rivista anarchica
anno 38 n. 337
estate 2008


storia

Il ’68 a Zagabria e altrove. Una memoria
di Slobodan Drakulic

 

Oggi i tempi sono diversi da allora. Ma la memoria serve e quei movimenti di profonda contestazione hanno ancora molto da dirci. Lo sostiene un contestatore yugoslavo di allora, oggi professore in un’università canadese.

 

Quarant’anni fa ero uno studente di sociologia e di storia all’università di Zagabria, la mia città; ora insegno sociologia alla Ryarson University di Toronto, dove risiedo da vent’anni. Quarant’anni fa dissi ad un mio professore, durante un acceso dibattito in classe, che avremmo dovuto radere al suolo la nostra società e ricostruirla, perché era completamente marcia. Mi disse che ero pazzo; io gli dissi che era miope. Oggi io dico ai miei studenti che il mondo è completamente marcio, ma prudentemente lascio perdere la faccenda del radere al suolo. Non voglio perdere il contatto. Essi mi dicono che sono pessimista, che il mondo è molto migliore di quanto fosse decenni or sono, e che ancora migliora – progredisce – di buon passo. Io dico loro che sono realista, non pessimista, e che l’ottimismo è una forma di stupidità.
Il mio vecchio professore di un tempo ed i miei giovani studenti di oggi converrebbero che il mondo non è buono e che può anche essere cattivo qui e là, prima o poi, ma che diventerà migliore nella lunga distanza. Il mio vecchio professore era solito rilevare come noi avevamo enormemente migliorato il nostro livello di vita, superato il capitalismo, risolto i conflitti etnici e nazionali, superato le politiche elettorali borghesi, o sviluppato l’autogestione – tutto fin dal 1945. I miei studenti sono soliti rilevare che abbiamo dato spazio enorme ai diritti umani, garantito la libertà personale, estesa l’uguaglianza nelle opportunità, accolto le minoranze nel processo sociale maggioritario, o sviluppato la nostra multiculturalità – tutto fin dal 1968. I loro, peraltro diversi, punti di vista immersi in due differenti universi sociali convergono su un punto: sì, ci possono essere problemi irrisolti nella società, ma appena noi li riconosciamo, potremo risolverli, un passo per volta, nel cammino incessante e ben diretto dell’evoluzione sociale.

Profonde contraddizioni

È fuori di dubbio oggi che il mio vecchio professore andava incontro a delusioni, conformismo a parte. La società meravigliosamente migliorata e migliorantesi, che egli difendeva da me e da altri pazzi nel 1968, non sarà stata così marcia come l’avevo dipinta, ma era corrosa da profonde contraddizioni. Il nostro livello di vita in Jugoslavia dipendeva sostanzialmente dagli aiuti occidentali elargiti da Stati Uniti ed alleati. Questi aiuti venivano dati a quell’esempio di stato socialista antisovietico o di regime marxista dissidente che era la Jugoslavia. Non avevamo superato il capitalismo, ma sviluppato una sua forma statalizzata secondo schemi già sperimentati da bolscevichi e fascisti. Non avevamo risolto i conflitti etnici o nazionali, ma ne avevamo soppresso alcuni ed istituzionalizzato altri per tenerli a bada fin che si poteva. Non avevamo superato le politiche elettorali borghesi, non arrivavamo neanche a quella caricatura di democrazia. L’autogestione era realizzata soprattutto nei proclami dell’ufficialità e del partito comunista. In conclusione, il nostro meraviglioso paese era un luogo così eccellente che i suoi popoli l’hanno già raso al suolo.
Credo che oggi andranno incontro a delusioni i miei studenti. La società meravigliosamente migliorata e migliorantesi che essi difendono da me ed altri pessimisti non sarà così marcia come io la dipingo, ma è corrosa da profonde contraddizioni. Non abbiamo diffuso i diritti umani, ma semmai il loro uso come tranquillizzanti politici in casa e come eccitanti nei paesi che vogliamo destabilizzare o conquistare. Non abbiamo garantito la libertà personale in alcuna maniera sensata, se non la libertà di dedicarsi alle pratiche religiose oppure a rituali che insultano l’intelligenza umana e preservano da una libertà autentica. Le pari opportunità sono state estese illusoriamente, come qualcosa da godere nell’aldilà, mentre obbligano la gente a competere brutalmente per un po’ di potere, privilegi, benessere. Forse abbiamo accolto le minoranze nel processo sociale maggioritario, così che due omosessuali possono sposarsi, ma essi sono ancora obbligati a servirsi di uno sciamano autorizzato o di un burocrate per sancire il matrimonio e preservarli dalla paura di volare, cioè di un sesso non santificato dal dio del consumo o dallo stato. La nostra multiculturalità è aumentata, ma così da avere tanti bei conflitti etnici, religiosi, razziali e tutte le forme di estraniazione, tanto che presto a Toronto avremo una scuola secondaria “afrocentrica”, in tempo per il quarantennale dall’assassinio di Martin Luther King.
Il tutto mi porta ai ricordi e porta i ricordi a me, perciò mi sia permesso di menzionarne alcuni che mi sembrano più meritevoli di menzione e di confrontare ciò che ricordo con ciò che vedo. Per cominciare, mi ricordo che il ’68 incominciò alcuni anni prima, come altri anni significativi nella storia. Tra le sue direttrici c’era la mobilitazione politica in favore dei movimenti indipendentisti entro i vacillanti imperi europei; c’erano i nazionalismi separatisti nei confini degli stati inter-etnici, i movimenti antimilitaristi contro la gara agli armamenti tra i due blocchi della Guerra Fredda, e diversi focolai rivoluzionari in giro per il mondo.
I movimenti anticolonialisti ebbero dapprima successo e alla fine fallirono. I loro successi iniziali dettero luogo ad abbozzi di nuovi stati in Africa, Asia, America centrale ed Oceania. Il loro fallimento consistette nel rimpiazzare il colonialismo diretto con quello per procura, cosicché le vecchie colonie non sono governate dai neo-colonialisti ma da loro emissari indigeni o da una specie di “quislings” imperiali. Questo diventa evidente appena qualcuno di questi emissari diventa troppo autonomo: è prontamente messo a posto per mezzo di sovvertimenti, intimidazioni, embarghi, bombardamenti, invasioni od occupazioni. La pletora di eventi simili rende superfluo portare esempi.
I movimenti separatisti ebbero all’inizio meno successo, tanto che i becchini, in Canada, Cecoslovacchia, Etiopia, Italia, Spagna, Regno Unito, Jugoslavia ed in altri paesi, mal visti da una parte della popolazione, dovettero fermare per un po’ la loro pala. Ritornarono al lavoro dopo la rottura del blocco sovietico ed il collasso dell’URSS, ma non entro i confini della Pax Americana. Molti di noi sostengono il diritto dei popoli all’auto-determinazione, fino a quando essi non vogliono staccarsi proprio da noi; così, viva un Belize, un’Eritrea o una Slovenia libera, ma non una Catalogna, una Corsica, un Friuli, un Quebec o una Scozia.

I veri vincitori

Come nelle vecchie colonie, i successi dei nazionalismi separatisti nell’ottenere i loro stati, non furono una vittoria del popolo, liberato solo per essere dominato e sfruttato da persone etnicamente affini. I veri vincitori sono la classe dominante e gli sfruttatori – e lo stesso statalismo. Siccome queste vittorie ebbero luogo sotto l’egida del capitalismo, gli allori andarono ai caporioni ed ai burocrati. E siccome i caporioni ed i burocrati presero il potere in un momento segnato dall’egemonia di idee conservatrici e tradizionaliste, essi tesero la mano ai pilastri secolari o religiosi della legge e dell’ordine in terra, ricevendo volentieri una mano in cambio, il sostegno di masse autoritarie in cerca di un leader autoritario e di un senso di sicurezza in un mondo di instabilità sociale.
Il problema di queste operazioni è che possono anche dare l’impressione di mantenere le loro promesse, un senso di sicurezza in un mondo pericoloso, ma non sono in grado di eliminare le cause di incertezza esistenziale di fronte a tante individualità, gruppi, nazioni e regioni del mondo. Possono cambiare l’immagine del fenomeno sociale, anche ritoccarne la forma qua e là, ma possono fare ben poco al livello dei dati fondamentali. Uno stato può dirsi nazionale, può dichiarare i suoi cittadini eguali di fronte alla legge, può confortare i suoi cittadini con la crescita della sua economia, ma può fare ben poco per le diseguaglianze strutturali che dividono i connazionali tra quelli che sono benestanti, onorati e potenti e quelli che sono indebitati, disprezzati e privi di potere. Questo semplice fatto sembra essere oggi più ignorato che in passato.
I movimenti antimilitaristi e pacifisti mostrarono un considerevole potere quarant’anni fa, giocando un ruolo importante nel porre fine alla guerra in Vietnam e frenando per un po’ il neo-imperialismo. La grande debolezza di tali movimenti è che essi hanno bisogno che il militarismo e le guerre esistano, esattamente come i partiti e movimenti verdi hanno bisogno di disastri ambientali – e l’unica maniera per entrambi di sfuggire a questo legame vizioso è diventare rivoluzionari. D’altra parte, i movimenti antimilitaristi sono tramontati nel corso di quarant’anni, perché gli imperialisti hanno imparato la lezione del Vietnam. Essi non contano più su un esercito di coscritti ma su un esercito di mercenari che può essere arruolato benissimo in quel gruppo sociale che in America chiamiamo “ordinary” o gente comune, e le loro vite sono in vendita presso ogni classe sociale presentabile.
Quando la guerriglia comunista vietnamita batté i coscritti americani nell’offensiva del Tet, quaranta febbrai or sono, un brivido di preoccupato umanitarismo corse per la schiena della classe media americana. Capirono che non era il caso di mandare a morire per la loro nazione solo neri, marroni e bianchi miserabili. I ghetti neri erano in tumulto, le Pantere Nere erano all’erta per scuotere le masse dal Sogno Americano e rendevano poco raccomandabile avere battaglioni di solo neri ben armati ed addestrati e probabilmente inclini a voltare le spalle al nemico. Ma appena le truppe si imbiancarono, le coscienze dei compatrioti della classe media si fecero di colpo sensibili agli orrori della guerra. Queste coscienze ora sono in letargo perché quelli che oggi muoiono in uniforme americana sono di nuovo della specie appropriata, i poveri.
Veniamo alla opposizione rivoluzionaria ed extraparlamentare in generale, un altro fattore-chiave politico nei giorni turbolenti e tosti del ’68, oggi piuttosto addormentato. Questo è in gran parte dovuto ai suoi ranghi immensamente sparsi e pietosamente sottili. Abbiamo un movimento sociale per ogni immaginabile istanza sociale, così che sembriamo ben decisi a rivoluzionare i nostri rapporti con animali, piante, minerali, suolo, acque eccetera, ma non le nostre relazioni sociali. Si usava pensare che le nostre relazioni con gli animali sarebbe migliorata con il migliorare delle relazioni tra di noi, cioè che cambiamenti radicali nella nostra esistenza sociale avrebbe determinato cambiamenti in ogni aspetto particolare di essa. Questo concetto deduttivo di cambiamento oggi è insidiato da una visione induttiva di un cambiamento fondamentale come il risultato dell’accumularsi di tanti cambiamenti particolari. Questa immagine semplicista riposa sulla trovata di pensare in termini globali e di agire in termini locali, un ovvio prodotto cerebrale di trepido radicalismo accademico che mette sottosopra il mondo unicamente con il pensiero.
I militanti di questo radicalismo scelgono invariabilmente un epifenomeno del mondo sociale che trovano ripugnante e rivolgono su di esso gli strali del loro zelo rivoluzionario. Alcuni fanno operazioni di guerriglia contro i villani ingaggiati per tagliare una foresta per un magro salario, mentre altri distribuiscono settimanalmente un vivaio di alberi in sortite radicali che proclamano il diritto degli orsi polari al ghiaccio. Alcuni sfidano il mare e i Terranoviani disoccupati per difendere esseri viventi nostri amici, le foche, mentre altri dichiarano guerra agli indumenti di plastica. Alcuni chiedono case sovvenzionate per i poveri, mentre altri mirano ad una tassazione ridotta e ad un minore controllo della società. Certi chiedono il disarmo universale ed altri un intervento occidentale armato in Darfur. In breve, molte cose nell’odierno radicalismo mi ricordano lo shopping. Si fa una lista di belle e vantaggiose cose, pace, libertà, eguaglianza, raffreddamento globale e quant’altro, e ci si dirige al market politico a comperarne qualcuna attraverso organizzazioni che si specializzano nell’alleviare i disturbi sociali, oppure appellandosi all’onnipotente governo affinché salvi la società civile da lui stesso.

Ma quale “società civile”?

Dovrei menzionare un’altra forma di radicalismo indicata con il termine “ritirata” dal sociologo funzionalista americano Robert Merton. È nota anche come comunitarismo, comunalismo o più generalmente controcultura. Essa ha avuto un declino nei due ultimi decenni. Anch’io, come altri individui che hanno passato molto tempo della loro vita nel futile tentativo di trovar rifugio nell’elusiva quiete della campagna, passo molto del mio tempo in una vecchia casa nel Quebec, sul fiume Ottawa, un’ora a nord di un’area dove dei “ritiratisti” si sono stabiliti in passato. Alcuni fanno vasellame, altri soffiano il vetro (ma uno si è ritirato proprio l’anno scorso causa l’artrite), alcuni gestiscono locande o ristoranti, altri vendono libri usati (ma uno si è ritirato proprio l’anno scorso causa disturbi cardiaci), certi suonano musica folk progressista (o lo facevano, prima di diventare troppo vecchi).
Il problema della “ritirata” è che non c’è più nessun posto per ritirarsi .Non c’è né terra né acqua né aria lasciata libera sulla terra e si può già comprare appezzamenti sulla luna o su Marte su internet. Qui in Canada, ogni territorio non privato, non cooperativizzato, non riservato agli Aborigeni, è terra della corona, perché siamo ancora una monarchia, fedele all’ombra della nostra metropoli di un tempo. Per di più siamo uno dei bastioni del Mondo Libero – o capitalismo – e non c’è terra libera in un simile mondo. O sei tu a possederla, o sono essi, o sono io, o la possiede il governo, ma nessuna terra è libera e nessuna può esserlo, perché farebbe pensare alla possibilità di ritirarsi dallo stato e dal capitale – e questo deve rimanere impossibile per la sopravvivenza del mondo libero. Ecco perché i miei vicini ritiratisti soffieranno vetro, venderanno vecchi libri, posti letto, colazioni, pranzi, vasellame e quant’altro finché i loro polmoni, occhi, mani o gambe li serviranno – e poi si ritireranno nell’oblio.
Certo, un imprenditore neo-hippy può fondare una Comune di Ritirata Radicale, con contributi governativi, e con quella fare soldi. Per dirla tutta, alcune delle maggiori fonti di ispirazione formatesi intorno al ’68 si sono prosciugate o si sono disperse in diverse campagne – culturali, ecologiche, etniche, razziali, religiose, ritiratiste – ognuna suddivisa in obiettivi divergenti o reciprocamente incompatibili. I movimenti anti-coloniali, separatisti, antimilitaristi e pacifisti, non erano rivoluzionari, ed i movimenti che si consideravano rivoluzionari raramente lo erano in senso stretto. Alcuni praticamente sostengono la stratificazione sociale e l’autoritarismo auspicando l’autodeterminazione e l’autogoverno (eufemismo per statalismo), il tutto ben confezionato nella retorica della società civile (come se la società civile fosse diversa dalla società di classe, pertanto del tutto incivile),
Varie direzioni nazionali che magnificano l’autogoverno e la società civile oggi vogliono opprimere i loro compatrioti con la minore interferenza possibile da parte di stranieri, come fiduciari locali del capitalismo globale. Il loro nazionalistico “uniamoci-e-marciamo” ha nostalgia di maestri cresciuti in casa e di fruste e catene fatte in casa, ed il loro patriottismo è rispettato dalle democrazie liberali – in realtà ritualizzate abdicazioni di massa dal diritto di auto-decisionalità da parte dell’elettorato, chiamato a raccolta, nel giorno stabilito, per eleggere alcune persone peggiori di lui per governarlo. Questo evidente atto di auto-infatilizzazione – laddove ci appelliamo ai nostri padrini politici e diamo loro il titolo per dirci come dobbiamo vivere la nostra vita – è glorificato come libertà e democrazia, panacea per ogni sorta di nequizie ed ingiustizie globalizzate con tutti i mezzi di propaganda disponibili, pressioni politiche, embargo, sovversione o invasione. Questo può ricordarci che è il sessantesimo anniversario di 1984, il libro di George Orwell, un tema delle mie lezioni di aprile.
Le cause più varie, sposate dai diversi movimenti, sostengono lo status quo nel darsi da fare per migliorarlo. Ci offrono in borsa titoli di imprese ecologiche, equo commercio di caffè tra i peones sudamericani e gli Yuppies nordamericani, tetti verdi sui nostri grigi agglomerati urbani, automobili più efficienti, mulini eolici e pannelli solari, una più umana caccia alle foche, riciclo di spazzatura, rappresentanza proporzionale di ogni categoria etnica, razziale, religiosa, sessuale e così via per ogni gruppo culturale, economica e politica. Ci offrono un capitalismo reso razionale ed imbrigliato in uno stato provvido ed umano, come se la soluzione dei problemi creati e mantenuti ed aggravati dal capitalismo e dallo stato potesse trovarsi nel loro miglioramento e manutenzione.
Un sociologo tedesco morto da tempo, Max Weber, affermò che lo stato ha il monopolio della violenza nella società, ed il sociologo americano Charles Tilly aggiunse parecchi anni fa che c’è un affascinante parallelo tra lo stato e la criminalità organizzata: entrambi hanno il monopolio della violenza dentro i loro territori ed entrambi estorcono denaro in cambio di protezione da altri stati o da altre organizzazioni criminali. Se i miei sociologi hanno ragione, migliorare lo stato significa migliorare il suo monopolio sulla violenza ed il sistema di estorsione per la protezione, affondandoci sempre di più in nuovi e migliori sistemi di stato di sicurezza che crescono come funghi in giro per il mondo libero e le democrazie liberali.
Lo stesso vale per il capitalismo razionalizzato, migliorato ed umanizzato. Dobbiamo ricordarci che Pierre-Joseph Proudhon ha detto una volta che la proprietà è un furto – ed il capitalismo riposa sulla proprietà privata. Se è così il capitalismo razionalizzato, migliorato ed umanizzato riposerebbe sul furto razionalizzato, migliorato ed umanizzato. Ciò può essere preferibile ad uno stato fascista o teocratico, ma confronti simili non sono né lusinghieri né commendevoli.

In senso critico

Ma allora, che fare? Vediamo. Uno sguardo alla storia delle rivoluzioni sociali rivela che l’umanità, o alcuni suoi segmenti, passa attraverso periodi rivoluzionari e conservatori, e questa alternanza non è chiara e non è il tema presente. Il ’68 cadeva intorno allo spartiacque tra un periodo rivoluzionario ed uno conservatore che continua ancora. Questi tempi possono non essere propizi per mobilitazioni rivoluzionarie, ma non dovrebbero essere rimossi. Essi sono propizi per riflessioni sul mondo sociale e sulla possibilità di una sua trasformazione radicale – dalla società classista alla società umana. Questo non è un compito facile in un universo sociale pesantemente ideologizzato ed in rapido cambiamento, resistente a facili interpretazioni e soluzioni. Queste possono essere reperite attraverso lo studio sociologico e storico in senso critico del mondo sociale e delle maggiori forze sociali in lotta per trasformarlo o preservarlo, e ciò richiede una memoria storica. Così, contrariamente a Daniel Cohn-Bendit, penso che il ’68 debba essere ricordato – al di là di una nostalgia celebrativa o di un rigetto misantropo – con quanta maggiore chiarezza ed equilibrio possibile. Ecco dunque queste memorie.

Slobodan Drakulic

Slobodan Drakulic ha svolto i propri studi all’Università di Zagabria con il fondatore della sociologia in Croazia e li ha terminati all’Università di Toronto. Ha insegnato Sociologia e Antropologia per quasi trent’anni.
Ha partecipato al convegno sull’autogestione promosso dal Centro Studi Libertari (Venezia, 1979) dove ha preso contatto con gli anarchici di Trieste e ha iniziato una lunga collaborazione con la rivista “Germinal”.
Nel 1985 si è trasferito a Toronto dove ha frequentato i vecchi libertari italiani e spagnoli.
Ha molte pubblicazioni nel campo dei movimenti sociali, educazione, guerriglia urbana, nazionalismo e guerra. Di recente si è occupato del passato e del presente del nazionalismo croato e sta conducendo ricerche sui movimenti nazionalisti nell’età contemporanea.