanguardismo non sfocia automaticamente nella realizzazione di azioni autonome e nell’autorganizzazione. All’interno dei nuovi gruppi della sinistra radicale molti rivendicano strumentalmente l’autonomia degli organismi di base, ma è un’autonomia costruita al servizio di una strategia di potere. Si gioca con il concetto di indipendenza di classe e autonomia, come se fossero la stessa cosa. In Uruguay, negli anni sessanta e settanta, l’indipendenza di classe significava l’indipendenza dello Stato, dei governi di turno e dei partiti borghesi; ma non dei partiti e dei gruppi di sinistra. E questa è l’autonomia che si tenta di far passare.
La strategia del potere implica l’unione e, secondo tale strategia, qual è il luogo per eccellenza dell’unione politica se non il partito o l’organizzazione politica?
Per i movimenti sociali, non solo quelli che si limitano a fare richieste allo Stato in un atteggiamento subalterno, ma soprattutto per quelli che non vogliono restare impigliati nelle reti delle istituzioni statali, sembra chiaro che non si può continuare a lottare nello stesso modo attuato prima di questi governi, come se non fosse accaduto niente. Non è tutto uguale e la situazione attuale, che è più complessa, rende necessaria l’invenzione di nuove forme che evitino sia la cooptazione sia l’emarginazione dei movimenti; o non dovremmo forse accentuare proprio l’emarginazione, nel senso che ci troviamo ai margini di un sistema dal quale vogliamo uscire?
È un contesto nuovo che esige, e ci sfida a elaborare, nuovi concetti e pratiche, nuove e altre capacità.

Redazione di “Alter”
(traduzione di Luisa Cortese)

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Note

  1. Caracazo: rivolta popolare avvenuta il 27 febbraio 1989 contro le misure adottate dal governo neoliberista di Carlos Andrés Pérez. La repressione della rivolta provocò centinaia di morti.
  2. Piqueteros: disoccupati.