rivista anarchica
anno 38 n. 337
estate 2008


lotte

The Brig
di Cristina Valenti

 

Il recente tour italiano del Living Theatre, con Hanon Reznikov – recentemente scomparso – nel cuore.

 

Il Living Theatre sta vivendo attualmente due momenti drammaticamente contrapposti. Judith Malina è a New York, affranta dalla morte di Hanon Reznikov, dopo aver realizzato insieme a lui il sogno della sua vita, l’apertura del Teatro di Clinton Street, nello stesso edificio in cui ha trasferito il suo appartamento. E la compagnia porta in giro per l’Europa The Brig lo spettacolo che lei ha nuovamente diretto, dopo 45 anni dalla prima messa in scena, e che ha inaugurato lo spazio di New York il 26 aprile 2007. Dopo quasi 200 repliche negli Stati Uniti, coronate da due Obie Awards per la regia e l’ensemble degli attori, lo spettacolo sta raccogliendo analogo consenso in Europa, e in particolare in Italia, dove ha toccato nella scorsa primavera le città di Firenze, Roma, Napoli, Torino, Trieste, Bergamo.
The Brig, atto II, scena 2: Il Prigioniero Numero Sei viene
immobilizzato dopo la crisi di nervi. In primo piano
Gary Brackett. (Foto © Bernd Uhlig, Warthestrasse)

La storia dello spettacolo è nota. Kenneth Brown, autore del copione, era un ex marine che nel 1957, diciannovenne, fu condannato a trenta giorni di carcere presso la base di Okinawa, in Giappone, dove era di stanza con la sua truppa. Fu così che entrò nel brig, luogo di disciplina ferrea e di regole inflessibili, applicate con brutalità estrema. Deciso a raccontare quell’esperienza, lo fece attraverso un lavoro teatrale, convinto che «il solo modo in cui un individuo può fare esperienza dell’esperienza di qualcun altro è farla sulla scena». Il suo testo giunse a Julian Beck e Judith Malina che decisero immediatamente di metterlo in scena. In anni in cui porre sotto accusa il glorioso Corpo dei Marines non era in alcun modo tollerato negli Stati Uniti, lo spettacolo rappresentò di fatto un’esperienza autentica per gli spettatori, producendo un impatto tale da motivare la chiusura del Teatro della Quattordicesima Strada da parte delle autorità, e quindi il carcere per Julian Beck e Judith Malina e il conseguente “esilio” europeo della compagnia. Le parole di Judith Malina (tratte dal libro segnalato in queste pagine, Storia del Living Theatre. Conversazioni con Judith Malina, p. 115) restituiscono l’immagine di quella deflagrazione teatrale: «La rigidità del Corpo dei Marines in The Brig è una forma artaudiana: segnala al pubblico, attraverso le fiamme della rappresentazione, la rigidità della struttura militaresca. […] Insegnare questa forma era il lavoro di The Brig e mostrare quanto orrenda fosse era il segnale lanciato fra le fiamme».
Tale segnale dimostra di giungere ancora, con forza inalterata e un’attualità che non si vorrebbe più tale, in uno scenario internazionale che, a partire dalle immagini provenienti da Abu Ghraib e Guantanamo, ha ampiamente motivato la decisione di Judith Malina di dirigere nuovamente lo spettacolo con una compagnia di attori straordinari, per lo più giovanissimi (ma fra le guardie c’è anche un bravissimo Gary Brackett).
Si parla di remake, ma la definizione risulta persino fuorviante alla luce dei risultati. Lo spettacolo infatti è attuale di per sé, non solo in quanto dimostrazione di una persistente vitalità, ma per una forza e una bellezza che si impongono al di fuori di ogni possibile paragone.
Uno spettacolo che contiene un lungo pezzo di storia, ma leggibile anche senza riferimenti alla storia. Non bello perché resiste ai tempi, ma perché parla ai nostri tempi e dimostra di superarne per certi versi anche le più agguerrite infrazioni teatrali. Eppure non contiene nessuno degli elementi a cui oggi il teatro tende a far ricorso per esplorare i limiti estremi della rappresentazione. Uno spettacolo che non ricorre a scandalismi per essere scandaloso (vergognoso, indecente e oltraggioso dei concetti di umana dignità e convivenza), che non ricorre all’esposizione dell’orrore per essere raccapricciante. Le immagini giunte da Guantanamo, in fondo, ci hanno raccontato pratiche ben peggiori, eppure siamo sicuri di non aver mai provato un senso di empatia così intollerabile come quello che ci hanno suscitato le vessazioni dei prigionieri nel brig. Bastano i pugni nello stomaco e l’ordinarietà delle punizioni. Nessun compiacimento, nessun ammiccamento, tutto affidato al rigore di un meccanismo inesorabile e a suo modo algido, iperrealista ed assolutamente astratto, dove è assai concreto, però, il sudore degli attori, il loro sforzo straordinario ma mai esibito, il loro sacrificio senza remunerazione.
Allo spettacolo hanno assistito diversi studenti del Corso di laurea specialistica in Discipline Teatrali dell’Università di Bologna, che hanno frequentato quest’anno le mie lezioni dedicate al Living Theatre all’interno dell’insegnamento di Storia del Nuovo Teatro. Nove di loro hanno scritto le loro impressioni, alle quali ho voluto affidare la parte centrale di questo dossier sul Living Theatre oggi. I loro testi ci parlano inequivocabilmente dello spettacolo di oggi, senza alcuna possibilità di spiegare il presente col passato del Living e di The Brig nella fattispecie, ma ci parlano anche di chi li ha scritti, del loro sguardo sul teatro e sul mondo, di una generazione di giovani studenti che nulla ha a che fare con la rappresentazione mediatica dell’universo giovanile. Per molti di noi docenti è cosa risaputa. Molto meno lo è per la nostra decrepita società che sempre meno ne prevede l’accoglienza.

Cristina Valenti

È appena uscito in libreria il libro di
Cristina Valenti, Storia del Living Theatre.
Conversazioni con Judith Malina
,
Corazzano, Titivillus, 2008. Nuova edizione
aggiornata e accresciuta, con foto di
Marco Caselli Nirmal


Francesca Giuliani
Limpidi quadri di denuncia

Interno, notte. Silenzio. Luce soffusa.
Una rete di filo spinato separa la platea dalla scena. Al centro, una gabbia racchiude cinque letti a castello. Inferriate, porte sbarrate, guardie in divisa. La striscia di ghiaia davanti alla rete segna il limite ultimo, lo spazio delimitato della prigione.
Le luci in sala si spengono. Quattro carcerieri in scena: parlano a bassa voce sghignazzando, uno è seduto a una scrivania e scrive. Aspettano. Dieci detenuti, rinchiusi nella gabbia. Immobili, dormono.
Quattro del mattino. Allarme assordante e manganellate contro le sbarre. La caserma si sveglia. Luci improvvise e accecanti. Grande confusione di ordini impartiti ed eseguiti.
Le scene si susseguono come limpidi quadri di denuncia. I continui controlli personali, la sigaretta “obbligatoria” fumata in gruppo, le grandi pulizie, le continue punizioni e le violenze gratuite che fanno più volte crollare a terra i corpi stremati dei dieci prigionieri. Non ci sono più persone, ma figure, numeri gridati e continuamente umiliati. Gli occhi vuoti sono come assenti, come se non vedessero niente altro che quel terrore che, muti, esprimono.
Attraverso la ripetizione perfetta dell’orrore, il Living continua a trasmettere il messaggio di accusa lanciato nel 1963 con la prima messa in scena di The Brig al Teatro della Quattordicesima Strada di New York: contro la malvagia bestialità degli uomini e contro i crudeli meccanismi architettati dal potere per annientare chi non si sottomette davanti alle sue leggi.
Si spengono le luci. Buio. Fine.


Diana Costa
Una drammaturgia della realtà

Impegno civile e politico, in senso libertario, sono ciò che caratterizzano la forma teatrale del Living Theatre che opera ormai da sessant’anni. The Brig, spettacolo che rappresenta la struttura sociale oppressiva per eccellenza, vede oggi cimentarsi le nuove leve del gruppo.
Si tratta di una pièce in cui la violenza nelle carceri, ancora di sconcertante attualità, fa tenere il fiato sospeso per due ore intense.
Una sensazione di claustrofobia avvolge gli spettatori fin dall’inizio, quando si guarda quella gabbia rettangolare delimitata da filo spinato che toglie ogni possibile via di fuga, anche solo immaginaria.
E da quel momento tutte le azioni sceniche seguono un ritmo serrato in costante crescita. Sono corpi e voci che creano un tappeto sonoro continuo, che rimbomba in tutta la sala: non ci si può distrarre, si rimane incollati alla sedia e ci si sente impotenti dinanzi a tale brutalità.
Una drammaturgia della realtà, quella di Kenneth Brown, che viene restituita con assoluta autenticità dalla regia di Judith Malina.
Gli applausi non volevano cessare, eppure c’è anche qualcuno dei nuovi attori che non riesce a capire l’importanza di quella compagnia, di quanto sia apprezzata in Europa e di quanto il suo lavoro sia stato fondamentale, e abbia cambiato la fisionomia del teatro moderno.


Alessandra Consonni
Il dovere di non dimenticare

Un frammento di storia e di realtà.
Un incontro tra arte e vita.
Una condivisione di crudeltà.
The Brig è l’inferno,
la perdita di ogni libertà e dignità.
È vietato fare domande,
sognare, pensare.
Si eseguono gli ordini in maniera
meccanica.
Il tempo non passa mai,
le giornate sono tutte uguali,
Privi di un nome, senza più ricordare,
con gli occhi vuoti e il freddo nel cuore,
i detenuti vengono torturati
per un sì o per un no.
Non conoscono pace.
Vendetta, rabbia e percosse
senza un perché.
E così la vita si spegne
con un semplice click
dell’interrotture elettrico.
Buio.

Il pubblico vive un’esperienza crudele ma indimenticabile. Lo spettatore è osservatore attivo, testimone di una verità atroce.
The Brig è uno spettacolo da vivere più che da vedere, che arriva al cuore.
È uno spettacolo che contiene un forte messaggio che ogni essere umano dovrebbe avere il diritto di ascoltare e il dovere di non dimenticare.


Chiara Mariscalco
Più consapevole della brutalità

Uno spazio aperto senza sipario rappresenta una prigione, diviso soltanto da un “muro” di filo spinato. I detenuti all’interno delle celle e le guardie che li sorvegliano. Urla, insulti, azioni fisiche molto intense; passa in secondo piano la parola, ovviamente in inglese e difficile da comprendere, ma non importa. L’azione diventa la protagonista principale: con le sue ferree geometrie e lo sforzo concentrato dei prigionieri che sudano fino all’inverosimile. A tratti mi spaventano, a tratti mi fanno piangere, a tratti mi fanno semplicemente pensare. Esco dalla Stazione Leopolda di Firenze dopo un’ora e mezza dalla fine dello spettacolo e ritorno a casa più consapevole di quello che il Living mi ha raccontato sulla brutalità e la ferinità della detenzione.


Maria Pina Sestili
Il fardello delle immagini

È un’immagine surreale quella che si presenta ai miei occhi. Quei corpi giovani e atletici che violentano altri corpi, invecchiati dalla paura; quel rimbombo di scarponi picchiati sonoramente sul pavimento; quel continuo urlare parole in codice militare. Il coinvolgimento completo nonostante una lingua non mia. La voglia di entrare nel brig e fermare quella ferocia.
È stato fortissimo l’impatto con The Brig: non era la trappola di cartapesta della rappresentazione a destare in me queste sensazioni, ma la peste, l’epidemia, il virus della crudeltà che mi aveva contagiato. È la legge di Darwin: per selezione naturale e casuale, esisterà sempre il più forte che sottometterà il più debole, nella lotta alla sopravvivenza. Non sembra esserci posto per tutti.
Ma, chi si estinguerà?


Chiara Cosentino
Impressioni dell’oppressione

Una continua marcia che diventa musica, lamento, rumore, scandisce le azioni. Nessun nome, solo numeri; nessun pensiero, solo azione; le identità sono cancellate. Non sono uomini, ma prigionieri. Siamo di fronte alla disumanizzazione dell’uomo. Fino a quando qualcuno non decide di ribellarsi, di urlare il proprio nome, di rivendicare la propria condizione di essere umano. Ma è un atto individuale, e l’individuo da solo non può far nulla, se tutti non prendono coscienza che forse qualcosa si può cambiare. Ero di fronte e dentro alla messa in scena dell’oppressione, e tutti ci stavamo attenendo alla nostra parte. Il testo parla di un passato sempre attuale. Lo sconforto del non cambiamento lascia l’amaro in bocca. L’uomo è prigioniero di se stesso, perché la paura lo porta a non agire. Un urlo non può far cambiare, ma la forza e la voglia di urlare devono essere riconquistate. Vedere il Living Theatre è stata un’esperienza unica. Come 45 anni fa, lo spettacolo porta lo spettatore a interrogarsi, a fargli provare l’oppressione sulla pelle, a fargli comprendere che non bisogna abituarsi all’oppressione, ma provare a reagire in qualche modo, individualmente e collettivamente, riconoscendo nel prossimo un essere umano e non un nemico. Soprattutto quando ci vengono mostrati ogni giorno nuovi e diversi nemici, mentre la paura e l’insicurezza prendono il posto della conoscenza e del rispetto. Omologazione e ignoranza sono le armi per assopire gli individui e continuare ad opprimere.


Saula Nardinocchi
Uno spettacolo da vivere

Mi convinco sempre di più che il teatro debba essere vissuto. Nessun libro o registrazione filmica può rendere la potenza di uno spettacolo come The Brig. Lo spettatore diventa testimone di un’esperienza di vita reale attraverso l’estremo rigore dell’agire teatrale. Quello che mi colpisce ogni volta in spettacoli come questo è la sensazione di avere davanti un corpo organico di cui si riesce a sentire ogni manifestazione vitale, il battito, il respiro... l’attore ne diventa la sineddoche.
The Brig è partitura visiva, musicale e spaziale. Ogni linguaggio sembra avere una sua autonomia anche se separato dagli altri, e acquista una complessità straordinaria nell’accordo complessivo.
The Brig vive di un suo ritmo, di un suo specifico timbro e di una teatralità pura che lo rende interessante e attuale dopo più di quarant’anni dal suo debutto. Ancora oggi continua a porci domande su questioni centrali, come la relazione con lo spettatore, con lo spazio e con l’azione.
Credo sia importante mantenere viva l’eredità del Living, anche rinnovandola e rimettendola sempre in discussione, proprio per il fatto che il Living è, forse, una delle più importanti compagnie teatrali che ha scelto di non rinchiudersi in un museo, ma di mantenere acceso il suo messaggio che lancia tra le fiamme, come ancora ci ricorda citando Artaud.


Marzia Nencioli
Il Brig dentro di noi

La Prigione, The Brig, simbolo di un’umanità terrorizzata dall’esercizio della libertà individuale e collettiva. Libertà che, se scarcerata, farebbe crollare come un castello di carte l’ipocrisia di una società ingiusta. La paura di chi detiene il potere si manifesta nella coercizione fisica e nella persuasione coatta del pensiero. Il Living Theatre con lo spettacolo The Brig, andato in scena per la prima volta nel ’63 e quanto mai attuale, ci mostra senza riserve la prigione in cui viviamo. Il Brig è dentro ciascuno di noi. I valori del Living riecheggiano nella contemporaneità invitando le nuove generazioni alla lotta e all’esercizio della libertà. Donare agli uomini la Coscienza: ecco il Teatro.


Serena Facioni
Lo scheletro del sistema

The Brig non è denuncia. The Brig non è teatro politico. The Brig è analisi. È una declinazione della violenza e della paura. La gabbia diventa così un modo e non semplicemente un luogo.
The Brig svela lo scheletro del nostro sistema educativo, lo sveste dai suoi abiti puliti e stirati. Mette a fuoco un metodo di allevamento intensivo camuffato da democrazia.
Lo spettacolo parla e dice: “Queste sono le fondamenta”. A noi il primo passo, ancora rimasto incompiuto, per la loro destrutturazione.
The Brig è il primo grido. Nel 1963. Nel 2008.